La paura di ciò che non si conosce limita la nostra crescita

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Psicologa Psicoterapeuta, specializzata in terapia Familiare Sistemica Relazionale. Autrice di libri.

Intorno agli 8 mesi i bambini sperimentano la paura nei confronti dell’estraneo, passando ad una fase che ha un significato adattivo ed evolutivo, in quanto rafforza l’attaccamento nei confronti della madre, indispensabile per la sua protezione e sopravvivenza. Il bambino avverte nell’altro un pericolo, qualcuno diverso da ciò che per lui inizia a diventare familiare.

Ciò che non si conosce rimanda al concetto di fuori, all’esterno legato alle preposizioni latine ex e extra da cui derivano i termini strano, estraneo, straniero. Spesso diversità e stranezza vengono confuse, associate o gli si danno accezioni negative, la conclusione? Solo ciò che è familiare ha maggiore tollerabilità.

Non stupisce quindi che gli stranieri vengano visti come una minaccia in un contesto in cui ci si sente fragili e precari. La crisi economica non ha fatto che acuire antiche paure, l’incertezza verso il futuro non trova nell’immediato responsabilità tangibili, per cui si rovescia su altro in cerca di illusorie e temporanee consolazioni.

In una delle sue ultime interviste Zygmunt Bauman riguardo al futuro diceva:

“desta in noi più spesso l’idea di una catastrofe imminente che non quella di una vita più confortevole. E lo straniero rappresenta tutto ciò che di instabile e imprevedibile c’è nella nostra vita. Per questo guardiamo ai migranti come a un segno visibile e tangibile della fragilità del nostro benessere e delle sue prospettive”.

Per il sociologo “La “crisi migratoria” ci rivela l’attuale stato del mondo, il destino che abbiamo in comune.”
Se ci sentiamo in pericolo siamo giustamente spaventati, quando poi ci sentiamo indifesi inevitabilmente l’estraneo fa paura, inteso come qualsiasi forma di cambiamento.

Il fatto è che proprio nella possibilità di crescere possiamo trovare una soluzione, come fa il bambino piccolo che acquisisce autonomia e inizia a esplorare il mondo intorno a sé. Un bambino protetto e chiuso in un ambiente limitato e facilitato non diventerà mai un adulto sicuro e responsabile.

Delimitare il proprio spazio può dare apparente tranquillità, ma continuerebbero ad esserci i presupposti per un’evoluzione?

Cosa spaventa in realtà? Perché è più semplice girare lo sguardo verso altro? Nessuno ama guardare il dolore, ci si sente complici, diventa facile invece ignorarlo, ma è in questo gesto che in realtà si perpetua la complicità. Le responsabilità sono antiche e continuare a ignorarle o rimandarle a qualcun altro non risolve nessuna situazione.

Più che l’arrivo di estranei si stanno formando comunità di estraniati con un modello affine a quello del capro espiatorio. La realtà spesso viene distorta, in un verso o nell’altro, pur di non andare a fondo sulle reali difficoltà.

Diventa indispensabile oggi chiedersi cosa spaventa realmente, assumendosi responsabilità personali senza farle ricadere su altro distante da noi, altrimenti si perpetua un sentimento di impotenza che continua ad alimentare ulteriori paure. La chiusura rappresenta una risposta alla paura di essere invasi, per proteggere se stessi, il proprio spazio. La minaccia viene avvertita però quando i propri confini non sono stabili.

Questo non ha a che vedere con l’altro che sta fuori da noi, ma con la contrapposizione che si avverte con ciò che sta dentro, vissuto come inaccettabile e indesiderabile. Finché non si riesce ad avere una sana integrazione tra le parti di sé e a confidare nella propria struttura, difficilmente ci si può aprire all’altro senza temerne una sopraffazione.

Continuare però ad avvertire il pericolo nella vicinanza dell’estraneo (che sta fuori), non porta a migliorare se stessi, semplicemente rimanda all’esterno ciò che non si vuole affrontare. È evidente che se non mi occupo di me e vivo in condizioni precarie non posso accogliere qualcuno in casa e garantirgli ristoro, metterei entrambi in condizioni di disagio. Ma attribuire esclusivamente all’altro il mio disagio non migliora la mia condizione.

Anche questi sono meccanismi di difesa, utili in un tempo limitato, ma nel momento in cui diventano pervasivi e continuativi, rischiano di compromettere ancora di più la percezione di se stessi.

Iniziamo ad occuparci di questo senso di estraneità che si sta diffondendo. Da soli, chiusi nei propri confini, sempre più rigidi e invalicabili, in realtà non ci si protegge, ci si impoverisce. Se vogliamo sentirci sicuri abbiamo bisogno di poter contare sugli altri.

Lucia Cavallo, Psicoterapeuta 
specializzata in terapia Familiare Sistemica Relazionale
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