Sono molte le trappole dell’amore disfunzionale, dell’amore tossico, dell’amore malato e non sempre si riescono a riconoscere. Sono molte le forme in cui si presenta la violenza anche dove sembra regnare armonia, dove non c’è disagio sociale o per contro pantomimiche, superficiali rappresentazioni di civiltà borghese progressista.
Questo articolo parla delle donne intrappolate in relazioni amorose funeste e di come molto spesso ne siano vittime inconsapevoli, non tanto e non solo di un amore malato e malsano, ma piuttosto di uno schema relazionale disfunzionale che le rende continuamente vittime, invischiate in rapporti affettivi e sentimentali con uomini pressoché uguali: manipolativi, svalutanti, narcisisti e distruttivi.
Lo schema relazionale disfunzionale
Ma come si sviluppa e da dove ha origine tale schema relazionale? Per quale motivo queste donne sembrano commettere sempre gli stessi errori, scegliendo, affidandosi, mettendo la propria vita nelle mani di uomini che le criticano, le svalutano minano continuamente la loro autostima, o addirittura sono fisicamente o psicologicamente violenti?
Prima di rispondere a questa domanda ritengo sia utile descrivere meglio il tipo di rapporto a cui faccio riferimento: ossia quando dal mio punto di vista, clinico ed esperienziale, un amore diventa prigione. Quando non rappresenta una fonte di crescita e supporto reciproco, ma un luogo emotivo e relazionale di soprusi, invischiamenti, dipendenza affettiva associata a progressivo isolamento e riduzione dell’autostima e del senso di autoefficacia.
Solitamente, le donne che intrecciano questo tipo di rapporti sono esternamente e socialmente donne forti, creative, intelligenti con un discreto successo nella professione e a livello sociale. Tuttavia sono in genere emotivamente fragili spesso dipendenti dal giudizio e dalla conferma altrui; tali donne in genere hanno vissuto in famiglie di origine che non le hanno mai sostenute, rinforzate e riconosciute in ciò che sapevano o desideravano fare e soprattutto nei loro tentativi di autonomizzazione e individuazione.
La figura paterna si presenta spesso emotivamente assente, distante, sprezzante e con aspettative elevate, risultato dei propri desideri e sogni non realizzati, mentre la figura materna è spesso non protettiva nei confronti di quella paterna, svalutante, insoddisfatta della propria vita ed in conflitto con il proprio femminile e con il ruolo materno.
Sono donne piuttosto sole e pertanto cercano più o meno consciamente un uomo che sia una sorta di salvatore, di compagno solidale e presente, forte e, apparentemente potente, non tanto (o non solo) da un punto di vista economico e sociale, quanto da un punto di vista emotivo, al fine di compensare la propria fragilità, le proprie lacune.
Questi uomini si presentano all’inizio, normalmente, come gentili e premurosi, amorevoli, sicuri dei propri sentimenti e intenzioni, sono presenti e capaci di aiuto anche concretamente, dimostrando che su di loro si può contare, sono affidabili e stabili.
Tuttavia qualche elemento del loro carattere trapela anche all’inizio: qualche sbavatura nervosa nelle loro parole, l’ideale romantico della coppia inseparabile che non accetta l’imprevisto e vede non proprio di buon occhio lo spazio altrui. Sono piccoli dettegli ma che poi emergeranno in seguito in maniera deflagrante e inaspettata.
Come un novello Barbablu una volta fatta entrare la sposa le vieta di entrare nella sua stanza privata, le vieta metaforicamente di incontrare la sua Ombra nera, il suo daimon, ma questo inevitabilmente viene scoperto e mette a nudo la follia dell’uomo, la sua rabbia, la sua aggressività, il suo narcisismo maligno. La donna allora non può far altro che morire o farsi salvare dal suo maschile interiore, dal logos, dalla razionalità, dalla capacità di comprendere e fare un analisi lucida degli eventi, dalla capacità di chiedere aiuto e fuggire da una situazione malsana per lei.
Lasciando la metafora favolistica, solitamente i rapporti affettivi che assumono queste caratteristiche si sviluppano in una spirale discendente di mortificazioni, aggressività passiva e attiva, scoppi immotivati di rabbia e collera, manipolazioni e progressivo isolamento che inducono la donna a sentirsi non vittima e quindi con una possibilità di fuga, ma colpevole di non saper gestire meglio il rapporto, colpevole di essere la responsabile del comportamento aggressivo, del disagio e del malessere di coppia.
Il carnefice inevitabilmente diventa vittima, in un gioco di ruoli rovesciati e distruttivi per entrambe le parti, che avrà come esito consueto la proposta di scuse da parte della donna, l’assunzione della colpa, del silenzio, del sacrificio di un cambiamento che non è mai abbastanza, che non è mai accettato poiché richiesto in un ottica di perenne svalutazione, non riconoscimento dell’altrui valore e individualità.
Tutto questo può durare anni o fino a che non si giunge ad una vera e propria consapevolezza e presa di coscienza di tali meccanismi; molto spesso purtroppo le donne intrappolate in rapporti disfunzionali di questo tipo, possono sperimentarli anche con uomini diversi, con diverso grado di violenza e sottomissione.
Gli uomini implicati invece tendono a non accorgersi mai di ciò che imbastiscono a livello relazionale a causa di uno scarso insight, di timore o eccessiva tendenza al vittimismo.
Le donne che vivono tali relazioni disfunzionali devono inizialmente rendersi conto che non dipende da loro il pessimo umore o carattere del loro compagno, che il loro valore è intrinseco e inviolabile e non va in alcun modo messo in dubbio. Disgiungere il proprio Sé, la propria individualità da quella di un altro, dalla conferma esterna è il primo passo per avviare un vero percorso di conoscenza delle proprie dinamiche al fine di poterle modificare e vivere rapporti più sani e funzionali.
A cura di: Morena Romano, Psicologa-Psicoterapeuta
Specializzata in Psicoterapia Analitica Junghiana
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