Perché cerchiamo approvazione nei like (e cosa ci manca davvero)

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Dottoressa in psicologia, esperta e ricercatrice in psicoanalisi. Scrittrice e fondatore di Psicoadvisor

C’è qualcosa di profondamente umano in quel gesto semplice e apparentemente innocuo: pubblicare una foto, una frase, un pensiero… e attendere. Che arrivi un like, una reaction, un cuoricino. Quel gesto, all’apparenza superficiale, nasconde in realtà un bisogno antico: essere visti. Sentirsi riconosciuti. Sapere di esistere nello sguardo dell’altro.

Viviamo in un’epoca in cui l’identità si intreccia sempre più con lo specchio digitale

Ma in fondo, non è un problema di social. È una questione affettiva, prima di tutto. I social network amplificano qualcosa che è già dentro di noi: il desiderio di approvazione, di conferma, di essere accettati per ciò che siamo, anche se spesso ci mostriamo per ciò che crediamo sia più facilmente accettabile.

Chi non ha mai provato un piccolo brivido nel vedere crescere le notifiche? O una sottile delusione nel vederle restare ferme? Non è vanità, è umanità. Ma è anche un segnale. Perché se quella reazione esterna diventa condizione interna per stare bene, allora forse qualcosa ci manca. E quel qualcosa, raramente si risolve con un like in più.

Il bisogno di approvazione: radici nell’infanzia

La ricerca di approvazione nasce molto prima dell’arrivo dei social. È un bisogno affettivo che affonda le radici nella nostra infanzia, quando il sorriso della mamma o l’attenzione del papà erano il nostro primo “like”.

Il bambino impara fin da piccolo a capire cosa fa piacere agli altri per essere accolto, e spesso comincia a modulare se stesso per ottenere amore, protezione o riconoscimento. È in quel momento che si costruisce l’equazione pericolosa: se piaccio, valgo.

Nel tempo, questo schema può diventare un copione inconscio: continuare a cercare approvazione esterna per sentirsi al sicuro dentro. I social non fanno che replicare questo meccanismo su scala globale, rendendo visibile ciò che nella psiche era già attivo. Ogni like diventa una micro-conferma identitaria. E ogni assenza di risposta, un micro-rifiuto.

Il ruolo dell’autostima e dell’immagine ideale

Quando il nostro senso del valore è instabile o costruito su fondamenta fragili, il bisogno di conferme esterne cresce. È come se la nostra autostima avesse bisogno costante di rifornimento.

In psicologia, si parla di falso sé per indicare quella parte di noi che si mostra in modo adattato, strategico, perfino seduttivo, pur di non rischiare il rifiuto. Sui social, questo falso sé può diventare iperpresente: filtri, pose, frasi motivazionali, vita perfetta. Tutto calibrato per piacere.

Ma ciò che ci dà piacere momentaneo spesso non nutre in profondità. Perché non è detto che chi riceve like si senta amato. E non è detto che chi non li riceve si senta invisibile. Tutto dipende dalla nostra storia, dalle nostre ferite, e da quanto siamo in grado di riconoscere il nostro valore al di là dello sguardo altrui.

Cosa accade nel cervello quando riceviamo un like

Dal punto di vista neuroscientifico, i like attivano le stesse aree cerebrali coinvolte nei circuiti della ricompensa, in particolare il sistema dopaminergico. Quando riceviamo un like, il cervello rilascia dopamina: il neurotrasmettitore del piacere, della motivazione, della “ricompensa”.

È lo stesso meccanismo coinvolto nel gioco d’azzardo, nella dipendenza da sostanze, e in tutte le dinamiche di ricompensa variabile. Questo significa che non è solo il like in sé a crearci dipendenza, ma l’incertezza con cui arriva. Pubblico una foto: arriveranno 5, 50 o 500 like? Questo imprevedibile rilascio di gratificazione tiene il cervello “incollato” allo stimolo.

Più un’esperienza attiva il circuito della ricompensa in modo intermittente, più il cervello la registra come “emozionalmente significativa”. Ecco perché torniamo a controllare lo schermo. Non per bisogno di comunicare, ma per bisogno di sentirci appagati.

Like, solitudine e il bisogno di essere visti

Dietro la ricerca ossessiva di consenso si cela spesso una profonda solitudine relazionale. Il like diventa il surrogato di una carezza emotiva, il sostituto digitale di uno sguardo che ti vede davvero.

Molti adulti, in apparenza sicuri, nascondono un bambino interiore che non si è mai sentito pienamente riconosciuto. Quel bambino cresce e si adatta, ma la ferita resta. E allora cerca approvazione ovunque: nei voti, nel lavoro, nelle relazioni… e ora anche nei social.

È importante dirlo: desiderare approvazione non è patologico. È umano. Ma quando la si cerca per riempire un vuoto, allora diventa un sintomo. E quel vuoto, spesso, non ha nulla a che fare con Instagram.

Come riconoscere (e liberarsi) dal bisogno eccessivo di like

La consapevolezza è il primo passo. Se ti accorgi che il tuo umore cambia in base a quanti like ricevi, se ti senti soddisfatto solo quando i numeri crescono o ti abbatti se restano fermi, è tempo di fermarti e ascoltare. Non giudicarti: non sei fragile, sei umano. Ma è proprio lì che comincia il lavoro interiore.

Domandati con sincerità: Cosa sto cercando davvero? Chi sto cercando di impressionare? Chi vorrei che mi vedesse davvero? Spesso, dietro al bisogno di consenso c’è un antico desiderio di essere riconosciuti da qualcuno che, in passato, non ha saputo farlo. A volte non cerchiamo il mondo, cerchiamo quella persona. E nel frattempo rincorriamo tanti sguardi, senza accorgerci che stiamo continuando a bussare alla stessa porta.

Dal punto di vista psicologico, il bisogno eccessivo di approvazione è spesso legato a una fragilità del Sé e a un’immagine interna instabile: il nostro valore si muove come un pendolo, oscillando tra momenti di euforia e insicurezza, a seconda della risposta dell’esterno. Questo accade perché l’autostima non è radicata in un nucleo stabile, ma ha bisogno di essere riflessa da fuori per esistere.

Ribaltare questa dinamica è possibile, anche se non immediato. Un piccolo passo è quello di pubblicare qualcosa che non cerca approvazione. Qualcosa che sia tuo, autentico, anche imperfetto. Non per piacere. Non per ricevere. Ma per esprimerti. È un atto di verità interiore, un’educazione affettiva che riprende contatto con il tuo Sé reale, come lo definiva Donald Winnicott: la parte viva, spontanea e non adattata della tua identità.

Ma il bisogno di essere visti non si disattiva con uno sforzo razionale. Ha bisogno di essere trasformato. Come? Coltivando relazioni vere. Quelle in cui puoi mostrarti senza filtri, senza strategie, senza performance. Quelle in cui l’altro ti guarda negli occhi e ti vede anche nei tuoi silenzi. Relazioni così hanno un potere terapeutico: ridanno consistenza all’identità, confermano che si può esistere anche senza piacere a tutti.

Solo quando ci sentiamo visti davvero da qualcuno, possiamo iniziare a smettere di rincorrere sguardi casuali.

Quello che stai cercando, forse non è su uno schermo

Non c’è niente di sbagliato nel desiderare di piacere. Siamo esseri relazionali, nati per essere riconosciuti. Ma quando il bisogno di essere approvati diventa l’unico modo per sentirci validi, allora qualcosa si spezza dentro. E quel qualcosa va ascoltato, accolto, e soprattutto compreso.

Nel mio libro Il mondo con i tuoi occhi, parlo proprio di questo: di quanto abbiamo adattato la nostra identità per rispondere ai canoni esterni, perdendo il contatto con ciò che siamo veramente. I like, i filtri, le aspettative sociali… tutto questo non fa che allontanarci da quella felicità autentica che nasce non dal piacere, ma dall’essere in contatto profondo con sé stessi.

Ti invito a rileggerti, a chiederti cosa cerchi davvero, e a coltivare uno sguardo più gentile verso la tua unicità. Perché la verità è che non hai bisogno di piacere a tutti. Hai solo bisogno di sentirti intero. Per immergerti nella lettura e farne tesoro, puoi ordinarlo qui su Amazon oppure in qualsiasi libreria

A cura di Ana Maria Sepe, psicologo e fondatrice della rivista Psicoasvisor
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