I tentacoli della solitudine

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Psicologa, Sessuologa clinica e Psicoterapeuta interazionista in formazione
Illustrazione: Ohgigue

Tra i giochi che preferivo fare da bambina il più divertente era sicuramente l’attenta osservazione delle persone. I loro movimenti, le espressioni, il loro modo di entrare in relazione con l’altro. Ascoltavo accuratamente le parole che sceglievano per raccontare ciò che accadeva intorno a loro, e come cambiavano in base al contesto in cui si trovavano.

Una volta terminata l’osservazione mi sforzavo di capire a quale animale potessero assomigliare. In alcune persone riuscivo a riconoscere chiaramente un solo animale. In altri ne riconoscevo molti diversi, a seconda delle situazioni sperimentate dalla persona. Da allora ho sempre creduto che esistessero degli animali che ci rappresentassero simbolicamente, e che osservando con attenzione i loro comportamenti potessimo comprendere simbolicamente alcuni aspetti dell’animo umano.

La metafora del polpo

Che il polpo fosse uno dei miei animali me ne accorsi a circa tredici anni, quando ne incontrai uno in mare: tendendo un braccio indagatore, curioso delle mie braccia, sembrava volesse prendermi la mano per fare un giro. I pescatori mi dissero che questi animali sono in grado di riconoscere le persone, e che reagiscono in modo diverso davanti a individui diversi, accogliendo alcuni e spruzzando d’inchiostro altri.

L’interazione con questa creatura è molto particolare: non sembra essere né amica né nemica, è piuttosto una coesistenza. Si ha un senso reciproco di coinvolgimento. Ti osserva con attenzione, in genere mantenendo una certa distanza, ma non molta. Se ci si mette davanti alla loro tana e si protende una mano, spesso allunga un braccio. Prima per esplorarti, e poi per cercare di trascinarti nel loro nascondiglio.

È come se il polpo fosse socievole, ma non sociale. È incuriosito dall’altro e dall’interazione con lui, talvolta non ha paura di avvicinarsi alla mano tesa di un essere umano, ma conduce un’esistenza solitaria, nella sua tana.

Ho riconosciuto questo modo di interagire in molti altri esseri umani: in genere nella loro infanzia sono stati bambini abituati a crescere in solitudine, rimanendo però incuriositi e aperti all’altro.

Spesso additati come troppo strani, troppo impacciati, “troppo” qualcosa, questi bambini imparano ad apprezzare la solitudine riconoscendo allo stesso tempo l’importanza dell’interazione con l’altro, che cercano con interesse ma con una punta di spavento. Perché il sentirsi come un “polpo fuor d’acqua” nel mondo che ti circonda spaventa, molto.

E proprio come i polpi non hanno un colore o una consistenza stabile, ma li cambiano a piacimento per adattarsi all’ambiente, questi bambini imparano molto bene ad adattarsi all’ambiente circostante, per evitare di essere feriti o essere additati come “troppo” strani, “troppo” silenziosi, “troppo” sensibili, “troppo” irascibili, “troppo”.

Nel corso della vita cambiano tanti passatempi, tante passioni, tante maschere, tante direzioni di vita, dimostrando una straordinaria capacità di appassionarsi, di incuriosirsi, di interessarsi al mondo circostante. Non a caso, i polpi costituiscono anche un simbolo perfetto della rigenerazione: sono capaci di liberarsi di uno dei loro tentacoli, per poi rigenerarli, in caso di pericolo.

Chi impara ad adattarsi a un mondo che incrimina di essere “troppo”, impara anche a fare a meno di parti di sé: abitudini che si credevano consolidate e piacevoli, persone delle quali si credeva impossibile fare a meno, posti che venivano chiamati “casa”. E non importa più quanto queste parti possano apparire importanti, non importa più quanto l’abbandono possa far male, a volte per sopravvivere bisogna lasciare andare.

E l’esperienza insegna che, prima o poi, qualcosa di nuovo verrà. E che come al solito ci si abituerà.
Crescendo imparano a sperimentare i propri limiti:

  • quanto possono permettersi di fidarsi dell’altro senza esserne ferito?
  • Quanto essere autenticamente loro stessi senza essere nuovamente additati come “troppo” qualcosa?
  • Quanto possono resistere con l’altro prima di voler tornare nell’amata solitudine?

E anche il polpo sfida e sperimenta continuamente i limiti. Il suo corpo, una massa di tessuti molli senza ossa, non ha una forma fissa. Riescono a passare attraverso fessure larghe anche pochi centimetri, la dimensione del loro becco, che è l’unica parte realmente dura del loro corpo.

E proprio come il polpo riesce a passare attraverso fessure che abbiano almeno la piccola dimensione del proprio becco, si impara che è possibile lasciarsi alle spalle qualcosa solo quando è chiara, che si può essere sicuri di aver preso una decisione giusta solo quando tutto ha un senso, quando intorno alle proprie scelte si può ricamare un discorso logico che non faccia una piega, che fili perfettamente. Perché, come diceva Wittgenstein, “i limiti del mio linguaggio sono i limiti del mio mondo”, e solo le terre che possono essere capite, comprese, mentalizzate e spiegate perfettamente sono tane sicure.

Il corpo senza limiti e la notevole forza fisica (un polpo gigante del Pacifico può sollevare 14 kg con una sola ventosa) rende questo animale molto difficile da tenere in cattività. Quando sono in cattività i polpi sembrano essere consapevoli della loro condizione. A volte vi si adattano, ma possono anche opporre resistenza utilizzando gli oggetti che li circondano, piegandoli ai propri fini cercando di scappare via.

Ed è proprio la cattività che anche questi bambini imparano a non sopportare, perché quando sperimenti la grande libertà che può donarti la solitudine, diventa difficile barattarla per qualcos’altro. Anche se si guadagna uno scambio umano piacevole: un legame rimane sempre una corda.

All’inizio della sua storia evolutiva, il polpo ha rinunciato alla conchiglia protettiva tipica dei molluschi per abbracciare una vita di possibilità senza limiti. Ma così facendo si è reso più vulnerabile agli attacchi di predatori provvisti di denti e ossa.

Anche gli esseri umani sono privi di una conchiglia emotiva che possa proteggere dalle parole, dalle intenzioni e dagli agìti degli altri quando feriscono, quando non li si comprende o quando si vorrebbe che gli altri cambiassero. Che tutto fosse diverso.

Diventa molto difficile uscire dalla propria confortevole e confortante solitudine se anticipiamo di non riuscire a proteggerci come vorremmo. Diventa difficile aprirsi all’altro se ci si aspetta di poterlo ferire a causa dell’essere “troppo”. Diventa difficile volersi rivolgere all’altro, ma non sapere come farlo. Eppure, la curiosità e il bisogno dell’interazione con l’altro ci spinge, ancora e ancora, a cercare qualcuno al di fuori di noi. Qualcuno che ci faccia sentire amati, compresi, considerati, accolti, anche quando crediamo di essere “troppo”.

Forse, da un convenzionale punto di vista, la vita di un polpo è già di per sé tragica, fatta di socialità senza società, di messaggi inascoltati e di un mondo vitale poco longevo. Un alieno.
Ma se il polpo fosse più simile a noi, forse lo lasceremmo in pace?

Alessandra Gervasi, psicologa e sessuologa clinica
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