La lettura del presente in chiave psicosociale risulta difficile per la sua estrema complessità strutturale ed organizzativa ad un tempo e per la dimensione umana che si fa via via più polimorfa ed aperta, in un continuo processo di ridefinizione in termini valoriali, orientativi ed emozionali.
Tra un oggi reso fragile dalle incertezze che suonano ormai come un mantra in cui tutto è scandito dal ritmo del “contratto a tempo determinato” sia nei rapporti di lavoro che nei rapporti affettivi ed un futuro che è diventato allergico alle programmazioni anche in termini di assunzione di un ruolo diverso, come quello genitoriale, ne deriva che lo spazio per realizzare sé stessi diventa estremamente stretto e compresso.
La condanna a rimanere eterni figli, imprigionati nella logica della sopravvivenza e del “domani si vedrà“, da incubo temuto è divenuto progressivamente lo stato attuale delle cose alle quali è conseguita il normale adattamento silenzioso, con qualche eco di lamento che fa supporre una sofferenza in parte taciuta forse anche per vergogna e senso di colpa.
In un clima di impotenza appresa le passioni tendono ad affievolirsi, un po’ come accade al terreno quando inizia a non dare più i suoi frutti per il troppo sfruttamento o per la mancanza del nutrimento necessario. Gli sforzi vani, se ci sono, sono tali anche per mancanza di direzioni coerenti.
Gli stimoli ci sono (troppi), le indicazioni anche (spesso divergenti e conflittuali, opposte), le promesse non scarseggiano (anche se raramente vengono mantenute). L’immobilismo è talvolta l’ovvia conclusione di questo processo in cui forze opposte tendono ad annullarsi in un modo in cui avviene tutto quanto è necessario affinché niente cambi.
In campo c’è tutto il necessario (di cui si potrebbe fare talvolta anche a meno) per quantità ed intensità di stimoli, occasioni, opportunità inedite. Se non riesci a cogliere tutto questo ben di Dio sei tu che non hai allora chiari gli obiettivi, non sai stabilire le priorità. Ma insomma, il tempo passa, le opportunità sono come i treni e vanno presi quando arrivano, non puoi aspettare, ti devi lanciare, devi, devi, devi…
E se non puoi nel dovere allora occorre lo specialista che ti chiarisca il perché tu non possa (o non voglia). Ecco che a te ci pensa il coach, lo stratega, il consulente; basta che tu ti sieda e risponda alle domande ben congegnate che rispettano precisi protocolli. La comunicazione, ti si dirà, è tutto e se è chiara e trasparente saprai certamente attivare i cambiamenti necessari.
Arrivano allora le mappe, gli schemi riassuntivi delle tue priorità, ciò che vuoi realmente e ciò che vorresti solo a parole. Tutto si farà nitido affinché tu possa capire, pensare ed agire nel modo migliore per te. E mentre tutto intorno a te si muove affinché tu capisca, magari ti rendi conto ad un tratto che in tutto questo movimento incessante del ragionamento tu non ci sei proprio. Ci sei nel modo in cui ti viene chiesto di essere, ovvero nel pensare, nel capire. Esisti nella domanda che ti viene rivolta: hai compreso? Hai riflettuto? Ci hai pensato bene? Guarda che il tempo stringe, sei sicuro di avere capito?
In tutto questo ci sei, ma solo nella testa. Manca la domanda fondamentale che ti riconosca come persona e non solo come materia pensante. Manca il semplice: come stai?
Stare sta a significare come mi sento, cosa sento in questo preciso momento. E’ la domanda più logora e banale del mondo ma è in questa sua ovvietà che sta tutta la potenza attivatrice in grado di riportare chi deve rispondere nella presenza a se stesso, al proprio corpo ed al sentire più intimo.
Ognuno farà vibrare la domanda nella direzione che sente come necessaria in quel preciso istante. Il “come stai” può andare ad aprire cassetti importanti del ricordo emotivo, far sprigionare lacrime intrise di una tristezza da troppo tempo irretita negli occhi. Il “come stai” scioglie quelle emozioni che spesso rimangono intrappolate nella corazza del “dover essere” creando un costante ed incessante irrigidimento della struttura caratteriale e corporea.
Nella mia esperienza clinica mi sono accorto, però, che questa domanda spesso genera anche un’altra reazione, soprattutto nei più giovani: l’imbarazzo.
Per imbarazzo non intendo la vergogna che si prova innanzi ad una domanda troppo intima. Per imbarazzo intendo la tipica reazione che si manifesta (e che tutti bene o male abbiamo provato almeno una volta nella vita durante il periodo della scuola), quando il professore pone una di quelle domande così incomprensibili che diventa impossibile qualunque tentativo di risposta.
Le passioni deboli al tempo degli stimoli forti
Ho citato nel titolo dell’articolo il termine “passioni deboli”, ebbene io credo che uno degli effetti del disincanto tipico del postmoderno abbia lasciato dietro di sé una scia di volumi emotivi estremamente abbassati.
Le tentazioni nichiliste, la svalutazione dei valori importanti, il disconoscimento dell’impegno in ambito politico, artistico, culturale, ecc., hanno inciso le coscienze in maniera non indifferente attraverso l’incapacità di vibrare emotivamente difronte agli accadimenti, attraverso la difficoltà a lasciarsi stupire, ad eccitarsi, ad accendere i sensi, ad avventurarsi; questi sono i sintomi di una anestesia emotiva che ha come obiettivo l’eliminazione della possibilità del dolore, con il compromesso dell’accontentarsi di sopravvivere in modo che il gioco della vita sia sempre a rischio zero per il partecipante.
La zona di comfort e il culto della sicurezza
Il richiamo alle comodità, alla fedeltà religiosa per la zona comfort che, sebbene limitante o dolorosa è pur sempre degna di culto per la sicurezza che promette, la gelosa custodia delle routine quotidiane attivate per devozione a sua maestà abitudine, sono tutti elementi che sacrificano il sentire al cospetto del tentativo di sopravvivenza.
Barattare la vita emotiva eludendo la possibilità di soffrire in cambio di divenire spettatore disinteressato ed annoiato (ma comunque preservato) della vita, è ciò che porta a mio avviso a non sentire il desiderio di orientarsi, a non vivere l’emozione della propria avventura formativa e trasformativa, a non sentire l’emozione intesa come e-movere, che spinge da dentro, catalizza le forze, che attiva ed anima il senso delle scelte possibili, che come un fuoco divampa ed accende tutti i sensi, facendo i conti anche con la paura, il timore di sbagliare, di non riuscire, rimettendo a confronto tutte le parti che caratterizzano il Sé, anche quelle più conflittuali.
Da questo senso di forze contrapposte, di sensazioni contrastanti, di entusiasmi, di possibili utopie (oggi avvertite come bestemmie perché beceramente accomunate a semplici illusioni dell’intelletto, dimenticando la forte capacità che ha di infondere determinazione, incisività, superamento di se stessi e del mondo per una nuova ri-definizione e visione della realtà) nasce o può nascere il senso di sé, il senso di essere nel mondo, in cui sentire, pensiero ed azione sono accomunati dalla creazione di valore, dall’intenzionalità e dalla pienezza dell’agire in funzione delle priorità soggettive e creative allo stesso tempo.
Finché poniamo il problema dell’orientamento, della realizzazione personale, delle scelte da effettuare come una semplice procedura mentale in cui si mettono sulla bilancia i pro e i contro, sarà difficile consentire un vero cambiamento di prospettiva e di azione. Il problema di fondo è l’attivazione emozionale, la mancanza del carburante necessario per risvegliare e mettere in moto i corpi affinché possano realmente sentire quale è la loro direzione, il loro tragitto e la possibile destinazione finale (anche utopica, se vogliamo…).
Ripartire dall’alfabetizzazione emozionale
Ripartire dall’alfabetizzazione emozionale, dal riconoscimento delle proprie emozioni, dal risveglio dei sensi attraverso l’eccitazione per ciò che è possibile e lecito desiderare. Senza il desiderio tutto si pone ad un livello di piattezza, routine, quotidianità sterile ed improduttiva.
Il desiderio anima e scuote, sveglia attraverso la sensazione del “pulsare di vita”. Ma per tutto questo occorre una diversa educazione, l’educazione al sentire (non al capire, al ricordare, ad imparare meccanicamente), al provare e comunicare ciò che si sente, ad amplificare certe sensazioni attraverso la pratica e l’esperienza di ciò che crea piacere.
Nel mio libro “pratiche bioenergetiche integrate”, edizioni Kindle, cerco di favorire l’attivazione del piacere attraverso i movimenti del bacino, facilitando l’espressione di sé attraverso il suo scuotimento a ritmi e frequenze variabili. Anche il lavoro sul gioco (quello infantile, con la palla, i cerchi, ecc.), sul ridere, sul prendersi in giro, sullo scherzo, serve per riuscire a tornare in superficie, ad abbandonare il pregiudizio che la vita si articoli sulla pesantezza e sull’accettazione incondizionata del mantra dovere-obbedire-soffrire che la nostra cultura tende progressivamente a voler farci apprendere ad ogni costo. Il tentativo è quello di cercare di riattivare il senso di gioia e di pienezza che sperimentavamo da bambini quando era del tutto naturale stupirsi, eccitarsi, passare repentinamente dal riso al pianto, dall’entusiasmo per la scoperta alla noia per il tempo che talvolta fatica a scorrere.
A cura di Andrea Guerrini, psicologo e pedagogista
Se ti è piaciuto questo articolo puoi seguirci su Facebook: Pagina ufficiale di Psicoadvisor o sul nostro gruppo “Dentro la psiche“. Puoi anche iscrivervi alla nostra Newsletter. Per leggere tutti i miei articoli ti invito a visitare questa pagina