BES: Bisogni Educativi Speciali. Relazione scuola-famiglia e ruolo dello psicologo scolastico

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L \\\'Autore di questo articolo è uno psicologo o psicoterapeuta.

psicologo scolastico

Quando i figli hanno difficoltà scolastiche può crearsi un braccio di ferro tra scuola e famiglia. Per gli insegnanti non è semplice comunicare le carenze degli alunni ai genitori; questi ultimi pongono frequentemente in atto modalità difensive che rendono complessa la relazione.

Si oppongono, attribuiscono ogni responsabilità alla scuola, sminuiscono i metodi d’insegnamento e, tutto questo, a sua volta, provoca reazioni nei docenti. Viene a crearsi così un clima sfavorevole, che crea tensione, che impedisce agli alunni di vivere con serenità l’esperienza scolastica.

Nuovi contesti

La famiglia è un sistema che vive in un costante movimento e che si trova ad affrontare molti eventi critici durante il suo ciclo vitale. Il momento storico che stiamo vivendo è caratterizzato da cambiamenti significativi, da un aumento delle separazioni, dall’emergere di nuove tipologie di famiglia e da trasformazioni nei ruoli. Tutti questi aspetti rendono spesso difficile rispettare i necessari compiti di sviluppo e soddisfare i bisogni dei figli con risposte adeguate all’età e alle caratteristiche personali.

La scuola si trova ad affrontare molte difficoltà; le classi sono troppo numerose, il precariato dei docenti e del personale in genere crea incertezza e tensione, il tempo scuola è ridotto, mancano ore di compresenza, che sarebbero indispensabili per portare avanti attività di potenziamento delle competenze, mancano fondi per cui si assiste a una riduzione sia dei progetti sia dell’acquisto di materiali utili.

Sia in un ambito sia nell’altro i bambini possono percepire quindi un clima di tensione di nervosismo, che ostacola il senso del piacere nel vivere la quotidianità. In modo particolare la mancanza di tempo a disposizione toglie molto all’organizzazione delle esperienze e alla relazione e tende a far prevalere un’attenzione sui prodotti, sui risultati, sulla mera esecuzione delle attività, anziché sui processi, sulle fasi esecutive, sui metodi.

Lo zaino dei bambini in procinto di iniziare l’avventura scolastica contiene i materiali necessari, ma è gonfio anche di stili relazionali, di modelli, di atteggiamenti appresi in famiglia. Contiene inoltre le attese, i desideri, le curiosità, i bisogni, le competenze fino a quel momento apprese, le esperienze vissute nei precedenti contesti educativi.

Difficoltà e idealizzazione

Con l’ingresso nella scuola primaria i bambini avrebbero bisogno di una buona accoglienza, ma anche del rispetto, da parte delle figure adulte di riferimento, di quelle che sono le esperienze pregresse e le capacità di partenza. Per gli alunni è importante sentirsi apprezzati per ciò che portano, non denigrati per quel che manca loro.

Perché questo sia possibile è indispensabile un’adeguata competenza professionale, che include ovviamente la capacità di stare in relazione, di osservare, di sostenere i processi di sviluppo, evitando di fare costantemente riferimento a quell’alunno ideale con il quale è difficile identificarsi; quell’alunno perfetto, che assume sempre comportamenti adeguati, che apprende con velocità strepitosa, che è fonte di costante gratificazione, che mantiene in memoria le strategie e i contenuti appresi e li riutilizza all’occorrenza. Questo bambino non esiste, ma è senz’altro sulla sua inesistenza che sono stati elaborati i programmi ministeriali e le prove di valutazione.

Certo è che quando ci sono difficoltà, gli alunni devono fare i conti con due modelli irraggiungibili: il figlio ideale e l’alunno ideale. Questo aumenta i livelli di frustrazione e rende difficile la consapevolezza delle proprie capacità, perché è come se l’impegno e le conquiste non fossero mai sufficienti, ci fossero sempre sentieri intricati da percorrere e montagne da scalare.

Il tempo per osservare, per conoscere e conoscersi è un tempo che i docenti devono potersi concedere, per creare quel clima di accoglienza e quella base di serenità in cui trovano posto anche le differenze personalizzanti e le difficoltà. Se i docenti riescono a stare dalla parte degli alunni, a porsi nei loro panni, a vivere l’esperienza scolastica insieme a loro gli obiettivi sono più facilmente raggiungibili. Questo non significa perdere il proprio ruolo; l’autorevolezza è un’altra cosa e consiste nel trasmettere ai ragazzi che ciò che stiamo facendo è davvero importante, nell’avere prestigio ai loro occhi, nello stabilire regole di convivenza condivise.

Autostima

Che cos’è l’autostima? L’autostima è il giudizio o la valutazione che ciascuno di noi ha di se stesso e delle proprie prestazioni nei diversi contesti personali, familiari e sociali in cui è inserito. Questa valutazione, soprattutto nei bambini, è strettamente legata alla consapevolezza, più o meno presente, del proprio valore agli occhi degli altri significativi: genitori, insegnanti, compagni.

L’autostima inizia a costruirsi quindi fin dalla nascita ed è connessa con la relazione affettiva che s’instaura con i genitori, i quali, fin dai primi giorni di vita, devono infondere nei figli quel senso di fiducia e sicurezza che è garanzia di un legame affettivo sufficientemente buono. I genitori sono lo specchio in cui i figli si riflettono e l’immagine che ne viene rimandata è quella che, per lungo tempo ci portiamo dentro, ma è anche un’immagine via via modificabile, attraverso quella serie di “ritocchi”, perfezionamenti e rifiniture che le nostre esperienze ci danno la possibilità di eseguire, grazie ai piccoli e grandi successi, grazie all’approvazione che riceviamo dagli altri.

Non possiamo quindi pensare che un bambino, come sua caratteristica personale, possa essere sicuro di sé, fiducioso o meno nelle sue possibilità, al di là dell’immagine di se stesso che vede proiettata negli occhi degli altri.

La scuola è il terreno di gioco nel quale i bambini si mettono maggiormente alla prova e dove, spesso, le sconfitte sono più scottanti. Autostimarsi significa valutare le proprie caratteristiche, “darsi un voto”, ma tutto questo si svolge sulla base di un confronto con gli altri.

Già in famiglia essi possono essersi sentiti confrontati con i fratelli o con i coetanei, ma con l’ingresso nella scuola primaria tutto si amplifica. Gli alunni stessi si confrontano con i compagni, controllano reciprocamente i risultati delle verifiche, si stimolano a vicenda in una manifesta o sottesa competizione, controllano i tempi di esecuzione del lavoro e, talvolta, cedono le armi, si ritirano dalla “gara”. Chi entra in classe già sfiduciato non prova neanche ad attivarsi, si sente sconfitto in partenza, ritiene che ogni proposta sia troppo difficile per lui.

La scuola è un’esperienza totalizzante nella vita dei bambini, sia per il tempo giornaliero che essi vi trascorrono che per le esperienze cognitive, affettive e relazionali vissute al suo interno; la scuola primaria, in modo particolare, accoglie alunni nell’età di latenza, periodo dello sviluppo caratterizzato da un forte investimento nell’apprendere, nel soddisfare curiosità, nel soddisfare il desiderio di conoscenza.

Ma i livelli di sviluppo cognitivo dei bambini sono personali e non sempre corrispondono alle attese degli adulti; non di rado questi ultimi possono dare ai piccoli la sensazione che ciò che essi imparano non basta mai, che i loro risultati non sono mai soddisfacenti; ecco che il piacere della scoperta si riduce e subentra uno stato di apprensione per il compito, per la prestazione.

L’autostima dei bambini e dei ragazzi è quindi strettamente correlata con le aspettative degli adulti; essi si sintonizzano con facilità con la delusione dei grandi, colgono nel loro sguardo una valutazione del proprio operato, rimangono intrappolati in una duplice frustrazione: la propria e l’altrui. D’altro canto gli adulti, e in particolare i genitori, misurano le proprie competenze con i risultati ottenuti dai figli, innescando così un gioco senza fine.

Autostima e difficoltà degli alunni

I bambini immaturi sono sempre posti di fronte a richieste troppo grandi per loro e, anche in questo caso, l’autostima viene a mancare, mentre i bambini particolarmente ansiosi possono riconoscere, almeno in parte, le proprie capacità, ma l’ansia da prestazione gioca loro brutti scherzi e, alla fine, i risultati che ottengono non sono soddisfacenti, la gratificazione che ottengono non è pari alla fatica e, come in un gioco senza fine, non alimenta l’autostima.

I bambini che presentano Disturbo Specifico di Apprendimento hanno solitamente livelli bassi di autostima ed hanno quasi sempre vissuto sulla propria pelle il crollo delle aspettative dei genitori, i quali, prima dell’impatto con la scuola, ritenevano di avere un figlio capace, adeguato, competente.

Il team docente

Un altro aspetto fondamentale è la coerenza educativa che riguarda gli accordi all’interno del team. Quest’ultimo, per poter davvero offrire basi solide educative e relazionali dovrebbe offrire una compattezza di intenti, una condivisione di obiettivi non solo sulla carta, ma soprattutto attraverso atteggiamenti e comportamenti idonei.

La solidarietà e coesione nel gruppo di lavoro è garanzia di legami sicuri, all’interno dei quali gli alunni possono sentirsi davvero accolti. Già in famiglia essi sperimentano con una certa frequenza il disaccordo e livelli discordanti di comunicazione e d’ intenzionalità; se ciò si ripete anche all’interno della scuola i bambini e i ragazzi si disorientano e perdono fiducia nelle figure adulte di riferimento.

Per questo e per altro ancora è indispensabile che il team docente sia capace di pianificare riunioni efficaci, superando inutili formalità, ripensando a un modo creativo di stabilire la relazione, esplicitando bisogni e obiettivi condivisi e raggiungibili.

All’interno del team si formano normalmente conflitti, per il semplice fatto che esso è comporto di individui, ciascuno dei quali ha propri attributi, propri stili relazionali; non accogliere il conflitto significa tenerlo sotto la cenere, alimentarlo senza però affrontarne i contenuti. Anche di fronte agli alunni in difficoltà i docenti del team hanno frequentemente pareri discordanti.

Chi descrive le caratteristiche dei soggetti analizzandole minuziosamente, chi afferma che, all’interno delle proprie ore di lezione, non si manifestano particolari problemi, chi sostiene l’estrema difficoltà nel portare avanti le attività didattiche e via dicendo. L’immagine discordante viene rimandata anche durante i colloqui con i genitori, provocando ulteriore smarrimento e ostacolando la ricerca di una conoscenza più approfondita sulle cause delle difficoltà.

Insegnanti e genitori

Scuola e famiglia sono contesti con finalità educative diverse e non devono essere confusi, ma la collaborazione, lo scambio, il rispetto reciproco dei ruoli differenti, rendono il “tragitto” da casa a scuola più sereno e meno tortuoso. Oltre agli incontri con i gruppi di genitori, sono di fondamentale importanza i colloqui individuali, per scambiarsi conoscenze, per accordarsi sulle finalità da perseguire per giungere insieme a una descrizione non solo delle difficoltà, ma anche delle risorse del bambino.

La relazione scuola famiglia deve accompagnare il percorso dei bambini fin dal loro primo ingresso, attraverso incontri con i genitori, per una reciproca conoscenza, per comunicare le linee essenziali del programma, per condividere gli obiettivi educativi e promuovere comportamenti positivi. Tutto questo nel rispetto delle differenze, evitando confusione di ruoli. La chiarezza sulle differenze serve a evitare pericolose intromissioni e ingerenze reciproche.

Uno dei temi più dibattuti all’interno del conflitto scuola famiglia riguarda i compiti a casa. Genitori che li bramano come fossero l’unica testimonianza del loro successo e del buon funzionamento della scuola scelta per i loro figli, altri che li detestano, che protestano, che giudicano la scelta dei docenti.

Ma qual è il senso del compito a casa? Sicuramente quello preparare gli alunni allo studio individuale, stimolandoli alla revisione dei contenuti proposti in classe, allenandoli per un’automatizzazione delle strumentalità di base. Quindi questi compiti dovrebbero esclusivamente essere attività già svolte in aula, che i bambini e i ragazzi ricontrollano tra le mura domestiche, attraverso una rilettura, una verifica della propria comprensione, una riconnessione con quanto precedentemente appreso.

Il compito a casa dovrebbe quindi promuovere obiettivi di tipo metacognitivo ( “Oggi ho imparato …”; “ho capito che …”; “sapevo… ora so anche …”, ecc.), che preparano gradualmente alla consapevolezza del proprio apprendimento, alla distinzione tra ciò che sappiamo fare da soli, ciò che sappiamo fare se qualcuno ci aiuta e ciò che invece ancora non siamo capaci di fare.

Il compito a casa non deve richiedere ore di applicazione, ma tempi abbastanza brevi che, naturalmente, variano a seconda della classe frequentata e sarebbe auspicabile che non invadessero il fine settimana, per consentire esperienze di arricchimento da trasferire, eventualmente, anche in classe. Un simpatico episodio racconta di un bambino di nove anni, che, come ogni lunedì si trova a dover riempire una pagina bianca raccontando l’esperienza della domenica; <<Sono stato tutto il giorno “ficcato” in casa>> scrive consegnando subito all’insegnante con aria corrucciata.

Il poveretto aveva, infatti, trascorso il fine settimana a fare un’interminabile quantità di compiti e quella era la sua piccola innocente vendetta. Un’ora (mezz’ora per i bambini di prima e seconda primaria) i giorni in cui non c’è tempo prolungato, un’ora e mezzo il fine settimana per coloro che frequentano la scuola a tempo pieno.

I più grandi possono dedicare sicuramente anche tempi più lunghi, ma gli insegnanti dovrebbero tener conto della continuità e dei livelli di attenzione che ogni età possiede. Richiedere tempi di applicazione eccessivi non porta a nulla di buono, deteriora l’attenzione stessa, ostacola i processi di comprensione e di memorizzazione, uccide la motivazione. Ha più senso un’attività di un’ora svolta con partecipazione piuttosto che ore e ore a sbadigliare, lamentarsi, fantasticare e divincolarsi sulla sedia.

I compiti a casa sono un’area transizionale tra scuola e famiglia; dovrebbero rappresentare una sorta di ponte, un’opportunità per trasmettere quali sono i contenuti affrontati in classe, per consentire ai bambini di “allenarsi” su ciò che hanno appreso, permettendo ai genitori di comprendere … non sono quindi una cosa banale e sarebbe opportuno il raggiungimenti di un accordo genitori – insegnanti.

In realtà su questo tema il dibattito è costantemente aperto. Compiti a casa sì o no? In che quantità? Con l’aiuto dei genitori o da soli? Come già detto, la “lezione per casa”.

Il compito a casa stimola la responsabilizzazione, consente di imparare a darsi delle regole, dà un senso alla preparazione personale, sviluppa l’autonomia e l’autogestione. Per questo è importante che i genitori non si sostituiscano ai figli, ma siano loro di aiuto solo quando ce n’è bisogno. Ci sono genitori che non mollano un istante i propri figli durante lo svolgimento delle attività, pongono eccessiva attenzione alle prestazioni, alle verifiche, ai voti ottenuti, incrementando così un livello di ansia e di insicurezza, che, senz’altro, penalizza i risultati.

Ci sono madri che, mentre i loro figli sono a scuola, preparano i materiali di studio per il pomeriggio, elaborano schemi, costruiscono mappe, fanno riassunti dei vari argomenti, insomma, studiano al posto loro, ma l’apprendimento è un processo complesso, di cui i bambini e i ragazzi devono sentirsi protagonisti; apprendere significa mantenere tracce di esperienze e conoscenze, riutilizzandole quando servono, ampliandole gradualmente e conquistando strategie che consentono di trasferirle in ambiti diversi.

Tutto questo necessita, appunto, di piena partecipazione e di massima condivisione. Se i figli presentano difficoltà nel portare avanti il lavoro assegnato è indispensabile parlarne con gli insegnanti; sarà importante comprenderne il motivo, trovare insieme a loro modalità di esecuzione più consone e personalizzate.

È con gli insegnanti che, su questo tema, i genitori devono confrontarsi; i commenti in presenza dei figli sono assolutamente da evitare. Il messaggio da trasmettere ai figli riguarda l’importanza dell’impegno e del senso di responsabilità; è opportuno condividere con loro le regole da seguire e, in modo particolare, l’organizzazione dei tempi, la suddivisione delle attività, la revisione del lavoro, la richiesta di aiuto se è necessario.

Anche se uno dei due genitori, più frequentemente la madre, assume un ruolo preponderante rispetto ai compiti a casa, anche l’altro genitore deve in qualche modo essere coinvolto, magari rivedendo insieme al bambino il lavoro svolto in sua assenza, controllando lo zaino, ecc. insomma, i compiti non devono essere causa di conflitto, tra genitori e figli o tra genitori e insegnanti, altrimenti, come spesso accade, si vivono momenti di tensione, che prolungano i tempi di lavoro, che disperdono energie, che tolgono valore all’attività stessa.

Un’eccessiva pressione psicologica provoca nei bambini atteggiamenti di rifiuto, scoraggiamento, senso di inadeguatezza; un clima pacato e valorizzante aiuta i figli a portare avanti il proprio impegno con piacevolezza, poiché essi si sentono sostenuti e incoraggiati nel loro processo di apprendimento. Stabilire insieme un orario fisso, che tenga conto del bisogno di rilassarsi dopo una mattinata di scuola e di altri impegni imprescindibili (come lo sport e altre attività) aiuta a creare una sana abitudine e a sentire meno penalizzante l’impegno da portare avanti.

Anche l’ambiente è fondamentale, per cui è utile cercare insieme l’angolo più giusto per fare i compiti; può essere la cameretta o uno spazio organizzato che garantisca tranquillità e possibilità di concentrazione. Quando il bambino lavora non dovrebbero esserci stimoli distraenti, come il televisore acceso o giochi sparsi nelle vicinanze o persone che circolano nell’ambiente. Se gli impegni dei genitori lo consentono sarebbe utile visionare insieme ai figli la quantità e la qualità del lavoro da svolgere, per decidere approssimativamente anche l’orario in cui il compito potrà essere terminato.

Anche organizzare, insieme ad altri genitori, momenti di lavoro condiviso tra bambini che frequentano la stessa classe può essere stimolante, perché più piacevole, con la garanzia del momento di gioco alla fine delle lezioni, ma sono assolutamente da evitare i confronti tra le diverse prestazioni. È da evitare il prolungamento del compito in orari non consoni; il dopocena deve essere un momento dedicato alla vita familiare e alla preparazione che serve per andare a dormire; a questo proposito è importante non dimenticare che il sonno notturno è fondamentale, perché garantisce la “ricarica” di energie utili per il giorno successivo.

Tutto questo deve essere condiviso, prendendo insieme gli accordi, decidendo insieme le modalità più adeguate; i figli, come per ogni altra regola quotidiana, hanno poi bisogno di essere sostenuti e gratificati per poter rispettare gli impegni presi. La consapevolezza di ciò che è necessario per portare avanti il compito è fondamentale; i bambini e i ragazzi, al di là delle imposizioni, devono imparare a organizzarsi e a lavorare con profitto, senza disperdere inutilmente le energie.

Sgombrare la scrivania togliendo ciò che è distraente, predisporre invece i materiali necessari senza alzarsi continuamente dalla postazione, stabilire il momento della pausa (ad esempio dello spuntino pomeridiano) sono tutti accorgimenti che facilitano l’applicazione e ottimizzano i tempi. La presenza dei genitori non deve essere invadente, con l’obiettivo di aiutare lo sviluppo dell’autonomia. La buona relazione tra insegnanti e genitori permette, anche in questo caso, di monitorare l’esito del lavoro a casa, non in relazione al mero rendimento, bensì al processo di crescita globale degli alunni.

Genitori e insegnanti sono, in definitiva, partners di un progetto che ha come meta il benessere psicologico dei figli/alunni, all’interno del quale ciascuna parte deve fare la propria parte. Certo è che, talvolta, anche i docenti molto preparati sul piano didattico, avrebbero bisogno di una formazione relazionale che faciliti loro il rapporto con gli alunni e con i genitori, ma anche la comunicazione e la collaborazione all’interno del team.

I colloqui di valutazione

Un momento importante della relazione scuola famiglia è rappresentato poi dagli incontri di valutazione, i colloqui periodici durante i quali i docenti riferiscono sull’andamento scolastico dei figli. Se precedentemente si è creato un buon clima collaborativo anche queste occasioni sono vissute con sufficiente serenità e fiducia da ambedue le parti, in caso contrario possono assomigliare a dei veri e propri verdetti.

Comunque sia i docenti dovrebbero poter usufruire di tempi più adeguati per portare avanti una parte così importante del proprio lavoro. La troppa fretta non aiuta né l’insegnante né il genitore. Quest’ultimo, se ha un figlio che a scuola non ha problemi, desidera poter parlare dei successi, di ascoltare le lodi dei docenti, di condividere la propria soddisfazione; se invece il figlio manifesta difficoltà egli ha bisogno di ascoltare una descrizione che non contiene solo elementi negativi, di cogliere nelle parole degli insegnanti anche un segnale positivo, di fiducia e di speranza, ma, per far questo, non sono sufficienti pochi minuti.

Entrare in contatto con l’insuccesso del proprio figlio, genera ansia; il genitore è mortificato, deluso, scoraggiato o confermato nei propri timori se il risultato è atteso o annunciato e il giudizio negativo viene associato a una valutazione del proprio “valore” come genitore.

Anche per questo è auspicabile una valutazione formativa e non sommativa, per rimandare un’immagine degli alunni che non rappresenti una sentenza severa, una media matematica di voti, ma che tenga conto del percorso di crescita, dell’evoluzione personale, degli ambiti di difficoltà, ma anche delle competenze acquisite e delle risorse da spendere.

Una scuola “Pulita”

Con questa semplice espressione possiamo sintetizzare quello che dovrebbe essere l’impegno della scuola e l’immagine che essa dovrebbe mostrare al di là delle apparenze. Una scuola pulita da un punto di vista prettamente “fisico”, curata, accogliente, “calda”, al di là della bellezza, al di là della ricchezza dei materiali; una scuola che non odori di polvere, ma che infonda rispetto per l’ambiente, che non sia ferita dall’incuria, ma che lasci trasparire il senso di responsabilità.

Pulita perché trasparente nei propri intenti, con obiettivi educativi condivisi, con atteggiamenti adulti rispettosi dei ritmi e degli stili di apprendimento; una scuola che dà spazio all’ascolto, che è disposta ad imparare, che sa stare in relazione con la famiglia e con il territorio di appartenenza, una scuola che cresce al passo con il mondo, mantenendo vivo il legame con la storia, con la cultura.

Se le amministrazioni non possono permettersi spese ingenti per realizzare progetti di elevate pretese, meglio che si accontentino di strutture funzionali, alla portata dei bambini e dei ragazzi, perseguendo intenti di integrazione e di coscienza civica. Per poter aiutare gli alunni a rispettare le regole è, prima di tutto, necessario che siano gli adulti di riferimento a farlo.

Non possiamo chiedere di rispettare un ambiente in degrado, di tenere pulito ciò che è sporco, di aver cura di spazi esterni pieni di erba ingiallita. La scuola, insieme alla famiglia, ha il compito di trasmettere valori, di guidare verso la conquista delle più importanti regole di convivenza, ma su questi aspetti c’è ancora tanta strada da fare.

Lo sviluppo dell’autonomia e la soddisfazione

Lo sviluppo dell’autonomia è un processo graduale che richiede il sostegno degli adulti; sostegno che non deve essere confuso con il sostituirsi ai bambini, bensì nell’aiutarli a scoprire il piacere di apprendere, di imparare a gestirsi la quotidianità.

Autonomia come capacità di riconoscere le proprie competenze, le proprie difficoltà, i propri bisogni, di chiedere aiuto quando ce n’è bisogno, di sentirsi orgogliosi delle piccole conquiste. I ritmi della vita quotidiana impediscono spesso ai genitori di rispettare i tempi dei figli; si fa tutto troppo in fretta, si fa troppo al posto loro.

Al mattino è frequente che siano la mamma o il papà a vestire i bambini, si incalzano questi ultimi con esortazioni continue, ma questo impedisce di far sì che i piccoli si possano godere l’inizio del nuovo giorno. Michela ha sette anni e al mattino prende ancora il biberon, perché è troppo lenta a fare colazione; Marco ha otto anni e si lascia vestire dalla sua mamma in tutto e per tutto, Luca ne ha nove e trova lo zaino pronto vicino alla porta d’ingresso, ma non l’ha preparato lui.

Ogni azione quotidiana è incastrata con le altre, senza intervalli, come le tessere di un puzzle che deve, in ogni modo, essere portato a termine; sono pochi gli spazi per imparare, pochi i momenti per esprimere soddisfazione per ciò che abbiamo imparato. “Insegnami a fare da solo” recitava una famosa frase di Maria Montessori; ecco, crediamo che questo sia il desiderio dei bambini: sperimentare, osare, sbagliare e riprovare, gioire dei piccoli passi, con accanto adulti che offrono il loro sostegno ogni volta che è necessario. I genitori che guardano con occhi benevoli il desiderio di crescere dei loro figli è come se comunicassero loro: “Mi fido di te, puoi farcela!”.

Anche a scuola lo sviluppo dell’autonomia è fondamentale. Gli alunni vengono posti di fronte e proposte graduali riferibili alla fascia di età, ma non dobbiamo dimenticare che ogni individuo ha propri stili cognitivi, si porta dietro un apprendimento pregresso, appartiene a un mondo affettivo e relazionale che è solo suo.

Ogni percorso ha proprie caratteristiche e di queste dobbiamo tenere di conto. Le differenze devono essere viste come elementi personalizzanti, come risorse più che come ostacoli; ogni bambino ha un proprio “metodo” di lettura delle esperienze e, se gli adulti riescono a imparare quel metodo, tutto diventa più facile.

Ci sono alunni che apprendono a velocità incredibile, che padroneggiano con facilità i contenuti, che perseguono senza alcun problema gli obiettivi prefissati per l’età; altri invece sembrano aver paura di tutto ciò che è nuovo, hanno bisogno di più tempo, di maggiore vicinanza, mentre altri ancora appaiono demotivati, predisposti ad altro, oppure si mostrano insicuri, ansiosi, timorosi di non essere all’altezza delle richieste.

Ci sono poi alunni che sembrano avere tutte le carte in regole per apprendere con facilità, ma che, invece, fanno una fatica incredibile ad automatizzare le tecniche di calcolo, di lettura, di scrittura. Lo sviluppo dell’autonomia cambia notevolmente e, altrettanto, devono cambiare le richieste degli adulti.

La soddisfazione è il risultato di un processo cognitivo, che si svolge confrontando il nostro livello di partenza con la meta che vogliamo o dobbiamo raggiungere (“Sono capace di questo… vorrei essere capace di…”: “Ora riesco a…, tra un po’ di tempo potrò anche…”).

Se le mete non sono distanti la soddisfazione è garantita, in quanto tra realtà e aspirazione c’è una distanza percorribile. Ecco, crediamo che, all’interno delle relazioni tra adulti e minori sia piuttosto carente la soddisfazione, soprattutto quella condivisa e questo accade sia perchè, forse, diamo poco spazio alle emozioni sia perché le mete possono non essere calibrate con i livelli di partenza.

Ecco che, allora, le esperienze vengono vissute passivamente, come fossero solo imposte dall’alto, da guide invisibili, con le quali non possiamo fare i conti. Ma la soddisfazione è fondamentale, mette in contatto con il proprio percorso, traccia nuove vie, rende consapevoli delle proprie strategie e, se si sintonizza con la soddisfazione di chi, in quel momento, condivide con noi l’esperienza, è davvero il massimo. Autonomia, autostima, soddisfazione marciano insieme.

L’impegno della scuola nei confronti della famiglia

Offrire un ambiente accogliente occupa il primo posto; i bambini devono sentirsi ospiti graditi, percependo atteggiamenti affettivamente significativi da parte di tutti gli adulti che circolano tra quelle mura. La scuola deve offrire occasioni di apprendimento, ma anche momenti di conoscenza dell’ambiente, di apertura e di coinvolgimento.

La programmazione didattica è inserita in un contesto educativo generale, che ha il compito di promuovere il dialogo costruttivo, dialogo che ha connotazioni di apertura, che non trascura l’ascolto, la condivisione, la ricerca di soluzioni. La programmazione educativa deve essere socializzata ai genitori, per far sì che anch’essi abbiano chiari gli obiettivi e le regole da rispettare, facilitando il raggiungimento di un punto d’incontro favorevole alla crescita degli alunni.

La famiglia ha il diritto di conoscere la programmazione educativa ed è importante che i docenti esplicitino la metodologia impiegata, per ciò che può essere di aiuto ai genitori; questo non significa togliere libertà all’insegnamento, ma creare quel raccordo e quella comunione di intenti che permette ai bambini di sentirsi sostenuti nei loro processi di sviluppo.

A questo proposito sono indispensabili momenti di scambio, iniziative collettive, assemblee di classe, colloqui individuali. Questi ultimi hanno l’obiettivo di comunicare ai genitori il percorso educativo e didattico del proprio figlio, esplicitando gli ambiti di difficoltà, di competenza e di potenzialità individuati. Il genitore deve avere la certezza che i docenti conoscono gli alunni, che sono capaci di osservare e di individuare i loro stili cognitivi, che sono in grado di individuare le loro risorse, al di là del giudizio, al di là del voto.

L’impegno della famiglia nei confronti della scuola

La famiglia, d’altro canto, ha il compito di partecipare alla vita scolastica, condividendo gli obiettivi educativi di sua competenza, offrendo collaborazione, mantenendo il proprio ruolo, senza porsi in competizione, evitando di svalorizzare l’operato degli insegnanti, tenendo in mente che il compito educativo dei genitori e diverso da quello dei docenti e che il buon esito di un percorso di crescita sta proprio in un Patto Educativo di Corresponsabilità, cioè in un accordo, implicito ed esplicito, che si pone in atto con pensieri condivisi, con atteggiamenti e azioni chiare nei quali i bambini e i ragazzi possano trovare riferimenti sicuri.

Il pensiero torna, a questo proposito, alle regole educative, cioè a quei punti di riferimento di indiscutibile valore, che, più che sotto forma di imposizioni, dovrebbero essere vissute come conquiste, come traguardi e autogratificazioni.

Il Patto Educativo di Corresponsabilità

Scuola e famiglia insieme, nel pieno rispetto dei diversi ruoli, dovrebbero condividere compiti educativi non solo sulla carta, per permettere la conquista graduale, da parte dei bambini e dei ragazzi, di competenze socio-affettive e relazionali, che riguardano l’espressione dei propri bisogni e delle proprie opinioni, la consapevolezza dei propri punti di forza e dei punti di debolezza, il riconoscimento e la gestione delle proprie emozioni, il saper sostenere momenti di sconfitta e di frustrazione, il saper gestire il tempo e lo spazio nel rispetto del singolo, della collettività, dell’ambiente.

L’accoglienza della differenza come possibilità e come ricchezza va nella direzione di un processo di integrazione più sereno, in cui c’è spazio per chi procede a ritmo superveloce e per chi va a passo di lumaca, per chi fa più fatica e per chi è instancabile, per chi è dislessico e per chi ha necessità di ausili personalizzati.

Dare importanza all’affettività e alle relazioni facilita i processi di apprendimento; tutti noi impariamo con più agio se il clima intorno a noi è sereno, se ci sentiamo accolti, se ci divertiamo, se ci scambiamo piccoli aiuti, se ci viene consentito l’uso delle nostre aree di risorsa. È su questo che scuola e famiglia, oggi più che mai, devono darsi la mano, riconoscendosi a vicenda le responsabilità e le soddisfazioni, approntando una forma di comunicazione “utile” ed efficace.

I progetti di sostegno alla genitorialità e la psicologia scolastica

Di rilevante importanza sono i progetti di sostegno alla genitorialità, che si esplicano attraverso incontri con esperti, circle time, attività di gruppo, ecc; a questo scopo non andrebbe trascurata la cura degli spazi per gli incontri, rendendoli accoglienti, trasmettendo così l’importanza di momenti condivisi. Accoglienti significa caldi, ospitali.

La presenza dello psicologo è fondamentale, ma deve essere un esperto di età evolutiva, deve possedere un bagaglio di conoscenze e di esperienze, che gli permetta di affrontare le molteplici problematiche che nella scuola si incontrano. La scuola è ambiente di apprendimento, è luogo di relazioni e di socializzazione, è l’ambito in cui affettività, razionalità e sviluppo delle conoscenze si intrecciano fortemente tra loro e in cui si entra in rapporto con figure adulte importanti, ma con funzioni molto diverse rispetto ai genitori.

E’ qui che lo psicologo può svolgere la propria professione, attraverso l’assunzione di una funzione integrativa, all’interno della quale egli deve mantenere il proprio ruolo, evitando di confondersi con gli altri professionisti e esprimendo la propria preparazione al servizio di tutti: alunni, genitori, insegnanti, con spirito collaborativo, competenza e impegno.

Lo psicologo scolastico dovrebbe “passare” agli insegnanti metodi di osservazione degli alunni e del gruppo classe, sostenere il team affinché siano superate quelle barriere relazionali che impediscono spesso la collaborazione, affiancare i docenti nell’individuazione delle situazioni a rischio, offrire supporto ai genitori quando si presentano particolari difficoltà, facilitando la relazione scuola-famiglia ed altro ancora. In questo modo lo psicologo scolastico esprime davvero la propria competenza, che è diversa rispetto a quella del personale docente.

In questo modo egli arricchisce, con la propria presenza, senza sostituirsi agli altri, senza assumere su di sé compiti che non gli appartengono e rispetto ai quali non possiede una preparazione adeguata. Lo psicologo non insegna ai bambini, non porta avanti il recupero scolastico, non lavora individualmente con gli alunni con problemi di comportamento… non è il suo compito e non saprebbe farlo nel modo giusto. Lo psicologo scolastico lavora sulle relazioni (del team docente, del gruppo classe, con i genitori) e opera per il benessere socio-affettivo, per l’integrazione, per migliorare la comunicazione, per offrire la propria consulenza sulle varie problematiche degli alunni.

Se lo psicologo scolastico possiede davvero una buona preparazione in questo senso, la sua presenza nella scuola ha un grande valore, in “quella” scuola si sta bene, si riconoscono e si gestiscono le difficoltà, si portano avanti percorsi collaborativi, si costruisce un clima di condivisione, si impara a gestire quei conflitti sempre presenti in ogni contesto, trasformandoli in opportunità e in risorse.

La figura dello psicologo nella scuola è indispensabile; la sua presenza è garanzia di funzionalità, ma non possiamo dimenticare che si tratta di un contesto ad alto livello di complessità, con attori che devono “recitare” la loro parte, consapevoli dell’importanza del proprio lavoro, siano essi insegnanti, educatori, dirigenti, personale non docente. La scuola funziona grazie a una sinergia di buon livello e la sinergia non dovrebbe essere “facoltativa”, ma dovrebbe essere parte integrante di una deontologia professionale.

Autore: Monica Pratelli, psicologa e psicoterapeuta

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