Amare è una capacità, come guidare una macchina, cucinare, ecc.. Ci possono essere problemi o difficoltà nell’apprendimento e sviluppo della capacità di amare, per cui si parla in età adolescenziale e soprattutto adulta di “dipendenza affettiva”, aggiungo patologica, che va distinta dalla dipendenza affettiva “sana”.
Il termine “dipendenza”, tuttavia, ha e ha avuto culturalmente nel tempo valenza più negativa, dal momento che è stato usato linguisticamente con un accezione più negativa, in riferimento più a un disturbo, “a un troppo”.
Nel secolo scorso tale concetto e termine “dipendenza” è stato scientificamente arricchito (ma non sostituito) dal concetto di “attaccamento” (di J. Bowlby), inteso sommariamente come bisogno di cure, conforto e protezione collegato a relativi comportamenti di ricerca di vicinanza dell’altro/a (sia nel bambino che nell’adulto) nei momenti di difficoltà, di pericolo, di insicurezza o solitudine.
Dipendenza affettiva patologica o sana
Nella dipendenza affettiva patologica, ovvero in un legame affettivo “malato”, compare “un troppo”, un “eccesso di amore”, un amare “troppo”, anche se esiste (ma risulta meno evidente) l’altra faccia della medaglia: l’amare “troppo poco”, l’evitare i legami, l’essere quasi allergico ai legami, come manifestato dal continuo sfuggire o fuggire i legami affettivi stabili e duraturi: una vera e propria fobia, una paura eccessiva (fino al “terrore”) dell’intimità, del legame e dell’impegno.
Come tutte le problematiche di dipendenza patologica (da sostanze, da gioco, dal sesso, ecc.) anche la dipendenza affettiva patologica si caratterizza per la presenza di manifestazioni come l’intossicazione quali:
- voglio e ricerco sempre più quella persona
- non ho fatto o non faccio abbastanza per lui o lei
- l’assuefazione
– non mi basta mai la sua presenza
-voglio e mi aspetto sempre più, dall’altro/a, ma anche da me stesso/a - l’astinenza
-non riesco a fare a meno di lui o di lei
Pertanto, si “insegue”, si “rincorre” continuamente l’altro/a e se stessi.
Dall’altra parte, si può incontrare una persona cosiddetta normale, che non accetta una dipendenza affettiva “patologica” o che dopo un certo tempo si stanca e “lascia”.
Ma si potrebbe anche incontrare “l’altra faccia della medaglia”, la persona (uomo o donna) eccessivamente indipendente, che evita e rifugge i legami affettivi in maniera esagerata e spaventata, la cosiddetta personalità “evitante”.
In tal caso si potrebbe innescare un pericoloso gioco potenzialmente “senza fine” e sofferente simile a “guardie e ladri” (con chi fugge e chi insegue dolorosamente), fino ad arrivare ai casi di “stalking” fin troppo noti alle cronache dei nostri giorni anche con esiti tragici (omicidio/suicidio).
E’ importante dire e ricordare che si può essere non del tutto consapevoli di tale funzionamento personale disturbato in ambito affettivo e, quindi, non percepire il proprio problema o il proprio disturbo (per l’azione di meccanismi di difesa), allo stesso modo in cui non ci si può rendere conto o accorgere di avere un disturbo organico, come ad esempio il diabete.
E’ più facile rendersi conto, però, degli effetti o conseguenze della dipendenza affettiva patologica (o dell’evitamento affettivo patologico): di solito, esse creano e accumulano nel tempo un disagio insostenibile, un senso di insoddisfazione e un funzionamento sociale, affettivo e/o lavorativo “complicati”, potendo far scattare a distanza il famoso “campanello d’allarme”.
La “dipendenza affettiva patologica” ricorda molto il rapporto madre-bambino/a alla nascita, dove il bambino non può fare a meno della madre per “sopravvivere”. Ma in tal caso, questo stato di indifferenziazione, di non poter esistere senza l’altro, di non esser completi e di non farcela senza l’altro e quindi averne bisogno, è fisiologico, necessario per la sopravvivenza.
Da grandi, la persistenza di rapporti simbiotici è indice, invece, di un mancato completamento dello sviluppo psicoaffettivo e di scarsa autonomia personale.
Come ogni simbiosi, anche la dipendenza affettiva patologica è caratterizzata e alimentata da un preciso meccanismo a cui bisogna fare estremamente attenzione, in quanto pericoloso e altamente patologico: la “Svalutazione”.
Chi si sente e si comporta in modo eccessivamente dipendente a livello affettivo, immagina e si percepisce di non fare o di non valere abbastanza per l’altro/a, di non farcela senza la presenza dell’altro/a, e quindi “svaluta” (minimizza o nega) il suo reale valore personale, non riconoscendo i propri aspetti e capacità positivi, avendo sviluppato una scarsa autostima e una scarsa fiducia in sé stessi.
Pertanto, se ci si accorge di non essere soddisfatti della propria vita affettiva, di come si entra in rapporto con l’altro/a, di non riuscire a costruire legami stabili e duraturi, di non farcela da soli, senza l’altro/a, può essere utile chiedere aiuto ad un esperto, per liberarsi di una condizione (che può cronicizzarsi) e tornare così ad autorealizzarsi, anche e soprattutto in amore. Freud, infatti, sostiene che “la normalità è la capacità di lavorare e di amare”. Pertanto, ricordatevi: che si può amare da morire ma morire d’amore NO!
Bibliografia per approfondimento
Per approfondire l’argomento “Amore sano e amore malato” vi consigliamo la lettura del libro “La teoria dell’attaccamento” di John Bowlby.
Note sull’Autore:
Pietro Literio, psicologo clinico e professore universitario Università degli Studi G. D’Annunzio, Chieti-Pescara.
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