Il massacro a Gaza: le conseguenze psicologiche dell’esposizione mediatica

Ci sono immagini che non si limitano a raccontare. Entrano dentro di noi, ci scuotono, ci lasciano senza fiato. Negli ultimi mesi, le notizie provenienti da Gaza hanno mostrato al mondo un dolore ininterrotto: bambini feriti, famiglie distrutte, corpi senza vita. Non si tratta più di eventi lontani, ma di immagini che scorrono in diretta sui nostri cellulari, nei feed dei social, nelle home page dei giornali.

Questa esposizione continua non è neutra. Non rimane fuori dalla nostra psiche. Al contrario, produce conseguenze profonde, spesso invisibili, che non si limitano a chi vive in prima persona la guerra, ma raggiungono anche chi la osserva da spettatore.

Non possiamo assistere a un massacro senza esserne segnati

Le neuroscienze ci dicono che il nostro cervello è programmato per rispondere empaticamente al dolore altrui. Ma quando lo stimolo diventa costante, quando non c’è spazio per elaborarlo, rischiamo di reagire in due modi: o ci desensibilizziamo, come anestetizzati, o amplifichiamo le nostre stesse modalità di violenza, anche nelle piccole relazioni quotidiane.

In questo articolo voglio esplorare le conseguenze psicologiche di questa esposizione mediatica: non solo l’empatia e il trauma vicario, ma anche i meccanismi difensivi che mettiamo in atto. Parlerò del processo che ho definito assoluzione comparativa, degli studi di Bandura sul disimpegno morale, e di un altro meccanismo che abbiamo già esplorato insieme, l’impotenza proiettiva, mostrando come queste dinamiche possano intensificare la violenza nella vita di tutti i giorni, a scuola, in famiglia, nelle relazioni.

L’aumento della violenza non in quantità, ma in intensità

Un primo effetto di questa esposizione mediatica è paradossale: non necessariamente aumenta il numero di persone violente, ma cambia il grado della violenza di chi già la manifesta.

Non vediamo più solo atti estremi, ma assistiamo a una progressiva “normalizzazione” di un certo linguaggio aggressivo. E questa normalizzazione, anziché diminuire la violenza, la rende più intensa.

Esempio domestico: un genitore che già ha tendenze svalutanti verso il figlio, dopo ore di immagini di guerra, può reagire con più durezza a una disobbedienza banale, alzando la voce con un tono ancora più minaccioso. Non perché sia diventato improvvisamente un “mostro”, ma perché la sua soglia di tolleranza si è abbassata: ha interiorizzato immagini di sopraffazione e le rielabora in casa.

Esempio scolastico: il bullismo non nasce con la guerra, ma può intensificarsi. Un ragazzo che già prendeva in giro un compagno, ora può arrivare a gesti più crudeli, a parole più violente. Perché l’ambiente mediale ha reso più familiare e accettabile la dinamica della sopraffazione.

Questo è ciò che intendo quando dico che la violenza cresce in intensità. Non aumenta solo la frequenza, ma la qualità delle manifestazioni: la crudeltà diventa più accentuata, il limite della sopportabilità più fragile.

L’assoluzione comparativa: sentirsi “giusti” a confronto con chi fa peggio

Qui entra in gioco un meccanismo che ho definito assoluzione comparativa. Di fronte a immagini estreme come quelle di Gaza, tendiamo a confrontare le nostre piccole azioni quotidiane con l’orrore che vediamo. E questo confronto ci porta a minimizzare la nostra stessa violenza.

“Non sto bombardando nessuno, non sto uccidendo bambini. Ho solo screditato mia sorella, ho solo criticato aspramente un collega”.
In questo confronto, ciò che faccio mi sembra irrilevante. Mi autoassolvo.

Albert Bandura, con la sua teoria del disimpegno morale, aveva già spiegato come l’essere umano riesca a compiere atti crudeli senza sentirsi cattivo, grazie a strategie di giustificazione:

  1. spostare la responsabilità (“mi hanno costretto”),
  2. minimizzare le conseguenze (“non è così grave”),
  3. deumanizzare l’altro (“se l’è meritato”).

L’assoluzione comparativa si colloca su questa stessa linea: io riduco la gravità dei miei comportamenti violenti perché li confronto con qualcosa di immensamente peggiore. Questo mi consente di mantenere un’immagine positiva di me stesso. Ma l’effetto è pericoloso: la violenza non scompare, si insinua. Diventa legittimata.

L’impotenza proiettiva: quando il dolore non trova voce

L’esposizione costante a immagini di guerra e di massacro genera una frattura interna difficile da tollerare: da una parte sentiamo l’urgenza empatica, il bisogno di reagire davanti all’ingiustizia; dall’altra sperimentiamo la totale impossibilità di intervenire realmente. Questa dissonanza emotiva produce un vissuto specifico: l’impotenza proiettiva.

Con questa espressione possiamo indicare quel processo per cui l’individuo, non riuscendo a riconoscere e gestire la propria impotenza interiore, la trasferisce su ciò che osserva all’esterno. L’altro – il bambino ferito, la madre disperata, la vittima senza difese – diventa lo schermo su cui si riflette un’esperienza antica e personale di mancanza di potere, di impossibilità a difendersi o a reagire. In questo senso, l’impotenza proiettiva non è un semplice moto empatico, ma una vera e propria riattivazione delle tracce mnestiche implicite legate a esperienze precoci di umiliazione, esclusione, svalutazione.

Un esempio concreto aiuta a comprendere. Immaginiamo una dipendente che viene quotidianamente mortificata dal suo datore di lavoro: battute umilianti, tono sprezzante, ridicolizzazioni pubbliche. Ogni giorno questa donna sperimenta una condizione di impotenza reale: non può difendersi senza temere ripercussioni, non può ribellarsi senza rischiare il posto. La sua frustrazione rimane imprigionata, compressa, congelata nel corpo e nella mente.

Quando, in parallelo, questa stessa donna si trova davanti a immagini provenienti da Gaza – bambini privati di braccia, madri impotenti di fronte alla morte dei figli – accade qualcosa di invisibile ma potentissimo. Il suo vissuto quotidiano di impotenza si intreccia con il dolore osservato, fino a diventare indistinguibile. Non vede solo la tragedia dell’altro, ma rivive la propria. L’esposizione mediatica funziona da catalizzatore: non crea un’emozione nuova, ma amplifica e risveglia quella antica, che non trova altri canali di espressione. Qui si aprono due traiettorie principali, a seconda dello stile reattivo prevalente:

Reattività passiva

La dipendente interiorizza la frustrazione e la proietta nel dolore altrui. Non riesce a dormire, piange davanti al telegiornale, rumina incessantemente sulle immagini viste. Si dispera per i bambini di Gaza, ma in realtà sta disperandosi anche per la bambina che è stata, quando non poteva difendersi da chi la svalutava. La sua impotenza viene così proiettata in forma empatica, ma senza possibilità di trasformazione: resta immobilizzante, paralizzante.

Reattività aggressiva

La stessa impotenza può invece ribaltarsi verso l’esterno, caricandosi di aggressività. La dipendente, che non osa ribellarsi al suo datore di lavoro, scarica la frustrazione in altri contesti: manifesta contro la guerra con toni accesi, spacca una vetrina, urla contro chi non condivide la sua indignazione. La rabbia che non trova canale nella relazione reale di lavoro si riversa su un bersaglio simbolico.

In entrambi i casi, il meccanismo è lo stesso: l’esposizione alle immagini di guerra non fa che amplificare un dolore già presente, rendendolo più intenso e più difficile da elaborare. L’impotenza originaria – quella sperimentata nel microcosmo familiare o lavorativo – trova nel macrocosmo del massacro un contenitore in cui riversarsi.

Dal punto di vista psicoanalitico, possiamo dire che l’impotenza proiettiva è una forma di riattivazione traumatica: le immagini esterne riaccendono vissuti di non-potere interiorizzati precocemente e mai integrati. Dal punto di vista neuroscientifico, sappiamo che l’amigdala e le strutture limbiche non distinguono tra esperienza reale e osservata: reagiscono allo stesso modo. Così, la violenza osservata nei media diventa un detonatore che riporta in superficie la violenza subita, reale o simbolica, nell’infanzia o nell’età adulta.

È per questo che l’impotenza proiettiva può trasformarsi in un potente amplificatore della violenza, non tanto creando nuove dinamiche, quanto intensificando quelle già presenti. L’esposizione mediatica non aggiunge, ma moltiplica.

Perché i media amplificano questi processi

I media non si limitano a informare: modulano il nostro stato emotivo, influenzano la percezione della realtà, plasmano la nostra esperienza interna. L’esposizione costante alle immagini di guerra non è mai neutrale, perché il cervello non distingue tra ciò che vive direttamente e ciò che osserva in forma mediata. Per questo i media diventano amplificatori potenti dei nostri processi psicologici: moltiplicano le emozioni già presenti, intensificano la frustrazione e accelerano i meccanismi di difesa che abbiamo descritto, dall’assoluzione comparativa all’impotenza proiettiva.

  • L’esposizione è continua: ogni giorno, più volte al giorno, immagini nuove, dettagli sempre più crudi.
  • L’esposizione è globale: non riguarda solo chi cerca le notizie, ma raggiunge chiunque attraverso i social.
  • L’esposizione è emotivamente satura: la nostra mente non distingue tra “vissuto diretto” e “vissuto mediato”.
  • L’amigdala risponde a un’immagine di un bambino ferito come se fosse davanti a noi.

Questa saturazione impedisce la riflessione e amplifica le scorciatoie difensive:

  • l’assoluzione comparativa (mi sento giusto perché non faccio ciò che fanno loro),
  • l’impotenza proiettiva (scarico la frustrazione dentro o fuori di me).

Effetti nelle relazioni quotidiane

Questi processi non restano confinati all’ambito mediatico. Si traducono in:

  • Famiglia: più litigi, più svalutazioni, più durezza verso i figli.
  • Scuola: un bullismo più spietato, meno frenato da sensi di colpa.
  • Relazioni sociali: linguaggi più violenti online, commenti più aggressivi, polarizzazione delle opinioni.

Il massacro che vediamo a Gaza, dunque, non resta “là fuori”. Entra nelle nostre case, si insinua nei nostri corpi, nei nostri linguaggi, nei nostri comportamenti.

Educare le emozioni per non alimentare la violenza

La guerra, con le sue immagini devastanti, ci ricorda che la violenza non è mai solo un fenomeno esterno. Ogni volta che svalutiamo, screditiamo, umiliamo, stiamo riproducendo – su scala ridotta – lo stesso meccanismo che regge i conflitti più grandi: la disumanizzazione dell’altro. L’esposizione mediatica amplifica questi processi perché ci costringe a confrontarci con la crudeltà senza offrirci spazi di elaborazione, intensificando frustrazione, impotenza e bisogno di giustificazione.

Per questo diventa urgente parlare di educazione emotiva. Non come slogan, ma come percorso reale che parte dal singolo. Non possiamo pensare di cambiare i sistemi politici o le dinamiche globali senza prima lavorare sul nostro modo di gestire le emozioni. È nel quotidiano che si costruisce la cultura della violenza o, al contrario, la cultura del rispetto. Saper riconoscere la propria rabbia, elaborare la propria impotenza, nominare la frustrazione senza trasformarla in aggressione: questi sono i veri atti rivoluzionari.

Ognuno di noi è chiamato a fare un lavoro di consapevolezza: non limitarsi a indignarsi per le violenze lontane, ma guardare a come si muove la violenza invisibile dentro di sé e nelle proprie relazioni. Solo così l’indignazione non resta sterile, ma diventa trasformazione.

In questo cammino, il mio libro Il mondo con i tuoi occhi può rappresentare un aiuto concreto. È un invito a guardarsi dentro, a riscoprire le ferite nascoste, a imparare strumenti per costruire una felicità autentica, che non dipende dal riconoscimento esterno ma dalla capacità di essere presenti a sé stessi. Non offre soluzioni preconfezionate, ma apre spazi di riflessione e di esercizio emotivo per imparare a non cadere nelle dinamiche di oggettivazione e sopraffazione.

Perché la pace – dentro e fuori – non si costruisce solo con trattati o accordi, ma attraverso il modo in cui ogni individuo impara a riconoscere l’altro come fine, e non come mezzo. Ed è da questa consapevolezza personale che può nascere una cultura capace, un giorno, di trasformare davvero il mondo. Il mio libro è disponibile in libreria e qui su Amazon

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