Questo mese è partita la tanto agognata fase due. E’ terminata la fase più restrittiva, il cosiddetto “lockdown” che ci vedeva chiusi nelle nostre case. Protetti e “braccati” tra le nostre mura domestiche, con l’intento di proteggerci e proteggere gli altri da noi, in modo che la circolazione del virus rallentasse e la situazione potesse essere più gestibile.
Ora che restare in casa non è più un obbligo, che le nostre attività in modo lento, graduale e alternativo stanno ripartendo, come ci sentiamo? Quali sono gli attuali sentimenti verso questa nuova fase?
Adesso che il controllo si è allentato che, se ci affacciamo alla finestra, vediamo e sentiamo riprendere il via vai delle auto; e non regna più il silenzio surreale di alcuni dei giorni trascorsi in quarantena, siamo chiamati ad uscire dall’isolamento e relazionarci con una vita che somiglia a quella prima della pandemia, ma che contemporaneamente è molto diversa.
Possiamo uscire, ma “a proprio rischio e pericolo”, perché adesso sta a noi fare buon uso di questa iniziale ritrovata libertà. Cosa sia questo buon uso però è stabilito da alcune articolate prescrizioni circa le distanze di sicurezza, gli affetti (definiti) stabili che possiamo incontrare o meno, ecc… ma nel concreto ci troveremo tutti a doverci destreggiare tra la voglia di tornare ad una spensierata normalità e la paura che questo ci possa esporre ad ulteriori situazioni di rischio.
La metafora dell’incidente stradale
Per meglio comprendere il nostro stato d’animo, possiamo pensare a cosa avviene in seguito ad un incidente mentre siamo alla guida. Stavamo conducendo il nostro viaggio in modo regolare (con più o meno soddisfazione e appagamento a seconda dei casi), su tragitti familiari, finchè un evento inaspettato ci ha buttato fuori strada, scombussolando tutti i nostri piani.
Possiamo essere più fortunati ed esserne usciti illesi oppure possiamo aver riportato dei danni fisici. Abbiamo dovuto affrontare un periodo di stop forzato. Nel migliore dei casi, la nostra macchina doveva essere riparata o, in casi più gravi, eravamo noi a doverci curare e guarire.
Questo era il tempo in cui ci era impedito di muoverci e potevamo prendercela col mondo, col destino e per rimanere all’interno della metafora usata, col dottore che ci obbligava al riposo, col meccanico che non ci riparava la macchina o con chi aveva causato l’incidente. Potevamo spostare la rabbia, l’ansia, la frustrazione fuori da noi, sui possibili responsabili della nostra convalescenza a e prigionia.
Ora quel tempo è passato, ora possiamo riprendere la macchina, il medico ci ha detto che il danno è riparato e possiamo riprendere a uscire, ma all’improvviso… il nostro veicolo non ci sembra più così sicuro, la strada è diventata un luogo pericoloso e chissà se possiamo davvero fare affidamento sulla nostra guarigione?
A seguito di qualsiasi cambiamento importante, la nostra visione cambia (in modo stabile o temporaneo) perché siamo obbligati a mutare il nostro modo di vedere le cose e dobbiamo sviluppare una nuova prospettiva.
In questa fase il passo fondamentale spetta a noi
Non c’è più qualcuno che ci obbliga a stare fermi e con cui possiamo “prendercela”, ma ci siamo noi che ci assumiamo tutta la responsabilità di capire se è il momento, se siamo pronti a risalire in macchina e con quali precauzioni farlo.
Prima vivevamo l’ansia di stare in casa, di essere chiusi e soffocati nella nostra autonomia, ora ci confrontiamo con la paura.
Paura di cosa?
Paura di tornare nel mondo, paura del contagio, paura di non proteggersi adeguatamente o che altri non rispettino le regole, paura di riprendere a lavorare, paura di perdere il proprio lavoro, paura di non arrivare a fine mese con le spese, paura di fare le scelte sbagliate…
La paura è diventata una nostra compagnia costante, per alcuni in modo più discreto, per altri in modo più invalidante.
Per tutta la prima fase della pandemia abbiamo parlato della situazione paragonandola ad una guerra, nella quale “combattevamo contro il virus”. Ora anche il linguaggio sta cambiando, siamo alla “fase di convivenza”.
Ma convivere è più facile di combattere? Possiamo dire che è più destabilizzante. Se ti combatto mi attrezzo, esco “armato”. Se convivo col nemico devo cambiare il mio stato di allerta. Non posso essere sempre pronto ad attaccare, ma devo mantenermi vigile, consapevole che non mi viene richiesto un impegno intenso e breve, bensì uno meno sostenuto ma molto più prolungato.
Sarebbe utopistico dire che tutti ci ricorderemo di questo periodo di difficoltà in modo saggio e costruttivo. Ognuno di noi potrà fare quel che desidera di questa esperienza e di quello che affronteremo nelle prossime settimane, ma questa quarantena ha toccato la vita di ogni persona in modo diverso.
Alcuni ne usciranno incattiviti e amareggiati per la gestione, altri ne usciranno spaventati e destabilizzati. Ne usciremo tutti ammaccati e provati, procedendo un po’ a tentoni per non farci troppo male.
Alcuni però potrebbero uscirne con un ritrovato senso di consapevolezza, con la paura dell’incertezza per quello che ci attende, ma con la voglia di farne davvero qualcosa.
“Si è comunque condannati alla libertà di scegliere” – Josè Ortega y Gasset
Autore: Stefania Canil, psicologa (psicoterapia e nutrizione)
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