Il dolore cambia profondamente le persone. Nessuno sarà più lo stesso dopo un lutto, una separazione, un tradimento. Le ferite si possono rimarginare, ma le cicatrici ricorderanno sempre quel che è stato e ciò che non potrà più essere.
Tentare di scoraggiare il dolore ignorandolo, serve solo a spostarlo altrove, poiché quando la sofferenza diviene intollerabile, la mente afferisce a difese sempre più rigide e disfunzionali: la negazione, la proiezione, l’identificazione proiettiva sono solo alcune delle tante “etichette” utili al clinico per classificare nient’altro che modalità di sopravvivenza al dolore psicologico, quando questo supera la soglia soggettiva di sopportazione.
Talvolta, quando la sofferenza emotiva non viene raccontata, quando non incontra una “relazione di contenimento” capace di catalizzarne la portata distruttiva, si impossessa di una parte di noi, una parte che urla in attesa di essere ascoltata: lo stomaco quando rifiuta il cibo, la testa quando viene ingabbiata in un dolore resistente al farmaco, la pelle quando si ricopre di eruzioni cutanee che escludono un’origine organica.
La sofferenza a cui non si dà voce, prova a defluire all’esterno attraverso gli incubi notturni, l’insonnia, il vissuto depressivo, il panico.
Negare il dolore non serve a cancellarlo: lo rende solo più forte perché gli si consente di scavare l’anima, di toglierci il fiato di giorno e di invadere i nostri sogni di notte. Chi teme di affrontare il dolore corre il rischio di diventarne prigioniero e di ritrovarsi ad interpretare la realtà attraverso chiavi di lettura soggettive permeate di sfiducia e pessimismo.
Congelare la sofferenza emotiva ha l’effetto di una droga: ci fa sentire invulnerabili solo in apparenza, ha una riuscita temporanea e ci rende dipendenti da tutti quei fattori di distrazione che ci distolgono da noi stessi.
Anche la quotidianità rischia di subire violenti scossoni: tutto ciò che prima apparteneva alla routine, diviene improvvisamente faticoso, ciò che prima dava piacere e gratificazione, diventa insapore; spesso è indispensabile concedere a se stessi e ai propri bisogni emotivi uno spazio appropriato per esprimersi prima di ritornare ad occuparsi in modo funzionale ed efficace delle incombenze quotidiane.
Le emozioni negative ed il senso del dovere, infatti, sono come due conoscenti pronti ad entrare apertamente in conflitto tra loro e a dichiararsi apertamente guerra quando le pressioni esterne (incombenze quotidiane, consegne lavorative, gestione della casa e dei figli ecc) non consentono più una pacifica convivenza.
Chiudersi a riccio per paura
Quando il desiderio di mollare tutto prende il sopravvento, il pensiero richiama l’attenzione su quello che ci manca e ci invita a fermarci per iniziarne la ricerca. Le assenze, i vuoti, il non detto, l’amore non ricambiato, l’abbraccio non ricevuto, il conforto atteso invano, il desiderio inappagato sono ciò che pesa di più nello zaino che ognuno di noi porta sulle spalle quando attraversa la strada della vita.
Quando il peso del fardello è così difficile da sopportare da soli, è consigliabile fermarsi e cercare qualcuno che ci sollevi dalla fatica quanto basta per sentire il desiderio di ricominciare.
Se invece si sceglie di chiudersi a riccio, non solo si rischia di restare schiacciati sotto il peso insopportabile del proprio malessere psicologico, ma addirittura di non ricevere soccorso da chi ci circonda, soprattutto se ci siamo mostrati sfuggenti ed evitanti per il timore che alla nostra richiesta di supporto non seguisse nessuna mano tesa.
Con un atteggiamento di questo tipo, si corre il rischio di allontanare anche chi, nonostante la nostra reticenza a farci aiutare, ha provato a sfidare i nostri aculei, senza timore di pungersi.
Quando la sofferenza è troppo grande per essere gestita da soli, è fondamentale chiedere aiuto: raccontare il dolore non solo non ci rende più deboli, ma spesso ci fortifica; condividerlo non ci rende più vulnerabili, ma ci regala un nuovo senso di leggerezza; abbandonarsi all’altro non equivale ad una sconfitta ma spalanca le porte ad una possibilità.
Sofferenza psichica: scelta di comodo o ultima spiaggia?
Nessuno sceglie di stare male, ne di incatenarsi ad una prigione fatta di insofferenza e frustrazione: le ragioni profonde alla base di un disagio psicologico (o di un conclamato disturbo) sono sempre numerose, oltre che molto complesse.
Quando conducono il soggetto ad una condizione di malessere insostenibile, ciascuno si difende come meglio può. Divenire consapevoli di questo, potrebbe contribuire a guardare alla sofferenza psichica con il rispetto che gli è dovuto, piuttosto che giudicarla come se si trattasse di una scelta di comodo.
Spesso, quelle che ci sembrano gelide, anaffettive, impenetrabili, o semplicemente bizzarre sono persone che in passato hanno chiesto con insistenza che le loro emozioni fossero ascoltate, decodificate e accolte.
Avendo visto la loro richiesta cadere nell’oblio e il loro bisogno restare insoddisfatto, hanno imparato a chiudere la porta, visto che lasciarla aperta facilitava solo l’ingresso di un assordante silenzio.
Quanto più un comportamento altrui ci appare insensato e improbabile, tanto più è probabile che sottenda una logica incontrovertibile alla luce dei fatti che l’hanno determinato. Spesso è sufficiente cambiare prospettiva per coglierne l’essenza, individuare la corretta chiave di lettura e attivarsi per dare il proprio contributo.
A cura di Annarita Arso, psicologo psicoterapeuta. Riceve su appuntamento on line e nei suoi studi a Lecce e Brindisi. Mail arso.annarita@libero.it