Il comfort food: quando ingeriamo le emozioni

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Psicologa e Psicoterapeuta analitica in formazione, con utilizzo della Sand Play Therapy e psicodiagnosta con Test Rorshach e altri test. Riceve online e nel suo studio di Empoli.
Illustrazione: Jenni Jackson

Il nuovo connubio tra neuroscienze e l’arte culinaria si chiama neuro-gastronomia. Si tratta di una recente disciplina, nata dagli studi del neuroscienziato Gordon Shepherd. In fondo lo sapevamo in maniera intuitiva: al momento dell’assunzione di cibo, il nostro cervello reagisce sensibilmente!

Che certi odori, sapori, persino colori, associati ad un determinato cibo, ci facessero rievocare ricordi positivi o negativi, a secondo di quello che abbiamo percepito quando lo abbiamo mangiato, é una conoscenza comune e condiviso.

Dove si deposita il ricordo dei sapori

L’amigdala, l’ippocampo, nucleo accumbens, mantengono inalterata l’emozione, sfidando spazio e tempo. Quel determinato sapore, il colore, l’atmosfera che lo accompagnava si mescolano impercettibilmente a quel cibo.

Queste aree celebrali si attivano in maniera implicita, rievocando il ricordo corrispondente e attivando il nostro lobo frontale, fonte di consapevolezza.

Il cibo non è il detentore del gusto ma è un contenitore di molecole odorose, che vengono interpretate dal nostro cervello come sapore. Fondamentale quindi la sensazione di piacere e dispiacere che accompagna l’assunzione di un cibo all’ambiente, all’atmosfera, al clima emotivo e al nostro stato d’animo.

Le influenze dell’ambiente esterno

Colore e forma del piatto influenzano la percezione del gusto dello stesso alimento se questo è posto su due piatti differenti, per forma e colore.

La percezione visiva, infatti, amplifica o distorce, il gusto reale dell’alimento. Un altro effetto curioso è noto sotto il nome di Bonba- Kiki effect.

Il Bonba-kiki effect fa riferimento alla capacità del nostro cervello di modificare il gusto in base alla percezione della forma dell’alimento o anche in base all’esposizione a suoni diversi. Dunque, non solo percezione visiva ma anche acustica.

Suoni morbidi (Bonba) vengono associati a forme arrotondate con la sensazione di un gusto più dolce. Invece suoni più taglienti (kiki), saranno associati a sensazioni più acri.

Le influenze dell’ambiente interno

Quando immaginiamo o ricordiamo un piatto, il cervello è condizionato dall’aspettativa del sapore legato a quel particolare alimento e riattiverà le aree celebrali connesse a quel ricordo. Quindi è anche il nostro cervello a condizionare il sapore del cibo e non esclusivamente in rapporto contrario.

Il gusto di un alimento riattiverà il ricordo associato al momento in cui lo abbiamo assaggiato per la prima volta. Se è un cibo che ci ricorda i momenti dell’infanzia ci farà ritornare con la memoria ai momenti conviviali, magari del pranzo domenicale, dove tutti riuniti si festeggiava con il rumore del sugo, che sobbolliva sopra il fuoco e probabilmente verremo colti da un sentimento nostalgico, se l’emozione associato ad esso era di serenità.

Tutto ciò richiama alla mente, il complesso mondo del campo relazionale. In fondo come aveva ben intuito Jung, con la trasformazione alchemica degli elementi, per trasformare il vile metallo, in oro, bisogna usare il fuoco. Il fuoco scalda, decompone, riduce, trasforma gli elementi di una ricetta in un’armonica combinazione di gusto. Il fuoco quindi oltre a trasformare gli elementi, racchiude in sé il senso di calore e di famiglia.

Quando ingeriamo le nostre emozioni: il comfort food

Il cibo può assumere un valore compensatorio di un vuoto o carenza affettiva e divenire una forma di baratto del proprio spazio vitale. I comfort-food sono cibi che coccolano, gratificano, colmano un vuoto ed aiutano ad anestetizzare dalle emozioni ingombranti.

Come diceva Maria Teresa di Calcutta: «La fame d’amore è molto più difficile da rimuovere che la fame di pane».

Il cibo diviene un mezzo per tamponare ai vuoti affettivi, vuoti inespressi che possono avere origini molto antiche e riemergere in momenti particolarmente difficili della vita.

È’ infatti abbastanza comune gratificarsi con qualcosa di ‘goloso, quando ci sentiamo particolarmente stressati, ma la cosa diventa più seria quando subentra l’abitudine a mangiare per compensare emozioni negative.

La motivazione inconscia a consolarsi con i comfort-food (non si parla necessariamente di cibo spazzatura), ha un effetto consolatorio molto limitato nel tempo. Subito dopo l’ingestione compaiono, infatti, senso di colpa, ansia e vergogna per non essere stati abbastanza forti da resistere all’impulso, creando un circolo vizioso dove lo stress paradossalmente può spingere nuovamente a mangiare.

Sono infelice e quindi mangio, diventa un’ abitudine non troppo salutare che può sfociare in patologie del comportamento alimentari vere e proprie.

Stressoressia

Il cibo non è sempre vissuto come un rifugio. La stressoressia è un disagio psicologico che colpisce prevalentemente le donne dai 28 e 40 anni che, a causa di ritmi frenetici, carichi di lavoro e stress, arrivano a considerare i pasti come una mera perdita di tempo, con la spiacevole conseguenza di far perdere loro drasticamente peso.

Questo disturbo, può portare a forme di anoressia da stress, dovuta appunto, alla perdita dell’abitudine di mangiare.

Mangiare le emozioni per compensare le frustrazioni

Mangiare le emozioni, ossia compensare una frustrazione con il cibo,  può essere un’abitudine che abbiamo appreso nella nostra infanzia, dove un premio per un bel voto veniva gratificato con qualcosa di dolce, come un gelato, cioccolata o qualche altra leccornia.

La punizione al contrario, poteva essere la privazione di quel cibo, tanto amato e desiderato. Quindi non meravigliamoci se da adulti continuiamo ad usare questo comportamento, usare il cibo per gratificarci o compensare un vuoto interiore.

In questa fase di pandemia, avvicinarsi frequentemente al frigo può diventare un’abitudine facilitata dallo Smart-working, dove il lavoro svolto in solitudine può far riaffiorare questo comportamento.

Cosa può aiutarci

Provate a fare pace con voi stessi e a capire le motivazioni profonde che vi spingono a questo comportamento ed invertite la rotta. Munitevi di carta e penna, provate a mettere nero su bianco i motivi che vi spingono a mangiare e soprattutto una lista di comportamenti alternativi che potete adottare quando sopraggiunge l’impulso di assumere un surplus alimentare.

Impara a stare bene con te stesso

Innanzitutto fate mente locale su cos’è che non va nella vostra vita. Ecco un esempio:

  • Conduco una vita noiosa.
  • Ho poca fiducia nelle mie capacità.
  • Non prendo quasi mai l’iniziativa.
  • Non ho niente di interessante da dire.
  • La mia vita sentimentale non mi soddisfa.
  • Non mi piace il mio lavoro

In quante di queste affermazioni vi riconoscete? Tanto più sono numerose le affermazioni che sentite vostre, tanto più alte sono le possibilità che tenderete a colmare questo vuoto con il cibo compensatorio.

Per ogni affermazione che sentite vostra, provate a catturare l’emozione sottostante, visualizzatela, provate anche a disegnarla (come da bambini!) su di un foglio bianco di carta. Insomma, cercate di visualizzare quell’emozione e familiarizzarci: vivetela, ascoltatela, cercate di comprendere cosa vuole comunicarvi…. solo così riuscirete a non mangiarla.

Buona Vita!

Autore: Dott.ssa Paola Cervellati, psicologa

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