Ci sono frasi che, quando le leggi, sembrano semplici. Eppure, contengono una rivoluzione. “Non puoi guarire se non sei disposto a rinunciare a ciò che ti ha ferito” è una di quelle frasi che sussurrano, ma dentro, fanno rumore. Perché in fondo lo sappiamo: non basta voler stare bene. Non basta dire “voglio guarire”. Guarire richiede una rinuncia profonda, spesso dolorosa: quella a ciò che ci ha accompagnato per anni, pur facendoci male.
È un paradosso che conosciamo bene
Ci lamentiamo di un rapporto che ci fa soffrire, di una famiglia che ci ingabbia, di un lavoro che ci svuota. Eppure, restiamo. E quando qualcuno ci tende la mano, magari per aiutarci a uscirne, ci tiriamo indietro. Non per mancanza di coraggio, ma perché quella sofferenza ha messo radici nella nostra identità.
E allora la vera domanda non è “come si guarisce?”, ma: sei disposto a lasciare andare ciò che ti ha ferito… anche se per te era tutto?
La sofferenza come luogo familiare: l’idealizzazione dell’amore che ferisce
In psicoanalisi, si sa: l’essere umano non si affeziona a ciò che lo fa stare bene, ma a ciò che conosce.
E se ciò che ha conosciuto nell’infanzia è stato un amore instabile, condizionato o assente, tenderà a riprodurre quello stesso modello anche da adulto, senza rendersene conto.
Alla base di questo meccanismo c’è un processo profondo e invisibile: l’idealizzazione dell’oggetto primario.
Il bambino, per non cadere nel terrore psichico di sentirsi solo e non amato, trasforma il genitore – anche se inadeguato o emotivamente pericoloso – in una figura buona, giusta, indispensabile. Idealizza, giustifica, rimuove.
Fa di tutto pur di salvare il legame. Perché perdere l’amore, per un bambino, equivale a perdere sé stesso.
Questo meccanismo, se non viene elaborato, si cristallizza nella mente adulta sotto forma di relazioni sbilanciate in cui si tollerano abusi, mancanze, svalutazioni. Non per masochismo, ma perché una parte profonda di sé continua a idealizzare chi ferisce, nella speranza di ricevere, finalmente, l’amore mancato.
Così si spiega perché spesso non riusciamo a lasciar andare chi ci fa male. Non è solo attaccamento, è la speranza radicata che prima o poi quella figura ci vedrà, ci amerà, ci riparerà. Ma quella speranza, per quanto struggente, è una trappola.
Guarire significa anche questo: rompere l’incantesimo dell’idealizzazione, vedere il reale, rinunciare alla fantasia di salvezza. E accettare che non tutti gli amori vanno trattenuti. Alcuni vanno compresi, onorati… e poi lasciati andare.
Il cervello emotivo: perché è così difficile lasciare andare
A livello neurobiologico, questa resistenza ha una base precisa: il nostro cervello, soprattutto nella sua parte più antica, è progettato per la sopravvivenza, non per la felicità. Il sistema limbico – dove risiedono l’amigdala, l’ippocampo e l’ipotalamo – è il custode delle memorie affettive più profonde.
Ogni esperienza vissuta in un contesto emotivamente intenso (soprattutto nell’infanzia) viene registrata come riferimento, e diventa uno schema.
Quando poi da adulti entriamo in una relazione simile a quella vissuta da bambini – anche se è disfunzionale – il cervello reagisce con una sorta di sollievo. Ecco, questo lo conosco. Questo è sicuro. In questo senso, il cervello non distingue tra “sicuro” e “salutare”. Distingue solo tra familiare e sconosciuto. E ogni cambiamento – anche verso il benessere – viene vissuto come una minaccia.
Ecco perché molti preferiscono restare nella sofferenza piuttosto che affrontare il vuoto del cambiamento.
Perché il dolore è doloroso, sì… ma almeno non è incerto.
Le difese della mente: quando la guarigione fa paura
C’è un altro aspetto sottile, ma cruciale: le ferite spesso diventano identità. Ci diciamo: sono quella che si prende sempre cura degli altri, quello che viene sempre lasciato, quella che non è mai stata davvero amata. E, lentamente, ci identifichiamo con il dolore. Lo trasformiamo in uno specchio. Lo confondiamo con chi siamo.
In questi casi, guarire non è solo lasciare andare ciò che ci ha ferito, ma anche lasciar andare un pezzo di noi. Il pezzo che ha sopportato, lottato, resistito. Quello che si è adattato a tutto pur di non sentire il rifiuto. Per questo a volte la guarigione fa più paura della ferita. Perché ci chiede di rinascere. E ogni nascita ha un prezzo: lasciare la forma precedente.
Rinunciare non è perdere: è smettere di elemosinare
Molte persone restano nel dolore perché sperano, inconsciamente, che prima o poi qualcosa o qualcuno cambierà.
Che il padre smetterà di essere anaffettivo. Che il partner inizierà finalmente ad amarci nel modo giusto. Che il mondo riconoscerà tutto ciò che abbiamo dato in silenzio.
Ma guarire significa interrompere questa attesa. Smettere di sperare che chi ci ha ferito guarisca al posto nostro.
Smettere di cercare giustizia dove non c’è ascolto. E iniziare, per la prima volta, a stare dalla nostra parte.
Rinunciare a ciò che ci ha ferito non è perdere. È smettere di elemosinare amore dove ci siamo solo adattati.
È fare spazio a una vita che non sia costruita sulle briciole, ma sulla pienezza di chi, finalmente, ha scelto sé stesso.
Il corpo lo sa: segnali biologici della mancata rinuncia
La mente può mentire. Il corpo no. Quando restiamo troppo a lungo in situazioni che ci feriscono, il corpo comincia a lanciare segnali:
- insonnia o ipersonnia;
- fame nervosa o mancanza d’appetito;
- somatizzazioni ricorrenti (gastrite, emicranie, tensione muscolare);
- senso di vuoto, apatia, irritabilità.
Sono le parole del corpo quando non lo ascoltiamo a livello emotivo. Il sistema nervoso autonomo, in particolare, registra costantemente il nostro stato interno. Se viviamo in ambienti relazionali pericolosi, ambigui o svalutanti, il sistema limbico si attiva in modalità allarme cronico (iperattivazione dell’asse HPA, cortisolo alle stelle, sistema simpatico ipercoinvolto). Questo porta a esaurimento, disorientamento, ansia costante.
La verità è che non si può restare troppo a lungo in un posto che ci ammala, senza che questo ci costi qualcosa – dentro e fuori.
Guarire è anche (e soprattutto) un atto simbolico
In psicoanalisi, la rinuncia ha un significato profondamente trasformativo.
Lasciare andare una relazione tossica, un ruolo, una convinzione – anche se dolorosa – è un atto simbolico: segna il passaggio da una mente dipendente a una mente autonoma.
È come uscire da un sogno confuso. Come aprire gli occhi e accorgersi che, per anni, abbiamo tentato di ottenere amore dove non c’era disponibilità affettiva. Che abbiamo inseguito approvazione dove c’era solo controllo. Che ci siamo raccontati che “era colpa nostra”, pur di non perdere il legame.
Guarire è dire basta a questo racconto. È scriverne uno nuovo. Anche se la voce trema. Anche se la mano tentenna. Come si comincia, allora? Si comincia da una domanda semplice, ma rivoluzionaria: “Quello che sto vivendo mi cura o mi consuma?”
E se la risposta è: mi consuma, allora il lavoro non è più aggiustare il rapporto, né giustificare l’altro. Il lavoro diventa proteggere la parte di te che non vuole più farsi male per essere amata. Si comincia con piccoli atti di rottura:
- dire un “no” dove avresti detto “sì”;
- non rispondere a chi ti cerca solo quando gli conviene;
- non spiegarti dove non sei ascoltato;
- non accettare più di essere sempre l’ultimo della lista.
Ogni volta che scegli te stesso, stai già guarendo. Ogni volta che smetti di rincorrere ciò che ti ha ferito, stai già tornando a casa.
Guarire è una strada imperfetta, a volte dolorosa.
Non avviene in linea retta. Non è un taglio netto, ma un processo. Ma c’è un momento – sempre – in cui tutto cambia.
Quel momento arriva quando smetti di aspettare che l’altro ti veda, ti ascolti, ti scelga. E inizi a farlo tu, per te stesso. Non c’è niente di più potente.
Non puoi guarire se non sei disposto a rinunciare a ciò che ti ha ferito. Ma se lo fai – davvero – il tuo mondo interiore inizia a cambiare. Si riorganizza. Si alleggerisce. Si espande.
È questo il cuore del mio libro “Il mondo con i tuoi occhi”. Non ti insegna a essere felice secondo gli standard degli altri. Ti accompagna, passo dopo passo, a costruire una felicità che somigli a te. Una felicità che non nasce dal trattenere, ma dal lasciar andare ciò che ti ha tenuto in catene. Perché tu non sei le tue ferite. E puoi guarire, se sei pronto a rinunciare a ciò che ti ha fatto male. Il mio libro è disponibile in libreria e qui su Amazon
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Ti aspetto lì per continuare il viaggio.