La memoria è la capacità di codificare, archiviare e recuperare le informazioni che arrivano attraverso le esperienze. Questa capacità dell’essere umano comporta l’uso di varie aree del cervello; è un meccanismo tanto ricco quanto complesso. Grazie alla memoria ci adattiamo all’ambiente in cui viviamo, alla nostra realtà, generiamo la nostra identità, impariamo, cresciamo e sviluppiamo.
Erroneamente si tende a pensare che ricordi ed esperienze vissute vengano immagazzinate senza gerarchia dal nostro cervello proprio come in un archivio, in modo oggettivo. Le neuroscienze ci insegnano però come la nostra memoria sia emozionale, ovvero fortemente influenzata da emozioni e sensazioni provate di fronte a un determinato stimolo e che, di conseguenza, ogni nostro ricordo sia una personale, mediata e per certi versi “distorta” ricostruzione di un’esperienza, che molto spesso non risulta essere totalmente aderente alla realtà oggettiva.
Il primo a essersi interessato allo studio della memoria e al quale dobbiamo un grande contributo alla psicologia sperimentale è Hermann Ebbinghaus (Ebbinghaus, 1885). Per la prima volta nella storia della ricerca, Ebbinghaus si preoccupò di studiare e spiegare quali fossero i meccanismi alla base grazie ai quali la memoria e i suoi magazzini si riempivano e si svuotavano.
Ricercatori rilevanti iniziarono a concepire la memoria come un processo attivo di continua ricostruzione del passato in funzione delle esigenze del presente. Barlett, con la sua “teoria sulla memoria” (1932), si accorse che col tempo il contenuto originale subiva delle trasformazioni in base a diversi fattori. Attualmente si parla del famoso cervello emotivo.
La memoria è anche emozionale
Tutti passiamo questi momenti nel corso della vita, quando alcune occasioni scatenano le nostre emozioni: possono essere brani musicali, luoghi, odori, fotografie, qualsiasi cosa in grado di risvegliare i ricordi dei giorni passati o delle persone che sono state o sono importanti. In quelle rievocazioni siamo pervasi da un’ondata di emozioni e i momenti in agrodolce riaffiorano; possiamo provare sentimenti di gioia, felicità, contentezza, tristezza, dolore e così via: sono i nostri ricordi emotivi.
C’è una ragione fondamentalmente biologica che sta alla base del meccanismo di connessione tra emozione da una parte e stoccaggio e recupero dei ricordi dall’altra: gli psicologi hanno effettuato ricerche sulla funzione della memoria e hanno notato che l’azione del ricordare coinvolge circuiti specifici del cervello che influiscono su particolari zone neurologiche.
I circuiti che permettono all’emozione di rendersi percettibile lavorano in tandem con quelli dello stoccaggio emotivo in quanto sono con loro intrecciati; il che spiega per quale motivo il ricordo di momenti spiacevoli produce emozioni spiacevoli e, allo stesso modo, il richiamo di esperienze gradevoli stimola emozioni positive. Siamo molto più probabilmente in grado di rievocare momenti associati a emozioni forti piuttosto che eventi emotivamente neutri o mancanti di spessore emotivo.
La cosa interessante è che i nostri ricordi, che si basano sulle esperienze, vengono stoccati nei circuiti di memoria emotiva con altrettanti circuiti di cognizione neurologica che corrono loro accanto e con cui lavorano in simbiosi. I ricordi emotivi possono essere pensati alla stregua di un diario interiore che registra la nostra crescita e il nostro sviluppo nel corso della vita.
Le esperienze emotive formano il nocciolo del resoconto interiore e di quello delle relazioni con gli altri, che siano familiari, amici o amanti che vanno e vengono. Le emozioni sono immagazzinate secondo una mappatura, un’organizzazione e una classificazione delle esperienze che vanno a comporre un resoconto interno in grado di dare soluzione di continuità temporale al nostro passato emotivo
Le esperienze piacevoli o spiacevoli vengono memorizzate di più?
Il fatto che la nostra memoria sia altamente influenzata dalle emozioni si spiega a livello fisiologico: quando il nostro corpo si trova in uno cosiddetto “stato impressionabile“, ossia mentre vive emozioni e sensazioni forti, l’amigdala, parte primitiva e istintiva del nostro cervello che gestisce proprio le emozioni, rilascia ormoni che innescano la cosiddetta reazione “attacco o fuga” oltre a mobilitare automaticamente i centri neurali imputati al movimento e attivando il sistema cardiovascolare, i muscoli e l’intestino.
Se nella Preistoria gli ormoni rilasciati dall’amigdala — adrenalina, dopamina e noradrenalina — sono stati utili ai nostri antenati per fuggire o meno da un pericolo e apprendere nozioni utili per la propria sopravvivenza, aiutandoci a stabilire quali stimoli fossero utili o dannosi, oggi consentono al nostro cervello di determinare la valenza emozionale delle esperienze che viviamo quotidianamente, informando l’ippocampo – corpo neurale che attivamente “ricorda” le nostre esperienze, quali ricordi conservare a lungo termine e quali no. In sintesi, l’amigdala giudica la valenza emozionale di ogni stimolo, l’ippocampo conserva il ricordo.
I ricordi possono essere modificati?
Prima o poi succede a tutti: siamo convinti che un episodio che ci riguarda sia andato in un certo modo, fino a quando i fatti non ci smentiscono clamorosamente. La memoria non è uno scrigno chiuso ma il frutto di un continuo lavoro di ricostruzione, e i falsi ricordi sono la versione più estrema di questo processo di ripristino.
Le neuroscienze, infatti, ci insegnano come la nostra memoria sia fortemente influenzata da emozioni e sensazioni provate di fronte a un determinato stimolo e che, di conseguenza, ogni nostro ricordo sia una personale, mediata e per certi versi “distorta” ricostruzione di un’esperienza, che molto spesso non risulta essere totalmente aderente alla realtà oggettiva.
Succede, ad esempio, se ci convincono che da bambini ci ammalammo per aver mangiato un uovo sodo, tenderemo a evitare i sandwich che lo contengono, anche se quel fatto non è mai avvenuto. Lo stesso vale per una persona molto soddisfatta del suo lavoro: se le chiediamo com’è stato il suo percorso lavorativo, probabilmente sorvolerà sugli aspetti negativi, vedrà il tutto da un punto di vista positivo e ricorderà i momenti di maggior soddisfazione nel suo passato. Se invece si tratta di una persona che sta attraversando un brutto momento, o è disoccupata, potrebbe riassumere il suo percorso in modo negativo e sottolineando la sua sofferenza.
L’oblio come difesa
La memoria non esisterebbe se non esistesse la capacità di dimenticare. Dimenticare è essenziale all’equilibrio psico-fisiologico della nostra vita cognitiva perché impedisce quella pienezza troppo patologica, strabordante e straripante che aumenterebbe talmente il potere della nostra memoria da renderlo nemico della memoria stessa, fino a impedirci di parlare della nostra vita con ordine e
precisione e addirittura di agire nel mondo da persone normali
A differenza della memoria esplicita, la memoria emotiva matura proprio nei primi anni di vita
La constatazione che la memoria emotiva immagazzina eventi prima ancora di avere la consapevolezza, rappresenta un fattore di importante rilevanza: un trauma sotto i tre anni può non essere ricordato razionalmente, ma può condizionare i nostri comportamenti in quanto fissato nella memoria emotiva. Da tutto ciò, ci rendiamo conto di quanto sia fondamentale prendersi cura dei bambini, prendersi cura delle emozioni dell’altro, in quanto il nostro cuore, o meglio ancora, la nostra memoria emotiva, non dimentica affatto l’amore che viene regalato e quindi nemmeno i brutti momenti.
La parte di cervello emotivo, infine, va ad incidere nelle nostre relazioni sociali. La caratteristica più eccezionale dell’uomo, che lo distingue dalle altre specie animali, riguarda la comprensione del pensiero altrui grazie a capacità come l’empatia e l’autocoscienza.
A cura di Ana Maria Sepe, psicoanalista
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