6 frasi tipiche del passivo-aggressivo (e cosa rivelano davvero)

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Dottoressa in psicologia, esperta e ricercatrice in psicoanalisi. Scrittrice e fondatore di Psicoadvisor

Ti è mai capitato di sentirti svuotato dopo una conversazione, pur senza aver ricevuto insulti o urla? A volte le parole non feriscono per il loro contenuto esplicito, ma per il tono, per l’intenzione nascosta, per quello che lasciano intendere senza mai dirlo davvero. È il terreno della comunicazione passivo-aggressiva: un linguaggio fatto di silenzi, frasi ambigue e sorrisi che nascondono il veleno.

Questa modalità non è solo un “difetto caratteriale”

È spesso l’esito di una storia emotiva complessa: crescere in contesti in cui la rabbia non era ammessa, o in cui dire un “no” portava ritorsioni, insegna a mascherare il conflitto. Il passivo-aggressivo non impara a esprimere i propri bisogni: li reprime, li camuffa, li lancia sotto forma di frecciate velate.
Ma ciò che non viene detto apertamente non smette di esistere: resta sotto pelle, fino a condizionare relazioni, lavoro, amicizie e legami d’amore.

1. «Stavo solo scherzando»

Una delle maschere più comuni. Dietro questa frase si nasconde un attacco travestito da ironia: un commento pungente, una critica velata, una presa in giro che ferisce.

Cosa rivela davvero:

  • Il bisogno di esprimere ostilità senza assumersene la responsabilità.
  • La paura di essere rifiutati se si mostrasse apertamente la rabbia.
  • L’uso dell’ironia come scudo: “se soffri, è colpa tua che non sai stare al gioco”.

In psicologia delle emozioni, questa strategia è una “razionalizzazione difensiva”: spostare il peso dalla propria intenzione all’altrui sensibilità. In pratica: “non sono io ad averti ferito, sei tu che sei troppo fragile”.

2. «Va bene, come vuoi tu»

Sembra una frase di resa, di collaborazione. In realtà, spesso è un veleno silenzioso. È la forma con cui il passivo-aggressivo rinuncia in superficie, ma dentro accumula rancore.

Cosa rivela davvero:

  • La difficoltà a dire un “no” diretto.
  • La paura che il conflitto metta in pericolo la relazione.
  • Una rabbia che non trova voce, ma che troverà altri modi (ritardi, dimenticanze, silenzi punitivi).

È l’arte del “consenso apparente”: in psicoanalisi, una vera e propria formazione reattiva. Dire sì per proteggersi, mentre dentro ribolle un no.

3. «Non è un problema»

Detta con un sorriso forzato, quando invece dentro brucia la delusione. È la tipica frase di chi non vuole mostrare ferita o rabbia, ma le porta dentro come un macigno.

Cosa rivela davvero:

  • L’impossibilità di dire: “mi hai fatto male”.
  • La convinzione che mostrare vulnerabilità significhi perdere valore.
  • Una scissione interiore tra ciò che sento e ciò che mostro.

Il corpo, però, non mente: mentre le parole dicono “non è un problema”, la fisiologia tradisce il vero stato emotivo. Spalle irrigidite, sguardo sfuggente, tono monotono: sono i segnali che il sistema nervoso autonomo invia, attivando meccanismi di difesa. Il linguaggio non verbale, qui, parla molto più delle parole.

4. «Sei tu che ti arrabbi per niente»

Una frase che sposta la colpa. Il passivo-aggressivo non solo nega la propria responsabilità, ma trasforma l’altro nel problema: sei troppo sensibile, sei tu che esageri.

Cosa rivela davvero:

  • Una proiezione svalutativa: attribuire all’altro ciò che non si vuole riconoscere in sé.
  • L’incapacità di tollerare la colpa o il fallimento.
  • Il bisogno di mantenere una posizione di superiorità, svalutando l’emotività altrui.

A livello psicodinamico, questo è un chiaro esempio di spostamento e proiezione: invece di riconoscere la propria aggressività, viene depositata nell’altro, che finisce per sentirsi sbagliato anche quando reagisce a una ferita reale.

5. «Scusa se ti ho disturbato» (detto con tono polemico)

La scusa, in apparenza, sembra un gesto di umiltà. Ma nel passivo-aggressivo diventa un’arma sottile: un modo per accusare l’altro, facendolo passare per esigente o duro di cuore.

Cosa rivela davvero:

  • Una rabbia che si traveste da vittimismo.
  • Il desiderio di colpevolizzare l’altro senza dichiararlo apertamente.
  • Una dinamica relazionale dove la fragilità viene usata come attacco indiretto.

Dal punto di vista neurobiologico, questo atteggiamento è connesso all’attivazione dell’amigdala e dei circuiti della difesa sociale: l’altro viene percepito come una minaccia al proprio valore, e la “scusa polemica” diventa un modo indiretto per difendersi attaccando.

6. «Non importa, ci penso io»

Apparentemente altruista, in realtà è la porta d’ingresso per il risentimento. Il passivo-aggressivo prende sulle spalle compiti che non vuole, ma poi li userà come arma: “nessuno mi aiuta”, “faccio sempre tutto io”.

Cosa rivela davvero:

  • La difficoltà a chiedere aiuto in modo chiaro.
  • La tendenza al sacrificio come forma di potere silenzioso.
  • Una rabbia trasformata in vittimismo cronico.

Nelle dinamiche familiari, questo schema è molto comune: chi non ha potuto esprimere bisogni da bambino impara a caricarsi tutto sulle spalle, salvo poi sentirsi invisibile e tradito.

Il costo delle parole non dette

Il linguaggio passivo-aggressivo è una gabbia che logora entrambe le parti. Chi lo utilizza resta imprigionato in un ciclo di rabbia repressa e vittimismo, incapace di vivere relazioni autentiche. Chi lo subisce si sente disorientato, colpevolizzato, costretto a leggere tra le righe in cerca di un senso.

Non è un caso che questo stile comunicativo sia collegato a una maggiore attivazione dello stress cronico: l’ambiguità costante impedisce al cervello di chiudere i cicli emotivi, mantenendo il corpo in uno stato di iperattivazione. In altre parole, non sapere mai “cosa c’è davvero dietro” tiene il sistema nervoso in allerta continua.

Come uscire dal circolo vizioso

La strada non è semplice, perché il passivo-aggressivo non sceglie questa modalità per cattiveria, ma per sopravvivenza. Ciò che serve è un’educazione emotiva capace di restituire diritto di cittadinanza alle emozioni scomode: la rabbia, la frustrazione, il dolore.

Dire “sono arrabbiato” o “non mi va bene” può sembrare banale, ma per chi ha sempre nascosto la rabbia dietro maschere è un atto rivoluzionario. La guarigione passa dalla chiarezza: imparare a dire no senza colpa e sì senza rancore. È qui che il linguaggio smette di essere un campo di battaglia invisibile e torna a essere un ponte.

Le frasi del passivo-aggressivo sono solo la punta dell’iceberg di un mondo emotivo complesso

Non sono casuali, ma l’eredità di un’infanzia in cui non si poteva parlare chiaro. Riconoscerle significa non solo proteggersi, ma anche comprendere che dietro ogni ironia pungente, dietro ogni “non è un problema”, c’è un bisogno di amore che non ha mai trovato spazio.

Ecco perché l’educazione emotiva diventa il vero antidoto: un lavoro lento e trasformativo che insegna a nominare ciò che si sente, a distinguere il silenzio dalla rabbia, a sostituire la frecciatina con una parola autentica.

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