Negli ultimi tempi siamo abituati a svolgere diversi compiti contemporaneamente, ad andare sempre di fretta, con lo sguardo sul cellulare che quasi non ci accorgiamo più di chi ci è attorno: non facciamo più caso ad una signora anziana che è in difficoltà a portare le buste della spesa troppo pesanti per lei, non notiamo il senzatetto che dorme infreddolito su una panchina o un uomo che chiede l’elemosina. Ma, ovviamente, questo non vale per tutti: c’è molta gente che svolge volontariato o che compie quotidianamente atti di generosità; queste persone, comportandosi in questo modo, non solo aiutano gli altri ma aiutano se stesse.
Non c’è bisogno di compiere gesti eclatanti di altruismo o generosità per trarre benefici, basta anche una parola di conforto ad un amico in difficoltà, donare un pasto caldo ad un senzatetto, versare un piccolo contributo ad un’associazione di volontariato o portare del cibo ad un canile: basta essere gentili, di una gentilezza sentita. Ecco la parola “magica”: la gentilezza.
La gentilezza: come questo tratto della personalità migliora la vita di chi la possiede
Nelle nostre conversazioni quotidiane, quando ci riferiamo a chi è gentile, la definiamo una “brava persona”; secondo gli psicologi le “brave persone” sono quelle che nei test di personalità ottengono un punteggio alto relativo al tratto “gradevolezza”. Questo tratto caratteriale è accompagnato da generosità, altruismo e attenzione verso gli altri. Secondo varie ricerche, essere gentili porta diversi benefici sia sul piano personale che professionale.
Uno studio condotto nel 2010 da alcuni ricercatori del National Institute of Aging ha evidenziato come le persone cha avevano riportato un alto punteggio di gradevolezza erano meno stressate; al contrario, chi riportava un punteggio basso aveva più probabilità di ispessimento delle arterie della carotide con un maggior rischio di arresto cardiaco.
Inoltre, le persone gentili tendono ad avere matrimoni più lunghi, hanno un migliore rapporto con i figli, una rete sociale più ampia ed, in generale, una vita più soddisfacente. Anche dal punto di vista professionale tali persone possono trarre benefici: lo psicologo Timothy Judge, in uno studio del 2011, ha dimostrato che le persone gradevoli erano meno esposte ai licenziamenti; inoltre, un altro studio condotto nel 2002 dallo psicologo Lawrence A. Witt ha evidenziato come gli impiegati con una personalità gradevole ricevevano valutazioni migliori sulle prestazioni lavorative.
Chi è gentile, come ho già accennato prima, è più propenso a svolgere attività di volontariato. Questo non fa bene solo a chi lo riceve ma anche a chi lo fa: fare del bene fa bene. Secondo diversi studi, chi è attivo nel volontariato è più felice ed è meno incline alla depressione. Compiere gesti altruistici ci fa sentire utili, aumentando la fiducia nella nostre capacità e favorendo una visione più ottimistica della vita.
Inoltre, essere attivi nel volontariato, può ridurre anche lo stress lavorativo. In tale ambito, nel 2010 un team di psicologi del lavoro dell’Università di Costanza, in Germania, ha effettuato un esperimento: ha chiesto a 105 volontari con un’occupazione lavorativa stabile di annotare su un diario le varie attività svolte nel tempo libero, includendo anche le eventuali azioni di volontariato.
Osservando il loro comportamento sul luogo di lavoro, i ricercatori hanno evidenziato che le persone che erano attive nel volontariato erano più rilassati, reagivano con più calma di fronte ai problemi ed erano più disponibili verso i colleghi.
In che modo essere gentili e generosi ci fa sentire meglio? Cosa accade nel nostro cervello?
Se l’è chiesto William Harbaugh, ricercatore dell’Università dell’Oregon, che ha effettuato un esperimento durante il quale ha esaminato il cervello di alcuni volontari tramite la risonanza magnetica funzionale.
In tale esperimento alcuni volontari sono stati invitati a gestire cento dollari nel modo che ritenevano più opportuno: potevano donarli ad un’associazione di volontariato oppure potevano tenerli con sé. Durante l’esperimento, il ricercatore ha esaminato quali aree cerebrali venivano attivate in chi era generoso: la risonanza magnetica ha evidenziato l’attivazione di alcune aree che hanno un ruolo importante nei meccanismi della ricompensa emotiva.
E, infatti, come afferma l’economista e ricercatore Giorgio Coricelli, le azioni umane sono determinate dalla ricompensa attesa, che sia essa emotiva o materiale. Tornando all’esperimento precedente, si è notato che si attivano le stesse aree cerebrali sia mentre si mangia un dolce o si svolge un’attività gradevole, sia mentre si compiono gesti altruistici: perciò si prova piacere sia quando si ottengono benefici per sé che per gli altri.
Pertanto ogni qualvolta si prova piacere per aver fatto qualcosa, si attivano i meccanismi cerebrali legati alla ricompensa; il circuito della ricompensa è governato dalla dopamina, un neurotrasmettitore che controlla proprio la ricompensa e la sensazione di piacere.
E chi è meno incline ad essere gentili ad altruista?
Può provare a mettere in atto la loving-kindess, una pratica della mindfulness (un particolare tipo di meditazione); la loving-kindess, letteralmente “gentilezza amorevole” è una pratica che consiste nel ripetere mentalmente auguri di salute e serenità rivolti a se stessi e agli altri; è un tipo di meditazione che ha come obiettivo quello di suscitare un sentimento di vicinanza con gli altri, stimolando la consapevolezza delle gioie e dei dolori.
Alcuni ricercatori dell’Università del Wisconsin, nel 2008, hanno effettuato un esperimento nel quale hanno sottoposto a scansione il cervello di chi praticava questo tipo di meditazione. Questo studio ha evidenziato che i partecipanti all’esperimento quando venivano esposti al suono di voci umane sofferenti, nel momento in cui stavano praticando la meditazione, manifestavano un incremento dell’attività di un’area cerebrale, detta insula, coinvolta nell’autoconsapevolezza e nell’esperienza emotiva. Ciò dimostra che, anche chi non è naturalmente incline ad essere generoso o altruista, può diventarlo: empatia e compassione non sono soltanto innati, ma possono essere appresi.
Autore: Lorenza Fiorilli, psicologa