Avrei voluto intitolare questo articolo “Chi si ferma è perduto”, per rendere merito alla tendenza attuale del dover fare per sentirsi appagati e realizzati. “Si è quel che si fa”, pare essere il motto imperante dei giorni nostri. Il mantra moderno recita che il darsi da fare rappresenta il motore che consente all’individuo ed alla collettività di progredire ed andare avanti. Chi sa fa e chi fa si nota.
L’agire è fortemente legato all’apparire; faccio e quindi mi mostro. Ma il fare non ha a che vedere solo con il desiderio di essere notati. Esiste un fare che mi ha fatto cambiare idea sul titolo da dare all’articolo. Una paziente una volta mi disse: “non posso fermarmi; se mi fermo mi trovo”. Lì per lì credetti di aver compreso male il senso del discorso o che fosse stata semplicemente formulata male la frase.
Il “fare” per scappare da se stessi
In realtà fermarsi vuol dire ri-trovarsi e prendere consapevolezza della condizione attuale in cui il soggetto riversa. Fare, allora, diviene sinonimo di fuga da sé, un modo per prendere tempo perdendolo. Il fare in questo caso contraddice la natura stessa del fare. Si fa per concretizzare e non perdere tempo. Nel caso della paziente, invece, il fare era il diversivo necessario per evitare l’impegno verso se stessa perdendo, così facendo, tempo.
Il fare era divenuto la scusa necessaria per evitare l’angoscia del confronto con sé. La sera rappresentava però la nemica principale; il crepuscolo non poteva essere tollerabile ed il suono del galoppo angoscioso del progressivo avvicinamento di trovarsi difronte a se stessa. La vicinanza serale, il rischio di percepirsi a tu per tu con la propria immagine riflessa non poteva essere tollerabile. Da qui la necessità di crearsi sempre nuovi impegni, uscite diversificate, estenuanti ore di volontariato nonostante un lavoro molto impegnativo.
Poi il crollo emotivo, la difficoltà a mantenere il ritmo e la stanchezza sempre più pressante; la paura di essere raggiunta, però, non le impediva di continuare a riempire sempre le giornate con cose diverse da fare.
Nel mio libro “Pratiche Bioenergetiche Integrate” mi soffermo molto sulla postura del radicamento, sul “presentarsi a se stessi” respirando in posizione eretta con le mani poggiate sulle zone del corpo avvertite come particolarmente scariche o maggiormente fragili. Entrare in connessione con se stessi vuol dire fare la scansione del proprio stare in quel preciso istante. Presentarsi significa dire a se stessi nome cognome attraverso la voce del proprio sentire. E’ il momento dell’autointervista che fa prendere coscienza di chi siamo al di là degli impegni, della professione, del ruolo sociale. E questo può far male.
Svestiti dai propri costrutti, dalle sovrastrutture, spogliati dai ruoli sociali, che cosa rimane di se stessi?
Intensità e frequenza di respiro, immagini più o meno dense di affettività, la voce interiore che dialoga con altre voci o che si esprime attraverso monologhi più o meno lunghi e ridondanti.
Poi le sensazioni corporee accompagnano il tutto, insieme alla suggestione del momento e alla percezione del tempo che, improvvisamente, si dilata. In questo frangente può emergere chi siamo, non per come ci rappresentiamo idealmente ma per come sentiamo di stare in quel preciso istante e, come dicevo prima, può essere doloroso accogliersi se l’impianto esistenziale si è fondato fino a quel momento sulla fuga da se stessi per evitare di contattarsi.
Prendere coscienza delle ferite inferte (per le scelte passate subite), ammettere un’esistenza fondata sulla quotidianità percepita come piatta ed emotivamente sterile, avvertire il peso ed il dolore per gli affetti mancati, prendere coscienza delle occasioni perse, degli auto-tradimenti messi in scena per non decidere ed evitare di esporsi, rappresentano l’occasione per ridefinirsi alla luce di un cambiamento di rotta possibile.
Ri-definirsi alla luce di un’identità fondata sull’autenticità
Rincontrarsi per far pace con la spiacevole sensazione di non essere stati in grado di compiacere l’immagine idealizzata di sé, per non aver fino in fondo rispettato il mandato che ci eravamo imposti o che avevamo ereditato dalle aspettative genitoriali. Far pace con se stessi per ridefinirsi alla luce di un’identità fondata sull’autenticità del proprio sentire attraverso, anche, la messa a fuoco dei limiti e delle carenze che possono evidenziarsi dalla percezione del corpo, delle debolezze in determinate aree, dall’incapacità di sforzarsi, di prendere o lasciare andare.
Da questa “illuminazione della condizione presente di se stessi” ne deriva la stesura di un canovaccio che ha a che fare con la sperimentazione di una versione inedita di sé da costruire attraverso il gesto ed il movimento intenzionale. Partire da se stessi può voler dire provare a sperimentarsi, come dicevo prima, attraverso la capacità di allontanare, avvicinare, spingere o tirare a sé.
Nel mio libro “Pratiche Bioenergetiche Integrate” sono riportati esercizi ed esperienze corporee che consentono al praticante di mettersi in gioco per comprendere, in prima istanza, la condizione energetica attuale, la motivazione ad agire, l’intensità del desiderio, la volontà di cambiamento, ecc., anche (e soprattutto), attraverso la capacità di sentire le emozioni e di esprimerle.
Sentire la rabbia e rendersi conto di non legittimarsela evitando di manifestarla, percepire la gioia come qualcosa di minaccioso, avvertire il desiderio come una sensazione sbagliata di cui vergognarsi, sono solo alcuni esempi di ciò che può emergere quando il praticante effettua una scansione di se stesso attraverso il respiro e l’attivazione emozionale con le pratiche gestuali ed immaginative guidate.
Da qui nasce la possibilità di costruirsi un progetto autoformativo esperienziale che ha come fine l’incontro con se stesso attraverso lo scioglimento progressivo dei nodi e delle contratture energetiche che impediscono la capacità di sentire autenticamente e, di conseguenza, di un agire intenzionale e realmente voluto. L’abbandono progressivo degli schemi inautentici, frutto dei condizionamenti educativi trascorsi fondati sulla minaccia e sul senso di colpa, aiutano lentamente a scindere fra ciò che si fa per abitudine e ciò che agiamo perché in sintonia con l’autentica capacità di desiderare e sentire.
Riconoscere il senso di colpa, i mascheramenti delle manipolazioni, i divieti imposti ed accetti per paura di non essere ben voluti, rappresentano la base iniziale da cui prendere le mosse per dirigersi altrove, rispolverando quella bussola interiore che spesso rimane sotto la polvere delle minacce subite, delle svalutazioni e dei rimproveri per non essere stati in grado di assecondare le aspettative.
Rispolverare l bussola interiore significa riscoprire la fiducia nelle proprie intuizioni e in ciò che sentiamo come autenticamente nostro. La bussola ci dice che è vero ciò che proviamo mentre in realtà ci siamo mossi sempre nella direzione opposta dove il vero ed il giusto sono collocati al di fuori, all’interno delle mura sorvegliate dai divieti genitoriali, dalle critiche, dai giudizi di chi aveva la presunzione di dirci cosa fosse giusto o sbagliato per noi.
La connessione mente-corpo
Ecco che, una volta riconosciuto tutto questo, anche il corpo riesce ad esprimersi con grazia, intensità e vigore perché in sintonia con il sentire emotivo profondo. La connessione mente-corpo non è altro che il processo di decontrazione e liberazione dei blocchi energetici, muscolari e psichici che consentono finalmente di agire coerentemente con l’intenzione ed il desiderio, alimentati dalle correnti emozionali non più vincolate o congelate dalle distorsioni e dalle false rappresentazioni di sé.
La nostra capacità di spingere coinciderà con il desiderio di allontanare e sarà poderosa; il tirare a sé diventerà la volontà di esprimere il diritto a prendere ciò che sentiamo come nostro e necessario; il sollevare e lo schiacciare saranno in sintonia con la necessità di ridefinire i confini, ecc.
Ecco che allora il processo di crescita coincide con l’autoformazione volta alla liberazione dai vincoli delle credenze sbagliate su se stessi, sull’inganno della sfiducia verso le sensazioni esperite, sulla necessità di dipendere dalle verità collocate al di fuori, in modo da scoprire se stessi, ovvero, arrendersi all’evidenza che, al di là del sentire autentico soggettivo, non esiste altra verità possibile. Attivare questo significa adempiere all’unico compito necessario: diventare se stessi.
Le tappe evolutive sono quindi:
- superare la diffidenza scoprendo la fiducia nel proprio sentire autentico
- dissolvere la vergogna attraverso la messa in discussione dei dubbi circa l’autenticità delle emozioni provate ed espresse
- smembrare la colpa riconoscendo che le parti di cui è composta sono semplicemente la tessitura di un insieme di divieti, raccomandazioni, manipolazioni, aspettative, ricatti, ecc.
- superare il senso di inferiorità dettato dal paragone con l’immagine idealizzata dell’Io, dettata dalle aspettative altrui e non dal desiderio di agire assecondando le proprie inclinazioni
- ridefinire l’identità attraverso la riscoperta e l’uso della bussola interiore, convogliando le energie verso la direzione del proprio sentire avvertito ed accolto con fiducia ed autonomia
- affrontare la paura dell’isolamento frutto della falsa convinzione che essere se stessi significhi tradire le aspettative altrui e, di conseguenza, essere abbandonati. Tutto ciò concorre alla generazione di uno spazio intimo, quartier generale della propria identità
- ultima tappa è la capacità di fluire evitando la stagnazione. Una volta riscoperte le correnti emozionali è possibile farsi guidare da esse con la fiducia di saperle gestire per non esserne sopraffatti.
A cura di Andrea Guerrini, psicologo e pedagogista
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