Ecco cosa ha dato origine alla tua sofferenza: la ferita del rifuito

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L \\\'Autore di questo articolo è uno psicologo o psicoterapeuta.


Quando il bambino nasce è totalmente dipendente dalla presenza e dall’accudimento di un adulto; con lui, il piccolo costituirà una garanzia di sostegno, crescita e sviluppo. Come sappiamo però, in quel periodo della vita, possono accadere alcuni episodi che vengono percepiti dal bambino come minacciosi per la sua sicurezza e sopravvivenza, non solo a livello fisico, ma anche e soprattutto a livello relazionale ed emozionale.

La sua più grande preoccupazione (in modo istintivo) è quella di perdere la connessione con l’adulto a cui attribuisce tutto il potere di garantirgli la sicurezza

Le varie esperienze in cui il bambino percepisce una qualche minaccia e prova una particolare sofferenza psichica ed emozionale, provocano in lui un imprinting (una registrazione) che viene chiamata “ferita emozionale”. La diversa modalità con cui tale sofferenza viene percepita, dà luogo ad una specifica ferita emozionale.

Ogni ferita, a sua volta, è all’origine di un particolare meccanismo comportamentale di protezione, istintivo ed automatico, che ha lo scopo di evitare di rivivere quella stessa sofferenza e che si attiva, durante tutta la nostra vita, ogni qual volta accade un evento che percepiamo e interpretiamo con un significato analogo a quello delle prime registrazioni.

Nell’età adulta, questi meccanismi si rivelano però limitanti per l’individuo, facendogli percepire una sua irreale vulnerabilità e intrappolandolo, di conseguenza, in modalità relazionali ripetitive e vincolanti, che gli impediscono di maturare le sue piene potenzialità di adulto libero, consapevole e responsabile, in grado di relazionarsi con gli altri esseri umani in modo profondo ed autentico.

La ferita del rifiuto

Fra le ferite emozionali, quella del rifiuto ha forse le radici più antiche nella vita di un individuo, poiché può manifestarsi già nel grembo materno, come riconosciuto dalla Psicologia Prenatale. Nel caso in cui la madre, dopo aver scoperto di essere rimasta incinta, esprima sia a livello verbale che emozionale la sua prima reazione di contrarietà, questa diviene quasi una sentenza di condanna emessa sul nascituro ed egli, a livello istintivo la percepisce ancor prima di affacciarsi sulla scena del mondo.

Nella percezione sottile del bambino, questo atteggiamento di rifiuto potrà essere interpretato come un rigetto assoluto ed una minaccia alla sua stessa sopravvivenza, creando in lui le basi per una profonda angoscia esistenziale che lo accompagnerà per tutta la vita.

Nei casi di tentato aborto, la minaccia di morte è reale poiché coincide con una pratica, non riuscita, di porre termine alla gravidanza. In questo caso tale esperienza prenatale potrà conferire però alla persona una incredibile forza d’animo, inducendo in essa una tendenza, di grande determinazione, ad aggrapparsi alla vita nonostante tutte le possibili avversità dell’esistenza.

Spesso però non sono solo la madre o il padre ad esprimere il proprio rifiuto nei confronti del nascituro, ma può anche accadere che siano le famiglie di origine o l’intera comunità a non approvare la gravidanza per motivi sociali, culturali o religiosi, oppure il medico curante che, allo scopo di tutelare la puerpera dalle complicazioni di una gravidanza a rischio, propone l’intervento di aborto terapeutico.

In questo caso vi potrà essere la percezione di essere rifiutato da una terza persona che, con potere e autorità, dall’esterno costituisce una minaccia alla propria sopravvivenza, portando nella vita del soggetto una inconscia e compulsiva reattività nei confronti di quelle figure che in qualche modo hanno la stessa valenza simbolica (medici, insegnanti, sacerdoti, capufficio, ecc.).

Quando le esperienze di rifiuto sono originate in rapporto con la propria madre, ci potrà essere una inconscia tendenza a percepire una minaccia generalizzata da parte delle persone di genere femminile, mentre, se il rifiuto viene percepito dalla figura paterna, la persona tenderà ad adottare un atteggiamento difensivo nei confronti del mondo maschile.

Una ulteriore occasione di rifiuto può anche verificarsi quando il nascituro è di sesso diverso da quello desiderato da uno o entrambi i genitori; ancor oggi, nelle famiglie più tradizionali, si tende a dare più valore alla nascita di un primogenito maschio piuttosto che accogliere con gioia la nascita di una femmina.

Questa condizione si imprime così profondamente nell’animo della persona che essa stessa si considera sbagliata o non sufficientemente desiderabile. Ad esempio è possibile che una bambina, crescendo, rinunci a manifestare le specifiche caratteristiche fisiche o comportamentali femminili che hanno causato (nella sua percezione) una reazione così ostile e pericolosa per la sua stessa sopravvivenza.

Come è facile intuire, questa convinzione primaria riguardo la “giustezza” del proprio genere influenzerà lo sviluppo della personalità, condizionando il suo orientamento sessuale e relazionale. La percezione di non essere desiderato e voluto può influenzare anche l’immagine dell’essere bambino, tanto che colui che si sente rifiutato potrà rinunciare a vivere la propria infanzia cercando di assomigliare il più possibile agli adulti, sperando così di essere accettato.

Un’altra possibile reazione potrà manifestarsi, in età più adulta, come una tendenza alla fuga dalla vita stessa (magari rifugiandosi in mondi irreali, anche attraverso l’uso di sostanze quali droga e alcool), o dalle persone e circostanze da cui ci si sente rifiutati. Chi vive la ferita del rifiuto potrà anche avere la tendenza ad affermare il proprio diritto di esistere con un ossessivo bisogno di conferma da parte degli altri, provocando tuttavia, in loro, la stessa reazione di rifiuto che desiderava evitare.

La ferita del rifiuto può anche spingere la persona ad adottare un atteggiamento ed un comportamento di perfezionismo esistenziale attraverso il quale essa si illude di eliminare i possibili motivi di rifiuto da parte degli altri. In altre parole cerca di compensare le presunte carenze “dell’essere” con il fare o il possedere. Un’ulteriore strategia di compensazione della ferita del rifiuto è la tendenza dell’individuo a sviluppare comportamenti compiacenti e seduttivi con i quali si garantisce l’accettazione e l’attaccamento con il prossimo.

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