5 segnali che sei troppo empatico

| |

Author Details
Dott.ssa in biologia e psicologia. Esperta in genetica del comportamento e neurobiologia. Scrittrice e founder di Psicoadvisor

Ci sono tantissimi falsi miti che ruotano intorno all’empatia e in questo articolo proverò a sfatarne alcuni e ti spiegherò come “proteggerti” da un “eccesso di empatia”. Se ti identifichi in questi cinque punti, sei sicuramente un “super-empatico” e più avanti ti spiegherò perché “sei diventato così” (perché empatici non si nasce ma si diventa!) e come trasformare la tua empatia in uno scudo per proteggerti (sembra un paradosso, ma l’empatia sana dovrebbe funzionare come un sistema protettivo). Ecco i cinque punti su cui riflettere:

  1. Quando vedi un film, ti immedesimi completamente in un personaggio?
  2. Se una persona a cui vuoi bene subisce un torto, è un po’ come se fossi tu a viverlo in prima persona?
  3. Anteponi spesso i bisogni degli altri ai tuoi?
  4. Nelle conversazioni, tendi a essere sempre quello che ascolta di più?
  5. Stringi relazioni sbilanciate, dove tu dai e gli altri prendono?

Sappi che se hai risposto sì ad almeno tre domande, hai bisogno di avvicinarti di più a te stesso e… se la usi bene, è proprio la tua empatia che potrebbe aiutarti. Ma prima è necessario che tu capisca bene che cos’è l’empatia, perché, come ti dicevo, ci sono troppe false credenze su questa dote, tanto che molti (e forse anche tu), la ritengono una condanna.

Che cos’è l’empatia e a cosa può servirti

L’empatia è quella capacità che ti consente di entrare in sintonia con gli stati affettivi degli altri. Da un punto di vista evoluzionistico è una caratteristica utilissima perché migliora la cooperazione e l’affiliazione con l’altro, favorisce l’unione abbattendo ogni barriera. In che modo? Anzitutto migliorando la comunicazione. L’empatia, infatti, è una dote molto utile che gioca un ruolo cruciale nella comunicazione. L’empatico è capace di “liberarsi momentaneamente” dei propri filtri interpretativi entrando nell’intimità dell’altro senza emettere giudizi.

Nelle relazioni di coppia, l’empatia facilita il coinvolgimento, la crescita reciproca e permette di superare facilmente incomprensioni e attriti. Essere empatici, dunque, non significa identificarsi totalmente con l’altro ma usare la propria capacità di comprensione come un fattore protettivo per sé e il rapporto con l’altro!

L’empatia, quando funziona bene, è uno scudo

Ti sembra assurda l’idea che l’empatia possa funzionare come uno scudo e proteggerti da reazioni intense di rabbia? Di ingiustizia o di dolore? Empatizzare con il partner o con il proprio interlocutore, significa essere in grado di calmare le proprie reazioni emotive a tal punto di comprendere i sentimenti dell’altro.

Se io capisco profondamente l’altro, ne accetto i limiti, un suo comportamento non provocherà in me rabbia ma susciterà comprensione e mi metterà nella condizione di offrire supporto.

Faccio subito un esempio pratico: ho un partner ansioso e disorganizzato, anche se gli ho chiesto più volte di smontare la macchinetta del caffé al mattino, prima di andare a lavoro, è una cosa che non fa mai. Nella mente di una persona scarsamente empatica emergerebbe subito il giudizio allegato a una condanna: «cosa ti costa? Sei sempre il solito menefreghista?» ma per un empatico non funziona così: emerge la riflessione!

Anzitutto la conoscenza dell’altro unita alla capacità empatica, dà modo di interpretare bene le azioni dell’altro, così da capire se quella sua trascuratezza è realmente legata a un limite organizzativo e pressioni, oppure a una reazione passiva-aggressiva in cui il partner non compie quel gesto per ribellarsi e punire l’altro. L’empatia, unita a una lente riflessione, ci dà modo di conoscere bene l’altro e capirne le intenzioni proprio perché ci fa entrare in risonanza con la mente dell’altro! Ecco perché può essere uno scudo! Ci protegge dall’insorgenza di inutile rabbia (che senso ha arrabbiarsi per una moka non smontata se questo atto mancato nasce da una difficoltà?) e ci dà modo di migliorare le cose (tranquillizzare l’altro per l’azione mancata senza pressarlo ulteriormente, e… diciamocelo, magari sentendosi può leggero, la prossima volta quella moka la smonterà!).

L’empatia è uno scudo solo per chi si conosce

Empatizzare significa essere in grado di calmare le proprie reazioni ma questo avviene solo quando conosci te stesso, solo quando ascolti i tuoi bisogni e le tue necessità. Solo quando si conosce pienamente se stessi, si evitano proiezioni e meccanismi difensivi. Per esempio, l’atto mancato di svitare una moka, potrebbe essere letto come il segnale di un “disamore” e innescare il pensiero: «non lo fa perché non mi ama». Oppure dare voce a un giudice severissimo «non lo fa perché è un incapace». In queste conclusioni non c’è empatia perché non c’è conoscenza di sé. Quelle conclusioni, infatti -nel caso specifico del mio esempio- sarebbero errate, il riflesso di una paura interiore e non dello stato affettivo di chi ho accanto! Ecco perché l’empatia è così potente ma anche così “fraintesa”.

Ma come? L’empatico non è centrato tutto sull’altro?

Come ho specificato in premessa, essere empatici non significa identificarsi totalmente con l’altro. Questo è un malinteso molto frequente che per praticità chiamerò “eccesso di empatia”. In realtà, non si tratta neanche di un “eccesso di empatia” ma di difficoltà nel gestire i confini che separano “me” / “dall’altro”.

Se io non mi conosco e non riesco a identificarmi come un’identità solida, ben differenziata da chi ho accanto, allora finisco per vivere attraverso gli stati emotivi altrui e questo è pericolosissimo. Questo meccanismo, infatti, mi porta a rinunciare a parti di me. In realtà, quelle parti di me probabilmente non le ho mai conosciute. Chi è “empatico oltremisura”, cioè chi si identifica attraverso l’altro, probabilmente è stato “costretto” a farlo fin da bambino.

Come si sviluppa l’eccesso di empatia

Gli “empatici oltremisura” hanno acquisito a caro prezzo questa dote che emerge nei legami in modo disfunzionale, come un coltello che ferisce e non come un utile scudo. Il “super-empatico” è una persona che, nel periodo più critico della sua vita, è stata costretta a sintonizzarsi costantemente con i bisogni altrui. Se guardiamo al suo passato, troveremo un’infanzia rubata, caratterizzata da mancanze e adultizzazione. Chi si identifica costantemente con l’altro, ha subito un’inversione dei ruoli durante l’infanzia: era il bambino a doversi ingegnare per «accudire» il genitore e non viceversa.

L’empatico oltremisura, così, durante l’infanzia ha imparato a sintonizzarsi costantemente con l’altro e non ha mai più smesso di farlo. Pertanto non ha mai potuto imparare a conoscersi e accudire se stesso, ne’ ad accogliere i suoi bisogni che sistematicamente ignora (come, prima di lui/lei, li ignorava il genitore).  È una persona cresciuta nella trascuratezza e che, una volta adulta, ha continuato a trascurasi “per il bene degli altri”.

Con il passar del tempo, l’eccessiva empatia può addirittura diventare una strategia disfunzionale per sfuggire a se stesso, sposando una logica psicoaffettiva deleteria che potrebbe tradursi così: «io mi occupo di te, del tuo benessere, così da non dovermi fare carico di me» e a volte «io mi occupo di te, mi do al 110%, con l’aspettativa che tu faccia lo stesso». Aspettativa destinata a infrangersi dato che, per una serie di meccanismi causa-effetto, l’empatico oltremisura stringerà legami solo con chi -come il genitore- dei suoi bisogni non si cura affatto.

La soluzione è l’autoaffermazione

La differenziaziore può essere definita come la capacità di affermare se stessi anche quando siamo emotivamente e/o fisicamente molto vicino agli altri, specialmente quando questi “altri” sono molto importanti per noi. L’autoaffermazione consente di far valere i propri bisogni senza andare a discapito dell’altro, permette di conoscere l’altro per ciò che è realmente e non per le speranze, le paure e le aspettative che vivono dentro di noi.

Nelle relazioni viviamo da un lato, una spinta all’individualità e, dall’altro, la spinta alla relazionalità. L’autoaffermazione può aiutarci a trovare il nostro baricentro concedendoci l’abilità di stare in contatto con l’altro senza rischiare di perdere se stessi, di dimenticare i nostri bisogni o di condannarci a uno stato di perenne abbandono e solitudine. Se credi di vivere con un “eccesso di empatia” che ti fa identificare con l’altro, sappi che l’unica soluzione è restituirti a te stesso, concederti quei “diritti affettivi” che non ti sono mai stati concessi. Possiamo affermarci come persone complete e trasformare la nostra “empatia disfunzionale” in un’empatia sana, che ci possa “proteggere”, iniziando dalla conoscenza di sé. Allora è importante imparare a:

  • Comprendersi e non solo comprendere.
  • Accudirsi e non solo accudire.
  • Amarsi e… non solo amare.

Farti carico del tuo benessere e, in definitiva, imparare a comprenderti, accudirti e amarti, è la scelta più saggia che tu possa fare. La affermazione di sé gioca un ruolo chiave in tutti i legami e garantisce un elevato grado di appagamento anche nell’intimità. Il manuale «d’Amore ci si Ammala, d’Amore si Guarisce» è stato scritto per questo: per consentirti l’affermazione che non hai mai avuto la possibilità di viverti. Ecco perché è il libro più consigliato dagli psicoterapeuti. Lo puoi trovare su amazon oppure in qualsiasi libreria (Ed. Rizzoli, Mondadori).

Autore: Anna De Simone, psicologa
Se ti è piaciuto questo articolo, puoi seguirmi su Instagram @annadesimonepsi puoi anche venirmi a trovare in uno dei miei eventi gratuiti. Da fine estate, con Psicoadvisor, siamo in giro per le biblioteche, municipi e librerie d’Italia per aumentare la consapevolezza sui temi della psicologia del sé. Se questi argomenti ti affascinano, segui Psicoadvisor su Facebook.com/psicoadvisor e su Instagram @psicoadvisor