Ci sono frasi che diciamo senza pensarci, come se facessero parte di noi da sempre. Sono risposte pronte, pensieri automatici, modi di dire che ci accompagnano da anni. Non fanno rumore, non attirano l’attenzione. Ma parlano. Anzi, gridano. Solo che lo fanno in una lingua che spesso non sappiamo più tradurre: quella del nostro passato.
Quelle frasi non le hai inventate tu. Le hai assorbite
Le hai pronunciate la prima volta con la voce tremante di un bambino che voleva proteggersi, essere visto, sentirsi amato. Le hai ripetute per non sentire il vuoto, per non cadere. E oggi ti sembrano “tuoi pensieri”. In realtà, sono i resti di una battaglia silenziosa combattuta nell’infanzia.
Quando sei piccolo, non hai gli strumenti per difenderti da ciò che ti ferisce, ti confonde o ti abbandona. Ma hai la parola. Anche se non detta ad alta voce. Così, impari a dire dentro di te: “Non importa”, “Non ho bisogno di niente”, “Faccio tutto da solo”. E ogni volta che ripeti quella frase, ti rassicuri… e ti ferisci ancora un po’.
Questo articolo è un viaggio dentro quelle frasi. Quelle che sembrano “carattere” ma sono sopravvivenza. Quelle che sembrano forza, ma nascondono un dolore antico. Guardarle da vicino non è facile. Ma è il primo passo per guarire davvero.
Il linguaggio come traccia del trauma emotivo
Ogni essere umano costruisce nel tempo un linguaggio personale, che non è solo fatto di parole, ma di schemi, di reazioni, di silenzi. La psicoanalisi lo chiama “copione interiore”. È un modo inconscio di raccontare a sé stessi chi si è, chi si può essere, cosa ci si aspetta dal mondo. Questo copione nasce proprio lì: nei primi anni di vita, quando l’ambiente emotivo che ci circonda diventa la nostra grammatica affettiva.
I bambini che crescono in contesti invalidanti, disattenti o ipercontrollanti, imparano presto che esprimere un bisogno può avere un prezzo. A volte quel prezzo è l’indifferenza, a volte la colpa, a volte il giudizio. Così imparano a non dire. O meglio: imparano a dire altro.
Una delle difese più comuni è proprio l’adattamento linguistico al dolore: un modo per camuffare ciò che si sente, per evitare di essere rifiutati o puniti. Si tratta, in fondo, di una strategia sofisticata: attraverso certe frasi, il bambino si difende dal collasso emotivo. Ma da adulto, quelle stesse frasi diventano una gabbia.
Frasi che parlano del tuo dolore infantile
Vediamole una per una. Le hai dette anche tu? Forse senza nemmeno accorgertene.
1. “Tanto non cambia niente”
Questa frase è un grido di resa. Chi la dice ha imparato a non aspettarsi cambiamenti perché, nel passato, ogni speranza è stata delusa. È una frase di chi ha vissuto un’infanzia dove chiedere non serviva a nulla. Meglio non aspettarsi nulla che aspettare invano.
2. “Meglio non aspettarsi nulla”
Non è vero che non si vuole nulla. È che si ha troppa paura di volerlo. Questa frase protegge da una delusione anticipata. Ma nasconde il rifiuto appreso: non ci si aspetta nulla perché si è imparato che nulla arriva. È una difesa contro l’umiliazione del bisogno non accolto.
3. “Faccio tutto da solo”
È l’inno dell’autosufficienza forzata. Spesso la pronuncia chi, da bambino, ha dovuto crescere in fretta, magari con genitori emotivamente assenti o fragili. Dietro questa frase c’è il bambino che ha capito che chiedere aiuto era inutile, o peggio, pericoloso.
4. “Non voglio dare fastidio”
Una delle frasi più tossiche che impariamo da piccoli. Il bambino che la pronuncia ha già interiorizzato l’idea che i suoi bisogni disturbano, che essere visti equivale a essere scomodi. Da adulto, continua a negarsi, a rimpicciolirsi, a scusarsi per esistere.
5. “Se mi ami, dovresti capirlo da solo”
Dietro questa frase c’è una ferita profonda: quella del bisogno non riconosciuto. È tipica di chi non ha imparato a nominare ciò che prova, perché nessuno gli ha insegnato che era lecito farlo. Così si aspetta che l’altro “intuisca” per colmare un’assenza antica.
6. “Non ho bisogno di nessuno”
Una bugia che ci raccontiamo per sopravvivere. In realtà, tutti abbiamo bisogno. Ma chi ha detto questa frase spesso ha vissuto relazioni segnate da delusione o abbandono. Quindi ha trasformato il bisogno in vergogna. E la vergogna in chiusura.
7. “È colpa mia”
I bambini attribuiscono a sé stessi anche ciò che non li riguarda. Se i genitori sono infelici, arrabbiati o assenti, il bambino pensa: “Dev’essere colpa mia”. Da adulti, questa frase ritorna come un riflesso condizionato, che impedisce di distinguere la responsabilità reale dalla colpa introiettata.
8. “Sono fatto così”
Apparentemente è un’affermazione identitaria, ma spesso è una resa. Chi la dice sta giustificando la sua incapacità di cambiare, di chiedere, di esporsi. In realtà sta dicendo: “Non mi è mai stato concesso di essere diverso. Mi sono adattato a ciò che serviva per essere accettato”.
9. “Va tutto bene” (mentre crolli dentro)
Il classico sorriso che nasconde il dolore. È tipico di chi ha imparato a “non pesare”, a non mostrare la propria vulnerabilità. A volte, è stato il bambino “bravo”, quello che non piangeva mai. Ma quel bambino aveva solo paura che, se avesse mostrato il dolore, sarebbe stato lasciato solo.
10. “Non piangere, non serve a niente”
Forse l’hai sentita dire. Forse l’hai detta a te stesso. È la frase che annulla l’emozione, che nega il diritto al pianto. Spesso arriva da genitori che non sapevano reggere il dolore dei figli, perché non avevano imparato a reggere nemmeno il proprio. Ma chi cresce senza spazio per la tristezza, impara solo a reprimerla. Non a guarirla.
Perché continuiamo a usare queste frasi?
Perché ci servono. O almeno, ci sono servite. Sono state un’armatura. Un modo per stare in piedi. Ogni frase è un messaggio al mondo, ma anche a noi stessi. È una scorciatoia emotiva che protegge la parte più fragile. Il problema è che nel tempo diventa un’abitudine, e quell’abitudine un’identità.
La mente ha bisogno di coerenza, anche quando fa male. Meglio ripetere ciò che conosciamo che affrontare l’incertezza. Così continuiamo a dire le stesse frasi anche quando non ci servono più. Anche quando ci impediscono di evolvere.
Come iniziare a guarire dalle parole che ci feriscono
La guarigione parte sempre dalla consapevolezza. E la consapevolezza passa dalla parola. Imparare a osservare ciò che dici, senza giudizio, è già un atto di amore verso te stesso. Domandati: questa frase mi protegge o mi limita? È vera oggi, o è un’eco del passato?
Puoi scrivere le tue frasi automatiche su un foglio. Guardarle. Chiederti da dove vengono. E provare a trasformarle. Non con slogan, ma con frasi nuove, autentiche, che includano la tua vulnerabilità. E se non riesci da solo, chiedi aiuto. Non è un fallimento. È la cosa più adulta che puoi fare.
Le parole che possono salvarti
Nel tuo linguaggio quotidiano vive ancora il bambino che sei stato. Ogni frase che ripeti senza pensarci può essere una chiave. Può aprire una porta dimenticata, può mostrarti una ferita che merita ascolto. Le parole che usi non sono neutre. Sono memoria. Sono tracce. Sono possibilità di riscrittura.
Nel mio libro, “Il mondo con i tuoi occhi“, ti accompagno proprio in questo: in un viaggio attraverso le parole che hai ereditato, quelle che ti sei costruito per difenderti, e quelle che puoi scegliere oggi, per fiorire. Non è un libro che ti dice chi sei. È un libro che ti invita a guardarti con occhi nuovi. A distinguere tra ciò che ti è stato insegnato e ciò che senti davvero. A smontare le frasi del passato per costruire, frase dopo frase, una vita che parli davvero di te. Perché guarire non è diventare qualcun altro. È finalmente diventare chi sei. Il mio libro è disponibile in libreria e qui su Amazon
E se ti va, seguimi sul mio profilo Instagram: @anamaria.sepe.
Ti aspetto lì per continuare il viaggio.