C’è una verità silenziosa che accompagna molte persone nel corso della loro vita: quella di continuare a cercare negli occhi degli altri una conferma, un sì sussurrato, uno sguardo che dica “sei abbastanza”, anche quando razionalmente si vorrebbe fare a meno di tutto questo. È una forma di dipendenza spesso ben mascherata: si veste di autonomia, si racconta con parole forti e indipendenti, eppure, sotto sotto, si nutre del bisogno disperato di piacere, di essere accettati, compresi, validati.
Ma da dove nasce questo bisogno di approvazione? Perché ci segue anche quando diventiamo adulti, anche quando giuriamo a noi stessi di essere finalmente liberi? La risposta non è semplice, ma è profondamente umana.
L’approvazione come impronta affettiva
Il bisogno di approvazione affonda le radici nell’infanzia, quando l’identità ancora non esiste e il senso di sé si forma nello sguardo dell’altro. Nei primi anni di vita, il bambino non sa chi è: lo scopre attraverso le reazioni di chi lo accudisce. Se sorride e la madre sorride, allora quel gesto è “giusto”. Se piange e nessuno risponde, forse quel dolore “non vale”. La mente in formazione apprende che il valore delle emozioni e dei comportamenti è determinato da come gli altri reagiscono.
E così nasce un sistema di credenze molto potente: “se mi approvano, valgo”. E, in modo sotterraneo, anche l’idea opposta: “se non mi approvano, non esisto”.
Questo meccanismo è così pervasivo da diventare invisibile. Anche da adulti, quando crediamo di essere liberi, molte delle nostre scelte restano condizionate da un’eco primitiva: quella della ricerca del consenso, della conferma, dell’approvazione come sostegno all’identità.
Il ruolo dell’attaccamento
La teoria dell’attaccamento, formulata da Bowlby e poi ampliata da numerosi ricercatori, spiega con chiarezza come la qualità delle prime relazioni influenzi la percezione di sé e la regolazione emotiva.
Un bambino cresciuto in un contesto accogliente, dove le emozioni vengono contenute e i bisogni riconosciuti, impara gradualmente che il proprio valore non dipende dall’approvazione altrui, ma da un nucleo interno stabile. Al contrario, chi ha avuto figure di attaccamento incoerenti, svalutanti o eccessivamente critiche, sviluppa un senso di sé instabile e fortemente condizionato dal giudizio esterno.
In questi casi, l’approvazione diventa una forma di ossigeno psichico. Il pensiero di deludere, essere criticati, non essere visti può generare un’angoscia simile alla paura di non esistere.
La costruzione del falso Sé
La psicoanalisi, in particolare attraverso le riflessioni di Donald Winnicott, ci parla del concetto di falso Sé: una struttura psichica che si costruisce come adattamento alle aspettative dell’ambiente. Quando un bambino si sente amato solo a condizione di essere “bravo”, “tranquillo”, “intelligente” o “utile”, può sviluppare un falso Sé che lo protegge da un eventuale rifiuto.
Questo falso Sé sopravvive anche nell’età adulta, diventando una maschera sociale estremamente funzionale, ma emotivamente sterile. Chi lo indossa spesso viene percepito come competente, amabile, affidabile. Ma dentro sente un vuoto sottile: quello di non essere mai amato per quello che è veramente. E così continua a rincorrere l’approvazione, anche quando dice di non volerla più.
Perché il vero Sé – quello spontaneo, imperfetto, fragile – è stato troppo spesso ignorato, umiliato o punito.
Neurobiologia del bisogno di approvazione
Non è solo un fatto psicologico: il bisogno di approvazione ha un forte fondamento neurobiologico. Gli esseri umani sono strutturati per cercare la connessione sociale. Il nostro cervello ha circuiti specifici dedicati alla percezione del rifiuto e della ricompensa sociale.
Quando riceviamo approvazione o gratificazione sociale, il nostro cervello rilascia dopamina, il neurotrasmettitore associato al piacere e alla motivazione. Questo significa che ogni “mi piace”, ogni sguardo approvante, ogni sorriso ricevuto attiva le stesse aree cerebrali che si attivano per una ricompensa fisica.
Al contrario, il rifiuto – anche quello simbolico – attiva il sistema limbico, in particolare l’insula anteriore e la corteccia cingolata anteriore, le stesse aree coinvolte nel dolore fisico. È per questo che la disapprovazione può far male davvero, a livello corporeo, e non solo emotivo.
Quando l’approvazione diventa una gabbia
Il problema non è desiderare approvazione in sé: il riconoscimento sociale è una componente fondamentale del benessere umano. Diventa però disfunzionale quando il proprio valore personale inizia a dipendere esclusivamente da essa. Chi è intrappolato in questa dinamica può vivere:
- Paura costante del giudizio
- Difficoltà a prendere decisioni in autonomia
- Bisogno di compiacere tutti, anche a costo di annullarsi
- Ansia sociale mascherata da perfezionismo
- Sensazione cronica di non essere mai “abbastanza”
Il paradosso è che più cerchi approvazione, meno ti senti autentico. E meno ti senti autentico, più ti senti vuoto. Un circolo vizioso che consuma energia psichica e produce una forma silenziosa di alienazione da sé.
La trappola dell’approvazione moderna
Viviamo in un’epoca in cui l’approvazione è diventata quantificabile: like, follower, commenti, visualizzazioni. Le metriche sociali hanno sostituito il contatto umano, amplificando a dismisura la sensibilità al giudizio esterno.
In questo contesto, anche chi si credeva immune alla ricerca di approvazione si ritrova coinvolto: basta un contenuto che non viene visto, un post ignorato, una frase fraintesa per risvegliare il bisogno profondo di “andare bene”, di essere accolti.
La mente registra questi segnali digitali come indicatori di valore. E anche se ci diciamo che non ci importa, il nostro sistema nervoso risponde comunque. In parte, è come se fossimo tornati bambini, alla ricerca dello sguardo di chi ci dice che valiamo qualcosa.
Dietro il bisogno di approvazione: la paura del rifiuto
In profondità, ciò che mantiene in vita il bisogno di approvazione è una paura più grande: quella di essere rifiutati. E il rifiuto, nell’inconscio, è spesso vissuto come una forma di annientamento psicologico.
Molti di noi hanno imparato a sopravvivere adattandosi. Hanno compreso che per essere amati dovevano nascondere parti di sé, essere utili, performanti, innocui, belli, disponibili. Questo apprendimento diventa una forma di identità secondaria, una corazza relazionale che ci accompagna anche quando smettiamo di averne bisogno.
Lasciarla andare significa esporsi. Significa rischiare di non piacere, di deludere, di essere lasciati. Ma è anche l’unico modo per incontrare davvero l’altro e, prima ancora, incontrare noi stessi.
Come si guarisce dal bisogno di approvazione?
Liberarsi dal bisogno patologico di approvazione non significa diventare indifferenti al giudizio altrui, ma riconoscere quando questo giudizio condiziona la nostra autenticità. Ecco alcune tappe fondamentali del processo di guarigione:
Riconoscere le radici infantili del bisogno
Osservare da dove nasce questo desiderio, senza giudicarlo. Quali erano le condizioni per sentirti amato da piccolo? Cosa dovevi “fare” per essere visto?
Distinguere la voce interna dalla voce esterna
Molto spesso interiorizziamo lo sguardo dell’altro: ci critichiamo come ci criticava un genitore, ci spingiamo come ci spingeva la scuola, ci misuriamo come ci misuravano gli altri.
Lavorare sull’autocompassione
Invece di rincorrere l’approvazione esterna, impariamo a coltivare un senso interno di valore. L’autocompassione non è autocommiserazione, ma il riconoscimento gentile della propria umanità.
Esporsi al rischio di deludere
Scegliere, ogni tanto, di dire un “no” che fa tremare. Di non spiegarsi. Di non giustificarsi. Di rimanere fedeli a sé stessi, anche se l’altro si allontana.
Coltivare relazioni nutrienti
Il bisogno di approvazione nasce in relazioni disfunzionali, ma può essere guarito in relazioni sane, dove non si deve “fare” qualcosa per essere accolti, ma semplicemente essere.
Non serve smettere di aver bisogno, serve smettere di cercarsi dove ci si perde
La vera libertà non è smettere di aver bisogno dell’altro, ma smettere di sacrificare sé stessi per piacergli. È imparare a rimanere connessi senza perdere il contatto con la propria autenticità. Quando smettiamo di rincorrere approvazione, non diventiamo più duri. Diventiamo più veri. E più capaci di amare.
Se questo bisogno ti ha fatto sentire spesso inadeguato, se ti sei perso negli occhi degli altri dimenticando cosa c’era nei tuoi, sappi che guarire è possibile. Ma non è un atto di forza. È un atto di verità. È il momento in cui smetti di chiedere a chiunque: “Sto andando bene?” e inizi a chiederti: “Io, con me, come sto?”
Nel mio libro “Il mondo con i tuoi occhi” parlo proprio di questo: del ritorno a sé, del bisogno di smettere di vivere secondo aspettative altrui, e di come costruire un’identità che non ha bisogno di essere approvata, ma solo riconosciuta… da te. Perché solo tu puoi essere il tuo specchio più sincero. Il mio libro è disponibile in libreria e qui su Amazon
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