Si sa, la mente umana, ancora ad oggi, è un’incognita. Ogni qualvolta se ne scopre una qualche novità, ve ne sono altrettante che invece risultano del tutto ignote. Dobbiamo arrenderci al fatto che non la conosceremo mai del tutto. Ma in fondo questo, è qualcosa che fa parte del suo fascino.
I comportamenti realizzati in alcune circostanze, sono proprio frutto dei complessi meccanismi della nostra mente. Ogni persona nella sua unicità, ha un proprio modo di rispondere a fatti o eventi, eppure esisterebbero alcuni tratti del comportamento umano più o meno comuni a tutti.
Nella storia della psicologia, molti sono stati gli esperimenti che hanno dato la possibilità di comprendere il perché di alcuni comportamenti umani. I risultati sono sempre sorprendenti ed affascinanti, come del resto l’eccezionalità della mente umana. Vediamo insieme qualche curiosità emersa dai più importanti esperimenti della storia della psicologia.
1 – Mai fidarsi della propria memoria!
“Sono certo/a, me lo ricordo perfettamente, come fosse ora!”. Chissà quante volte vi sarà capitato di dirlo o sentirlo dire, eppure, per quanto ci si possa sentire convinti del proprio ricordo, potrebbe in realtà, essere sbagliato. Si parla in questo caso di “falso ricordo”.
Nel 1974 Elizabeth Loftus e John Palmer, condussero un esperimento piuttosto interessante al fine di verificare come il linguaggio e le parole potessero “manipolare” un ricordo.
Ai partecipanti fu mostrato un video che ritraeva un incidente stradale avvenuto realmente. Gli stessi furono poi suddivisi in due gruppi. Ai partecipanti di un gruppo venne posta la domanda: “Quale era la velocità dell’auto al momento dell’impatto?” agli altri invece venne richiesta la stessa stima, ma utilizzando parole differenti all’interno della frase, ovvero: “Quale era la velocità dell’auto al momento dello schianto?”. Vennero poi poste domande simili a queste utilizzando altri termini come: urto, colpo, distruzione eccetera. A sorpresa, la stima della velocità, diminuiva o aumentava in base alle parole utilizzate dagli sperimentatori, all’interno della domanda.
Questo dimostra come in realtà i ricordi siano vulnerabili e soggetti ad interferenze esterne. Le parole hanno un potere immenso sui ricordi, possono distorcerli, o anche crearli. Tale processo merita di essere tenuto in considerazione sopratutto nel caso di testimonianze, le quali possono essere facilmente condizionate da ogni informazione esterna che può facilmente integrare il ricordo reale o addirittura crearlo totalmente.
2 – Siamo tutti possibili criminali!
Lo so, è un’affermazione piuttosto forte e mi rendo conto che si possa essere facilmente contrariati, ma Philip Zimbardo, a seguito del suo esperimento della prigione di Stanford ci conferma proprio questo. È forse uno degli esperimenti più famosi e sicuramente, uno dei più criticati perché ritenuto in contrasto con ogni regola etica.
Siamo nel 1971 quando all’interno della facoltà di psicologia di Stanford fu allestito un finto carcere. 24 studenti volontari furono assegnati a due gruppi: da una parte i “prigionieri” e dall’altro le “guardie”. Vennero eseguiti colloqui preliminari e furono considerati tutti psicologicamente sani e quindi, l’assegnazione ad un gruppo o all’altro, fu del tutto casuale.
Compito degli sperimentatori era quello di osservare per 24 ore al giorno, le dinamiche che prendevano vita all’interno della “prigione”.
Non erano presenti finestre, ma vi erano invece, oltre alle telecamere, innumerevoli microfoni al fine di poter ascoltare i discorsi tra i prigionieri e tra le guardie. L’esperimento sarebbe dovuto durare per 15 giorni, ma dopo solo 6, venne interrotto perché divenuto pericoloso a causa del comportamento violento delle “guardie”, le quali tendevano a deumanizzare e mortificare i “prigionieri”.
Questo esperimento, mostrò come anche le cosiddette “brave persone” in alcune circostanze e per adempiere a determinati ruoli, possano trasformarsi in aggressive e violente. Il comportamento umano, può quindi subire forti influenze dal contesto e dalle situazioni esterne.
3 – Se si ha bisogno di aiuto, è meglio che vi sia una sola persona nelle vicinanze!
Quest’affermazione potrebbe sembrare alquanto bizzarra, considerando altresì che la presenza di persone rassicura, e, maggiore è la numerosità, maggiore è la sicurezza di ricevere aiuto nel caso ve ne fosse bisogno. Il caso di Kitty Genovese conferma proprio il contrario.
Non si può parlare di un vero e proprio esperimento, ma questa vicenda fu oggetto di riflessioni e spunto per successivi studi. È il 1964 quando un articolo del New York Times denuncia un fatto decisamente inconcepibile. Almeno 40 persone assistettero all’omicidio di Kitty Genovese, senza fornire aiuto, nemmeno chiamando le forze dell’ordine.
Qualche tempo più tardi Bibb Latané e John Darley, ispirati dalla vicenda condussero alcuni esperimenti che li portarono a definire tale comportamento come “effetto spettatore”.
In situazioni di emergenza, maggiore è il numero degli astanti, minore è la probabilità che qualcuno intervenga per offrire aiuto.
Questo avverrebbe a causa di un fenomeno chiamato diffusione di responsabilità, ovvero la sensazione di non avvertire la responsabilità di prestare soccorso quando sono presenti altre persone che possono farlo. Va da sé, che se tutti i presenti alla situazione, applicano la stessa considerazione – “ci sono altre persone che possono aiutare, perché dovrei farlo io?”- nessuno si sentirà in dovere d’intervenire. Inoltre, non dimentichiamoci che siamo portati per natura all’influenza sociale, ovvero, ad imitare gli altri. Quindi, nel vedere le altre persone che non fanno nulla, vi è quasi la certezza che si farà altrettanto.
Ecco perché, qualora ci si dovesse trovare in difficoltà e ad avere bisogno d’aiuto, ci si deve augurare che non vi siano troppe persone nei dintorni. Può sembrare piuttosto inverosimile, ma d’altronde il comportamento umano è bizzarro e a tratti, imprevedibile.
4 – Ogni situazione deve avere una giustificazione e un senso
Sarà capitato a tutti almeno una volta nella vita, dopo un evento poco piacevole, cercare a tutti i costi una spiegazione, un senso che potesse renderlo meno doloroso. Rappresenta la necessità di “mettere ordine”, una ricerca di coerenza che è insita nella natura umana. Ed è per questo motivo che si tende a creare routine, abitudini, schemi di pensiero e convinzioni.
Tale comportamento venne definito da Leon Festinger come “dissonanza cognitiva”, che si verifica ogni qualvolta sorge malessere a causa di un’incoerenza di pensiero. Si sarebbe portati quindi a formulare nuovi principi e convinzioni in grado di alleviare la contraddizione.
Al fine di confermare questa sua teoria, nel 1957 Leon Festinger e James Carlsmith, misero a punto un esperimento dove si chiedeva ai partecipanti di svolgere un compito piuttosto noioso, al termine del quale, vennero remunerati con 1 o 20 dollari, al fine di convincere i partecipanti del turno successivo, del fatto che il compito fosse in realtà divertente e interessante.
Terminato l’esperimento, i risultati confermarono la teoria e misero in luce che: coloro i quali ebbero ricevuto in compenso 20 dollari, affermarono di aver trovato il compito noioso, ma consideravano ricompensa sufficiente per giustificare la “perdita di tempo”, gli altri, che invece ebbero in compenso un solo dollaro, affermarono quasi auto – convincendosi, che il compito era davvero divertente, questo fu senza dubbio, un tentativo di ridurre la dissonanza cognitiva e quindi la discrepanza tra comportamento e convinzioni.
Veronica Rossi, Psicologa e Mental Coach
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