Come riconoscere chi usa la prepotenza per prevalere

La vera forza non sta nell’imporsi sugli altri, ma nel sapersi contenere.” Ana Maria Sepe

La prepotenza non è solo un atteggiamento appariscente. Spesso non si manifesta con urla o violenza esplicita, ma con gesti sottili, parole dette a metà, silenzi che opprimono. È un modo di vivere la relazione in cui l’altro non è mai riconosciuto come soggetto autonomo, ma come oggetto da usare, dominare, piegare.

Psicoanalisi e neuroscienze ci insegnano che dietro la prevaricazione c’è quasi sempre un terreno fragile: l’impossibilità di tollerare l’incertezza, la paura di non essere riconosciuti, il bisogno compulsivo di controllare per non sentirsi schiacciati. L’amigdala registra la diversità di opinione come minaccia, la corteccia prefrontale fatica a contenere l’impulso, la dopamina premia la conquista del potere.

Come riconoscere chi usa la prepotenza per prevalere

Riconoscere i segnali non basta: occorre capire come questi comportamenti nascono, cosa producono in chi li subisce e perché, se non messi in discussione, finiscono per generare catene invisibili che condizionano profondamente la nostra libertà. Ecco i sei segnali più tipici.

1. Trasformano ogni dialogo in un monologo

La persona prepotente parla sopra, interrompe, non lascia spazio. È come se avesse bisogno costante di riempire ogni vuoto con la propria voce.

In psicoanalisi questo corrisponde a un’inabilità a riconoscere l’altro come soggetto separato: il dialogo non è un incontro, ma un terreno di conquista. Non esiste reciprocità, ma occupazione dello spazio mentale altrui.

Sul piano biologico, l’attività della rete della salienza orienta l’attenzione esclusivamente a sé stessi: ascoltare non è un’opzione perché significherebbe decentrarsi, tollerare l’alterità. Per il prepotente, questo equivale a perdere controllo.

2. Sminuiscono e ironizzano sugli altri

La svalutazione è un’arma sottile. A volte è una battuta, altre volte un commento lanciato con leggerezza apparente, ma capace di togliere valore e lasciare ferite profonde.

Questo meccanismo non nasce da forza, ma da vulnerabilità. Il prepotente, dentro, vive un costante senso di inferiorità. Per proiezione svalutativa egodifensiva, trasferisce sugli altri ciò che non accetta di sé. Il sistema limbico, in particolare l’amigdala, si attiva quando l’autostima è minacciata, e la risposta è quella di “ridimensionare” l’altro. In questo modo si ristabilisce un equilibrio illusorio: io vinco, tu perdi.

3. Hanno sempre l’ultima parola

Per il prepotente, lasciare un discorso aperto è insopportabile. Avere l’ultima parola diventa un rituale ansiolitico. Non è tanto la verità a contare, ma la sensazione di dominio. Il cervello, in questi casi, cerca la chiusura cognitiva: ridurre l’ambiguità significa calmare l’ansia interna. A livello inconscio, invece, troviamo l’incapacità di tollerare la frustrazione: ogni volta che l’altro resiste, si riattiva il fantasma antico dell’impotenza, vissuto nell’infanzia. Per questo la discussione con un prepotente non porta mai a una sintesi, ma a una resa.

4. Impostano regole e decidono per tutti

“Si fa così perché lo dico io.” La prepotenza si rivela nell’incapacità di concepire la condivisione. Non c’è spazio per la negoziazione, perché decidere da soli equivale a sentirsi salvi.

Nella psiche del prepotente è come se l’ordine potesse esistere solo se imposto dall’alto: l’altro non è interlocutore, ma suddito. Questo rimanda spesso a modelli familiari rigidi, dove l’autorità era esercitata senza spiegazioni e la volontà del bambino non aveva diritto di esistere.

Sul piano neurobiologico, questo atteggiamento riflette una regolazione disfunzionale della corteccia prefrontale, che fatica a integrare prospettive differenti e preferisce il comando unilaterale.

5. Usano la colpa come arma

La forma più subdola della prepotenza è l’uso della colpa. Non servono urla: basta insinuare che l’altro non ha fatto abbastanza, che deve ripagare, che ha sbagliato.

Qui siamo nel campo del ricatto affettivo, che psicoanaliticamente può essere letto come regressione a modalità infantili: il bambino che non riesce a ottenere ciò che vuole piange, accusa, si fa vittima. L’adulto prepotente usa lo stesso schema, ma con più astuzia. La colpa agisce come catena invisibile: chi la riceve si sente costretto a restare, a dare di più, a giustificarsi. E questo rafforza la dinamica di dominio.

6. Confondono la forza con l’aggressività

Per la persona prepotente la vera forza non è contenimento, ma esplosione. Urlare, dominare, intimidire diventa sinonimo di potenza. In realtà, dietro questa convinzione si cela un sistema nervoso iperattivo, dove la regolazione emotiva è minima. L’aggressività è solo un modo di scaricare tensione.

Psicoanaliticamente, è l’incapacità di riconoscere la propria vulnerabilità: meglio apparire forti che sentire la vergogna di non esserlo.

Perché nascono questi comportamenti?

La prepotenza non è innata, ma il frutto di esperienze precoci e di modalità relazionali interiorizzate.

  • Ferite infantili: spesso chi oggi è prepotente da bambino è stato umiliato o non visto. Per proteggersi ha imparato che dominare era l’unico modo per sopravvivere.
  • Modelli familiari: crescere in contesti autoritari o anaffettivi favorisce la riproduzione dello stesso schema: la forza come unica lingua possibile.
  • Difese psichiche: la prepotenza è una corazza: evita il contatto con emozioni intollerabili come vergogna, senso di inadeguatezza o paura di essere rifiutati.

Le conseguenze sugli altri

Subire prepotenza non lascia solo un’impressione spiacevole: modifica il modo in cui viviamo noi stessi.

  • Autostima erosa: il continuo sminuire genera una voce interiore che dice “non vali abbastanza”.
  • Paura silenziosa: si impara a camminare sulle uova, a evitare conflitti, a tacere per non provocare reazioni.
  • Colpa interiorizzata: ci si sente sempre in debito, sempre insufficienti.

Il cervello, sotto questa pressione, resta in modalità minaccia. L’asse dello stress (ipotalamo-ipofisi-surrene) rimane attivo, aumentando il cortisolo e impedendo al corpo di rilassarsi davvero.

Perché restiamo nelle relazioni con i prepotenti?

La domanda più dolorosa è: perché, pur riconoscendo questi segnali, tante persone restano?

Perché dentro di noi agisce la memoria emotiva dell’infanzia. Se da bambini abbiamo conosciuto amore condizionato, approvazione solo se “obbedivamo”, svalutazione costante, oggi quei comportamenti ci appaiono familiari. Non sani, ma familiari. La psiche confonde la familiarità con la sicurezza. Così ci ritroviamo a cercare di compiacere chi ci svaluta, come se stessimo ancora cercando lo sguardo di un genitore difficile da conquistare.

La prepotenza non è forza, non è sicurezza, non è coraggio

È piuttosto un grido mascherato, un modo goffo e doloroso per non sentire la propria fragilità. Chi prevarica, in fondo, non sa amare davvero: conosce solo il linguaggio del dominio. E se ci pensi, questo ci insegna qualcosa di importante.

Il problema non è solo riconoscere i segnali negli altri, ma anche ascoltare dentro di noi quanto questi meccanismi hanno attecchito. Quante volte, per paura di perdere amore, ci siamo lasciati mettere a tacere? Quante volte abbiamo scambiato l’autorità per protezione? Quante volte, senza accorgercene, siamo diventati piccoli davanti a chi si nutriva del nostro silenzio?

La verità è che nessuno merita di vivere in una relazione dove l’amore viene confuso con la paura, o la forza con l’aggressività. L’amore autentico è uno spazio di libertà, non di catene. È la possibilità di esistere senza dover competere, senza dover dimostrare, senza dover temere il giudizio.

E qui voglio fermarmi con te, lettrice o lettore, e invitarti a riflettere su un punto cruciale

La vera trasformazione non comincia quando impari a difenderti dal prepotente, ma quando inizi a guarire le ferite che ti fanno restare nella sua orbita. Perché il legame con chi domina non nasce oggi: affonda spesso in ciò che abbiamo vissuto da bambini, in quelle stanze emotive in cui abbiamo imparato che per essere amati bisognava obbedire, compiacere, rinunciare.

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