5 infallibili modi per sabotare la tua psicoterapia (e te stesso)

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Più di quaranta anni di studi sulle psicoterapie hanno portato innumerevoli ed interessantissimi acquisizioni sulle resistenze terapeutiche.

La resistenza terapeutica è quella forza opposta e contraria alla direzione del cambiamento, quella che ti riporta giù ogni volta che tenti di mettere il naso fuori dai tuoi problemi, quella che ti impedisce di aggrapparti alla mano che ti porge il tuo terapeuta.

Se volessimo applicare il concetto alla dipendenza affettiva potremmo dire che la resistenza è quella forza che ti tiene salda a sguazzare nel limbo dell’abuso narcisistico, o che ti ci riporta di peso, quando finalmente avevi mosso i primi passi fuori dalle sabbie mobili che il tuo partner supertossico ha allestito per te.

Forse può sembrarti strano ma è molto comune nella vita professionale di un terapeuta incappare in una tacita e paradossale richiesta: “Cambiami, senza cambiare niente!”. Un’impresa che si configura impossibile per definizione, perché non si può pensare di ottenere risultati nuovi e diversi continuando a fare le stesse cose che si facevano prima.

Cambiare è sempre un’impresa eccezionale, una rivoluzione che comporta l’assunzione di rischi e l’accettazione dell’idea per cui per farlo sarà necessario attraversare una sofferenza. Nel caso della dipendenza affettiva significa accettare di vivere il lutto dell’amato, perderlo forse per sempre, per ritrovare finalmente se stessi.

Il più delle volte non ci si sente attrezzati per farlo. Chi può dirsi davvero pronto a rinunciare a quello che oggi crede essere l’amore? Tra l’altro la persona che eravate prima di incontrarlo s’è annullata talmente tanto nell’altro che oggi vi pare non di esistere più. La persona che potreste diventare è ancora un mistero che spaventa: e se fosse triste? E se fosse sola?

Sì, anche la situazione in cui sei adesso ti fa soffrire, altrimenti l’idea di chiedere un aiuto terapeutico non ti avrebbe mai sfiorato, ma questa sofferenza in cui sei la conosci, pensi di poterla sopportare, nei momenti migliori pensi perfino di poterla gestire.

Quante bugie siamo disposti a raccontarci per difendere l’illusione di un amore? Probabilmente troppe: la verità è che prendere tempo ti porterà in un solo posto: quello in cui sei, quello in cui soffri.

Anche se non lo fai consapevolmente devi sapere che sei in possesso di molti fantasiosi modi per sabotare la tua psicoterapia e te stesso. Oggi ne analizzeremo alcuni, in modo che tu possa trovare spunti per analizzare meglio il tuo percorso di terapia e capire se ne stai mettendo in atto alcuni (molte resistenze sono infatti assolutamente inconsce).

Tieni a mente che questo è un blog sulla dipendenza affettiva ma che le cinque resistenze di cui parleremo possono verificarsi in qualsivoglia percorso terapeutico, sia che siate in cura per dei terribili attacchi di panico, sia che lo siate per via di un periodo nero che vi porta via sorrisi e vitalità.

In questo articolo darò per assodato che la persona che hai scelto come alleato (il tuo terapeuta, appunto) “ti piaccia”, che sia bravo, ovvero che tu gli riconosca una buona capacità operativa e di relazione (è chiaro, ti fornisce abbastanza informazioni sull’abuso narcisistico o sulla tua generale sintomatologia, è riuscito ad instaurare con te una positiva relazione, è accogliente, è empatico, è una persona integra dal punto di vista affettivo e comportamentale).

Lo considero un assunto non perché al terapeuta non sia dato sbagliare ma solo perché in questo articolo vorrei fornire degli strumenti al paziente, che di sicuro potrà agire sui suoi atteggiamenti e comportamenti ma che ben poco potrebbe fare su quelli di qualsiasi persona nel mondo, compreso il suo terapeuta.

Quest’ultimo, tra l’altro, dovrebbe avere l’obbligo morale, sociale e scientifico di svolgere un lavoro preciso e puntuale di critica e revisione del suo operato, se e quando serve.

Vediamo adesso 5 tra i più comuni modi (più o meno consapevoli) in cui puoi sabotare la tua psicoterapia

1. ANCHE OGGI COMINCIO DOMANI

Il miglior modo per far fallire una psicoterapia è non iniziarla. Procrastinare, ovvero fare domani ciò che potresti fare oggi, è una delle più efficaci strategie di autosabotaggio. Non è quasi mai pigrizia: spesso nasconde una feroce paura di fallire, di non essere all’altezza del cambiamento desiderato, a volte è sintomo di una eccessiva paura di essere giudicati, incompresi, di esporsi e non essere accolti. Vi sono due modi per non iniziare la tua psicoterapia:

Chiamare il terapeuta, fissare la prima consulenza e non presentarsi, adducendo una scusa o, peggio ancora, sparendo come farebbe un fantasma;

Non chiamare il terapeuta oggi e dirsi che lo si farà domani. Poi, siccome “Nell’oggi cammina già il domani”, come correttamente suggerisce S.T.Coleridge, succederà che anche oggi dirai che lo farai domani, e così per infinite volte.

2. LO SPAZIO

Domenico Modugno cantava nel 1970 che la lontananza è come il vento: spegne i fuochi piccoli e accende quelli grandi. Vale anche per la psicoterapia e per i tuoi problemi.

Un luogo è vicino o lontano a seconda di quanto sia per te importante raggiungerlo. Davvero è meglio rimanere nella situazione data piuttosto che rivolgersi al terapeuta che hai scelto e che però ha uno studio un po’ più distante di quanto avessi preventivato?

O che non possiede un comodo parcheggio da supermarket proprio sotto l’ingresso? O ancora che non è servito da nessuna linea di trasporto pubblico che preveda una fermata nei pressi del civico esatto? Quanta strada sei disposta a percorrere per risolvere i tuoi problemi?

3. IL TEMPO

Anche col “tempo” i pazienti possono mettere in atto fantasiose strategie per resistere al cambiamento. Io distinguo almeno tre diverse tipologie di pazienti che amano fare funambolici giochini col tempo della terapia.

Il primo è il paziente ritardario – cronico. Il paziente che ritarda pressoché sempre dimezza magistralmente il tempo della seduta e quindi il tempo in cui si prende cura di sé e quello che si concede per “guarire”. Nella macrocategoria del ritardatario – cronico vi è poi una più esigua sottocategoria di pazienti che potremmo definire “quelli dell’ultimo minuto” ossia quelli che la vita li mette costantemente dinnanzi ad imprevisti, nemmeno stessero correndo una staffetta ad ostacoli, imprevisti che li costringono a chiamare il terapeuta e a disdire la seduta poco prima che cominci.

Questo è il paziente con la migliore strategia di resistenza: non solo “punisce” il terapeuta lasciandolo a crogiolarsi per 60 minuti nella sua assenza ma lo costringe, nella seduta successiva, a parlare della ragione per cui ha saltato la seduta, che è un potentissimo “distrattore” del vero motivo per cui il paziente è lì: uscire dalla dipendenza affettiva che lo soffoca o risolvere qualsiasi altro sintomo abbia portato al terapeuta come problema.

Poi c’è il paziente-medico, o almeno io lo chiamo così. È quello che decide arbitrariamente e senza concordarlo col suo terapeuta la frequenza delle sedute. Per cui dirà cose come:

“Si lo so che abbiamo concordato di vederci una volta a settimana, ma io so che per me è meglio vederci una volta ogni 15 giorni”.

Che è come andare da un medico e dire:

“Si lo so di avere una brutta infezione e, anche se mi ha prescritto l’antibiotico per sette giorni, io so che facendone tre avrò lo stesso risultato!” Al rogo le lauree quindi! Non servono!

Diluire le sedute precocemente e senza l’accordo del terapeuta significa diluire la relazione terapeutica anche nella sua potenza. Il rischio è che diventi inconsistente, proprio come succederebbe se si prendesse l’antibiotico per tre giorni invece che sette.

E poi, diciamocelo, il fatto di aver passato molti anni sui libri e poi sul campo ad accumulare esperienza, significherà pur qualcosa? Una persona che ha fatto della psicoterapia il suo lavoro saprà meglio di chi vi si rivolge da profano qual è la frequenza più giusta affinché il percorso vada a buon fine, no?

Poi c’è il paziente – frettoloso, quello che ti pone di fronte ad un àut- àut dicendo magari alla prima seduta cose come: “Sarò in città per due mesi poi mi trasferirò altrove, crede di riuscire ad aiutarmi prima che io parta?”.

A quel punto o il terapeuta è dotato di poteri sovrannaturali attraverso i quali potrà magicamente prevedere il futuro e quindi l’andazzo della vostra terapia, oppure sarà bene cominciare a familiarizzare con l’idea che nessun terapeuta “umano” potrà dirti, alla prima seduta, se in due mesi sarà in grado di aiutarti.

Potrà prometterti che farà del suo meglio, questo sì, o inviarti a un collega nella città in cui ti trasferirai o ancora potrebbe proporti di continuare le sedute via skype. Potrebbe chiederti di analizzare insieme a lui il motivo per cui lo stai mettendo di fronte all’impresa eccezionale di sapere in 5 minuti se potrà salvarti in due mesi. Potrà fare moltissime cose eccetto, probabilmente, quella che gli stai chiedendo.

O magari sei fortunato e il tuo terapeuta ha la sfera di cristallo nascosta nel cassetto della scrivania.

4. IL COSTO

Ci si lamenta spesso del fatto che la psicoterapia sia costosa. È innegabile, lo è. Del resto ogni volta che vai da un terapeuta paghi per usufruire di una competenza acquisita attraverso una formazione lunga e costosa:

5 anni di università, 1 anno di tirocinio in cui il professionista ha fatto pratica affinché oggi possa essere più efficace per te, un esame di stato che prevede 4 prove e senza il quale non ci si può abilitare, 4 o 5 anni di scuola di specializzazione in psicoterapia, forse dei master e degli altri corsi che lo hanno reso ancora più competente nel darti l’aiuto che oggi ti offre. E poi paghi l’affitto dello studio e l’arredo dello stesso, le utenze, le tasse che assolve per portare avanti la sua attività.

C’è quasi da diffidare, al contrario, di chi propone tariffe troppo basse: come e quando riuscirà a riprendere quanto ha investito durante tutti quegli anni di studio? Come riesce a sostenere l’onere delle spese mensili? Sarà forse il primo a non credere nelle sue capacità terapeutiche tanto da essere disposto a svenderle?

Io credo che valutare il costo di una psicoterapia non possa prescindere dal domandarsi sinceramente quanto siamo disposti a investire nella risoluzione dei problemi che ci hanno portato ad intraprenderla. Ovvero: puoi chiederti quanto costa la psicoterapia oppure quanto costano i tuoi problemi.

Tra le due domande, entrambe sicuramente legittime, la seconda è più corretta della prima anche perché apre a un ventaglio decisamente più ampio e variopinto di possibilità e di cambiamento.

N.B. è sempre un errore non parlare al tuo terapeuta delle difficoltà economiche che in determinati momenti della tua vita possono ostacolare il percorso che state facendo insieme. Forse potreste trovare una soluzione che vi aiuti a farvi fronte. Una cosa è certa: se non gliene parli non lo saprai mai.

5. LA RELAZIONE

Ci sono pazienti che tendono a far diventare la relazione terapeutica quanto più “amicale” possibile. Saranno loro a proporre il “tu” al terapeuta prima che lo faccia lui (gli amici si danno del tu, giusto?), gli faranno domande personali (se io mi apro a te, il minimo che puoi fare è aprirti anche tu a me, no?), gli chiederanno di vedersi al di fuori dello studio (che c’è di male a prendere insieme un caffè?) o gli manderanno decine di messaggi Whatsapp al giorno pensando che sia normale che il terapeuta risponda.

Il bisogno di rendere più intima una relazione che si percepisce importante è un bisogno assolutamente normale: sta al terapeuta difendere quella relazione, fare in modo che non ne venga alterata la sostanza. È importante però che il paziente si renda conto di ciò che sta cercando di fare: trasformare il terapeuta in un amico non fa altro che lasciarlo di nuovo orfano di una guida competente.

Sei andato in terapia perché avevi bisogno di un professionista, adesso cerchi di sabotarlo e farlo diventare un amico con cui bere caffè al bar. Perchè?

Come vedi esistono molti efficacissimi modi per far fallire la tua psicoterapia, alcuni davvero creativi, altri molto comuni e prevedibili. Tutti minacciano di condurre a un unico, nefasto, risultato: il cosiddetto drop – out terapeutico che altro non è che un fenomeno ben noto a tutti i terapeuti del mondo, persino ai più grandi, a prescindere dal tipo di orientamento o dalla loro esperienza.

Il termine drop – out (in inglese “ritirarsi”) si riferisce a quel fenomeno per cui un paziente interrompe di sua spontanea volontà (e quasi sempre in modo prematuro) il percorso psicoterapeutico intrapreso, a volte avendo cura di avvisare il professionista, altre senza alcuna comunicazione in merito.

Interrompere prematuramente la terapia e proclamarne a se stessi il fallimento ha l’indiscusso vantaggio di poter sempre dare la colpa a quell’inetto del terapeuta che ha sprecato tutti quegli anni sui libri quando poteva dare un più valido contributo alla società facendo il bracciante agricolo, al destino crudele che ti vuole per sempre sfortunato, all’inutilità di ogni sforzo di fronte all’ingiustizia inoppugnabile della vita.

Tutto rimarrà come quando hai chiesto aiuto: il tuo narcisista (e qualsivoglia altro problema di cui avevi avvertito il bisogno di liberarti) è ancora là. Ti somministra ogni giorno con metodo e scrupolo la tua dose quotidiana di dipendenza, tu ricambi con l’adorazione che anela finché non ne avrà altra più nuova, più gustosa e più facile.

“Però – mi dirai – ora che ho fatto qualche seduta, ho più consapevolezza eh!”. Mi sembra quasi di sentirti.

Il drop-out terapeutico è uno strappo, una ferita nella relazione tra due persone che stavano impegnandosi per raggiungere un obiettivo concordato, è una lacerazione che mette un punto laddove c’era ancora bisogno di dirsi molte di quelle calde parole che curano.

Immagina adesso che quella ferita sia fisica. Ce l’hai scritta sul corpo: è aperta, profonda, sanguinante. Nessuno l’ha disinfettata ma qualcuno, probabilmente tu stesso, ci ha messo su un cerotto, alla meno peggio. Poi sei andato da un medico, eri spaventato, non sapevi cosa aspettarti.

Quello sta lì, dentro il suo camice bianco, ti guarda, andrà tutto bene – ti rassicura – e toglie il cerotto, lo butta via e osserva la tua ferita. Poi ti dice che si allontanerà per prendere un disinfettante e che quando sarà tornato ti spiegherà come medicarti. Tu, invece di aspettare che il medico rientri e di affrontare la sofferenza che comporterà la medicazione, vieni preso dalla paura e, in un attimo, fili via dall’ambulatorio veloce come il vento, con la tua ferita aperta, senza più nessuna protezione.

Andare in terapia e acquisire consapevolezza scappando via prima che si siano acquisiti strumenti adeguati a far fronte alla sofferenza (che inevitabilmente avere più consapevolezza comporta), è come vagare nel mondo con una ferita aperta. Con tutti i rischi che questo comporta. Sono certa che concorderai con me sulla necessità di non farlo.

Esistono molti modi per sabotare una psicoterapia, uno solo per evitare che questo succeda: ammettere che lo stai facendo.

Sì, ti stai autosabotando. Sei come Penelope che di giorno tesseva e la notte scuciva.

Parlane con il tuo terapeuta, insieme troverete una soluzione che vi aiuti a venir fuori dall’impasse. I momenti di crisi spesso portano a inaspettate ed efficaci soluzioni, aprono scenari creativi, offrono possibilità che prima non si erano palesate.

Vale sempre la pena tentare. Andar nel mondo con una ferita aperta sulla carne viva invece no, non è mai una buona idea.

A cura di Silvia Pittera, Psicologa – Psicoterapeuta

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