E se non fosse fame? Quando il cibo diventa rifugio emotivo

| |

Author Details
Dottoressa in psicologia, esperta e ricercatrice in psicoanalisi. Scrittrice e fondatore di Psicoadvisor

Ci sono momenti in cui apriamo il frigo non per fame, ma per bisogno. Momenti in cui il cibo sembra l’unica risposta possibile a qualcosa che dentro si muove, ci agita, ci stringe il petto. Non è sempre facile da riconoscere, perché quel gesto – prendere qualcosa da sgranocchiare, addolcirci la bocca, riempirci lo stomaco – è spesso così automatico da sembrare innocente. Ma in realtà è un segnale. Un linguaggio. Un tentativo.

Il cibo non è solo nutrimento: è esperienza, ricordo, conforto. È la torta della nonna, la merenda dopo la scuola, la tavola della domenica, l’abbraccio che a volte è mancato. Per molte persone, mangiare non è solo un atto fisiologico, ma un gesto affettivo, a tratti spirituale. È qualcosa che calma, che protegge, che regola. Eppure, quando il cibo diventa la risposta costante a ogni disagio interiore, a ogni stato di vuoto, stress o malinconia, rischia di trasformarsi in una forma di silenziosa prigione. Mangiamo per sentirci meno soli. Per anestetizzare la tristezza. Per ritrovare, anche solo per un istante, un senso di sicurezza.

Questa dinamica è molto più diffusa di quanto pensiamo

Non riguarda solo chi ha un rapporto difficile con il corpo o con l’alimentazione in senso clinico. Riguarda tutti noi. Perché tutti, prima o poi, abbiamo cercato rifugio in qualcosa che ci facesse stare meglio. E il cibo, con la sua accessibilità e il suo potere sensoriale, è spesso il rifugio più rapido.

Ma cosa succede davvero nel nostro cervello quando mangiamo per “calmarci”? Perché sentiamo un sollievo così immediato e, subito dopo, a volte, anche un senso di colpa o vuoto più grande? Per capirlo, dobbiamo ascoltare non solo il nostro stomaco, ma il nostro sistema nervoso. E riconoscere che, dietro ogni boccone emotivo, si nasconde un bisogno che merita ascolto, non giudizio.

Fame emotiva: una risposta del cervello, non solo della volontà

Quando parliamo di fame emotiva, intendiamo quel tipo di fame che non nasce da una reale necessità fisiologica di nutrimento, ma da un’esigenza interna: la necessità di calmare, contenere, regolare uno stato emotivo. In questi casi, il cibo non è scelto per rispondere a un bisogno del corpo, ma del cuore e della mente. Questo fenomeno ha basi biologiche molto chiare, che ci aiutano a comprendere perché non si tratta di mancanza di forza di volontà, ma di una vera e propria risposta del nostro sistema nervoso.

Il ruolo dell’amigdala e del sistema simpatico

Tutto inizia in una piccola struttura del cervello chiamata amigdala, parte integrante del sistema limbico, che ha il compito di rilevare i pericoli – reali o percepiti – e attivare una risposta emotiva. L’amigdala non distingue tra un pericolo concreto (come una minaccia fisica) e uno simbolico (come una critica, un senso di inadeguatezza, una tristezza profonda): ogni emozione intensa può innescare la sua attivazione.

Una volta attivata, l’amigdala invia segnali a tutto il corpo tramite il sistema nervoso simpatico, che regola la risposta “combatti o fuggi”. Il battito cardiaco accelera, la respirazione si fa più rapida, i muscoli si tendono, l’organismo si prepara ad affrontare la minaccia. Ma quando il pericolo è interno – un’emozione difficile, una memoria, un senso di vuoto – il corpo ha bisogno comunque di una via d’uscita. Ed è lì che entra in gioco il cibo.

Il ruolo dell’ipotalamo: il ponte tra corpo e cervello

In questo meccanismo entra anche in scena l’ipotalamo, una regione cerebrale situata proprio sotto il talamo, fondamentale nel regolare le funzioni corporee come la fame, la sete, la temperatura e il ritmo sonno-veglia. L’ipotalamo riceve informazioni sia dal sistema limbico (che gestisce le emozioni), sia dai segnali biochimici provenienti dal corpo, come i livelli di glucosio nel sangue o la presenza di ormoni della fame come la grelina.

Nel caso della fame emotiva, l’ipotalamo può essere attivato in modo non fisiologico, cioè in assenza di un reale bisogno energetico. Questo accade perché i segnali emotivi interferiscono con il normale equilibrio omeostatico, inducendo la sensazione di fame anche quando il corpo non ha necessità di nutrirsi. In sostanza, è come se il cervello “confondesse” il disagio emotivo con una carenza nutrizionale, spingendoci a mangiare per riportare equilibrio.

Il cibo come autoregolazione emotiva

Quando mangiamo, soprattutto cibi ad alto contenuto di zuccheri e grassi, si attiva nel cervello il cosiddetto sistema della ricompensa. Il rilascio di dopamina – il neurotrasmettitore associato al piacere – fornisce una sensazione immediata di sollievo e gratificazione. Allo stesso tempo, l’organismo rilascia anche endorfine, che attenuano il dolore fisico ed emotivo, e serotonina, che regola il tono dell’umore. Il livello di cortisolo, l’ormone dello stress, tende a diminuire. In altre parole, il cibo diventa una vera e propria “carezza chimica”: un modo veloce ed efficace per calmare il sistema nervoso in allarme.

Il problema non è il cibo, ma ciò che ci spinge a usarlo

Il sollievo che proviamo dopo aver mangiato in modo impulsivo è reale, ma effimero. Terminato l’effetto biochimico, il disagio emotivo torna a farsi sentire, spesso amplificato dal senso di colpa. Si entra così in un circolo vizioso: emozione difficile → attivazione dell’amigdala → attivazione dell’ipotalamo → ricerca di cibo → sollievo → colpa → nuova emozione difficile → nuovo ricorso al cibo. Questo schema si rafforza nel tempo e diventa automatico. Il nostro cervello, associando il cibo al sollievo, tenderà sempre più spesso a ricorrere a questa soluzione, anche in assenza di vera fame.

Un bisogno nascosto che chiede di essere ascoltato

A questo punto, è evidente che la fame emotiva non è un capriccio o un difetto di carattere, ma una risposta appresa, una strategia per cercare stabilità interiore. Dietro ogni episodio di fame emotiva, c’è una richiesta profonda che spesso non siamo abituati ad ascoltare. Cosa stai cercando davvero quando apri quel pacco di biscotti? Di quale emozione vuoi proteggerti? Cosa ti manca in quel momento?

Queste domande aprono uno spazio di possibilità. Uno spazio dove non c’è bisogno di lottare contro se stessi, ma di mettersi in ascolto. Non per rinunciare al cibo, ma per smettere di usarlo come unica risposta.

Strategie per un approccio più consapevole

La regolazione emotiva si può imparare. Non si tratta di “resistere” al cibo, ma di scoprire che ci sono altri modi per ascoltare e accogliere ciò che sentiamo. Ecco alcune possibilità:

1. Riconoscere il meccanismo
Diventa osservatore di te stesso, con curiosità e senza giudizio. Ogni volta che senti il bisogno di mangiare, chiediti: “Ho davvero fame o sto cercando qualcos’altro?”

2. Creare un tempo di pausa
Dai spazio tra l’impulso e l’azione. Anche solo un minuto in cui respiri, ti fermi e ti chiedi: “Come sto?” può interrompere l’automatismo.

3. Sperimentare nuove forme di autoregolazione
Una camminata lenta, un gesto di tenerezza verso te stesso, scrivere due righe in un diario, ascoltare musica, sentire qualcuno che ti fa bene. Sono modi semplici ma potenti per rispondere al bisogno che il cibo sta cercando di placare.

4. Cercare connessioni vere
Il senso di vuoto spesso nasce da una disconnessione interiore ed esterna. Coltiva relazioni in cui puoi essere te stesso, in cui puoi mostrarti fragile senza paura.

Non sei sbagliato, sei umano

La fame emotiva non è qualcosa da combattere. È un messaggero. Un segnale che c’è una parte di te che ha bisogno di essere accolta, abbracciata, nutrita in un altro modo. Quando impari a vedere la fame non come un nemico, ma come una voce che chiede attenzione, allora inizi a guarire. Non dal bisogno di mangiare, ma dal bisogno di ignorarti.

In “Il mondo con i tuoi occhi” racconto proprio questo: come impariamo a coprire le emozioni e come possiamo ritrovare uno spazio di autenticità, in cui la felicità non passa per la rinuncia ma per la riconnessione. Perché spesso non è fame. È desiderio di sentirsi visti. È bisogno di presenza. E tu meriti di essere ascoltato. Sempre. Per immergerti nella lettura e farne tesoro, puoi ordinarlo qui su Amazon oppure in qualsiasi libreria

A cura di Ana Maria Sepe, psicologo e fondatrice della rivista Psicoasvisor
Se ti piace quello che scrivo, seguimi sul mio profilo Instagram: @anamaria.sepe.