Durante le settimane difficili dei mesi passati (e in quelle che ancora stiamo vivendo), una riflessione importante che emerge nei colloqui con i pazienti è un grosso desiderio di radicamento, di stabilità… di trovare qualcosa che, in mezzo al caos e alla precarietà che regna tutto attorno, permetta di dare un senso alla giornata.
C’è chi si è trovato con molto tempo da riempire per via dell’inattività lavorativa (con tutte le preoccupazioni legate al presente e futuro) e chi si è visto totalmente privato del suo tempo e dei suoi spazi (tutti in casa, con scuole e attività ricreative di grandi e meno grandi sospese e nell’impossibilità di farsi aiutare da nonni e affini).
Tutte queste condizioni, benché rappresentino più il problema dei “fortunati” che hanno passato indenni l’epidemia, non vanno trascurate.
Spesso, durante il percorso di studi e la pratica lavorativa, ho sperimentato la frustrazione di poter fornire un sostegno che seppur percepito come molto prezioso, non poteva in alcun modo “risanare” alcune questioni contingenti (reali!) che le persone stavano affrontando.
Mai come in questo momento, in cui tutte le problematiche concrete (lavoro, soldi, gestione familiare) sono prioritarie torna attuale la domanda: “Come può un professionista del settore essere di aiuto a chi sta soffrendo?”
Non può erogare una cassa integrazione che tarda ad arrivare, non può guarire una persona da una malattia organica, non può riportare in vita chi ci ha lasciato e non può risanare tutte le rotture che ci hanno fatto male…
La lista dei non può è inesorabilmente lunga e rappresenta il punto forte di tutti coloro che argomentano che “andare a parlare con uno sconosciuto dei fatti miei non mi aiuta in nessun modo”. Ma allora cosa può concretamente fare?
Perché è una priorità occuparsi della propria salute emotiva, oltre che fisica?
Secondo l’OMS: “La salute è uno stato di completo benessere fisico, mentale e sociale, e non semplice assenza di malattia o di infermità”.
Ne siamo davvero consapevoli?
Se io ho un problema ad un occhio, mi sembra naturale rivolgermi ad uno specialista competente che mi possa aiutare. Se, per esempio, ho sviluppato negli anni una forma di miopia per cui non vedo più bene da lontano potrò farmi aiutare dell’utilizzo di lenti correttive.
Se, sempre negli stessi anni, avessi anche sviluppato una forma ansiosa o un malessere emotivo, andrei da uno specialista o terrei duro e aspetterei che passasse da solo?
Tornando agli occhi, sforzerei la mia vista sapendo che questo mi causerà dei grossi mal di testa e comunque una perdita della visione globale, aspettando che vada meglio o cercherei uno strumento che mi aiuti a vedere bene e stare meglio ora. I miei occhi non sono da buttare, sono solo affaticati!
E se riuscissimo a pensarla così anche per la nostra psiche?
Magari sono “satura”, magari ho bisogno di tempo per elaborare sofferenze e cambiamenti, magari ho bisogno di prendermi cura di me per ricordarmi chi sono, cosa faccio e perché… Non sono da buttare, sono solo affaticata da tutto quel che mi porto dentro!
La risposta a cui, in anni di lavoro con me e con altri, sono arrivata è che la psicoterapia che non può risolvere tante cose, PUO’ però regalare una cosa preziosa. La conoscenza e la visione di sé che si acquisiranno saranno gli strumenti con cui affrontare traguardi e fatiche.
Il miglior dono che si può fare a chi sceglie di intraprendere un percorso sono delle “scarpe comode”, fatte su misura, per far camminare bene quei piedi sul sentiero di vita che si affronta. Allora forse, chi fa questo lavoro è un po’ come il ciabattino di questo racconto:
“Imbocco una strada e inizio a salire, a metà della strada noto sulla destra la bottega di un ciabattino. Lui non chiude, non ha fretta. Resta seduto nella sua caverna, minuscola e zeppa di calzature da risuolare o aggiustare. Mi affaccio e provo a chiedere al vecchio dietro al bancone se può fare qualcosa anche per le mie, che continuano a farmi male. L’uomo mi fa sedere su uno sgabello e mi dice di togliermele. Obbedisco, resto in calzini. Prende le scarpe, prima l’una e poi l’altra, le osserva da ogni lato, poi guarda i miei piedi. Sgranchisco le dita dentro i calzini, come se fossero animali selvatici ridotti in cattività.”…
“Infila lo strumento in una scarpa, la destra, e gira la manovella una, due e tre volte. Poi la libera e ripete l’operazione con la sinistra. Alla fine la spazzola, le lucida e me la posa davanti. -Tutto qua?- mi viene da dire. Lui non si muove, aspetta che le calzi. Quando mi alzo in piedi il dolore ai talloni è sparito. Faccio un passo, poi un altro. Non riesco a crederci. Il vecchio, che è stato tutto il tempo in silenzio, alla fine parla: – I piedi sono tutti diversi, ognuno tiene la sua forma, bisogna saperla assecondare. Sennò è una sofferenza continua”. – “Il treno dei bambini”
Autore: Stefania Canil, psicologa (psicoterapia e nutrizione)
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