C’è un momento, spesso silenzioso, che molte persone vivono ogni giorno davanti allo specchio. Un gesto che sembra semplice, automatico, ma che in realtà può contenere un intero mondo interiore: truccarsi. Passare un filo di eyeliner, scegliere un rossetto, coprire un’imperfezione, illuminare uno sguardo stanco… sono gesti che, per qualcuno, rappresentano una forma d’arte, per altri un’abitudine. Ma a livello psicologico, cosa significa davvero?
Truccarsi è un atto di trasformazione. E ogni trasformazione porta con sé un messaggio, spesso inconscio, su come ci vediamo e su come desideriamo essere visti. Dietro un gesto così quotidiano può nascondersi un bisogno di protezione, una ferita, una dichiarazione di potere, un richiamo all’infanzia o persino un atto di sopravvivenza emotiva.
Il trucco come rituale di presenza a sé stessi
In molte culture, il trucco è stato storicamente associato a riti di passaggio, momenti importanti, trasformazioni. Non è raro che anche oggi, nei momenti in cui abbiamo più bisogno di sentirci “presenti a noi stessi” – un colloquio di lavoro, una giornata difficile, una ricorrenza – sentiamo il bisogno di truccarci. È un modo per dirci: “Ci sono. Mi sto prendendo cura di me”.
Questo gesto può diventare un ancoraggio identitario. Una coccola. Una forma di auto-contenimento. In psicologia, parliamo spesso della funzione regolatoria dei rituali quotidiani: servono a regolare le emozioni, a creare una continuità tra il dentro e il fuori, a costruire senso di stabilità. In questo senso, truccarsi può essere paragonato al mettersi una “seconda pelle”: ci aiuta a sentirci protetti nel mondo.
Quando il trucco diventa armatura
Alcune persone non riescono ad uscire di casa senza trucco. Non si tratta solo di vanità, ma spesso di un bisogno più profondo: quello di non sentirsi esposte. C’è chi si sente “nuda” senza un velo di fondotinta, chi non sopporta il proprio riflesso senza mascara. Qui il make-up diventa una vera e propria difesa narcisistica: uno scudo che protegge il Sé fragile dallo sguardo dell’Altro.
Nel linguaggio psicoanalitico, il trucco può essere interpretato come una forma di difesa dell’immagine dell’Io. Quando il volto viene percepito come inadeguato, imperfetto o troppo vulnerabile, il make-up interviene a “riparare” quella ferita narcisistica. Ma non la guarisce: la copre, la nasconde, la rende più tollerabile. Il rischio, però, è che ci si abitui a non mostrarsi mai “per come si è”. E allora il trucco smette di essere una scelta e diventa una necessità.
Specchio e desiderio: il volto come luogo simbolico
Il viso è il nostro biglietto da visita. Ma è anche il luogo dove abitiamo simbolicamente: ci identifichiamo nel nostro volto, più che in qualsiasi altra parte del corpo. È il volto che riceve lo sguardo dell’altro, ed è attraverso il volto che cerchiamo approvazione, affetto, riconoscimento. Lacan direbbe che il volto è il luogo dello specchio: è lì che si forma, nell’infanzia, l’immagine di sé.
Truccarsi, allora, può essere un tentativo di modificare lo specchio. Se non riesco ad amarmi così come sono, posso almeno provare a piacermi così come appaio. E se riesco a piacere all’altro, forse – attraverso il suo sguardo – riuscirò finalmente a piacermi anch’io.
Ma il rischio è di rimanere intrappolati in un gioco di riflessi. Se ci affidiamo solo al trucco per sentirci accettabili, non stiamo costruendo un’identità solida, ma solo una maschera. E ogni maschera, prima o poi, si crepa.
Make-up e autostima: tra empowerment e dipendenza dall’immagine
In alcuni casi, truccarsi può rappresentare un atto di empowerment. Un gesto intenzionale, consapevole, che veicola potere personale, identità, libertà. Il trucco in questo caso diventa un mezzo, non un fine. È lo strumento con cui comunico chi sono, come mi sento, come voglio essere percepita.
Ma quando l’autostima dipende esclusivamente dal volto truccato, si entra in un terreno fragile. Significa che il valore personale è subordinato alla performance estetica. E ogni smagliatura, occhiaia o brufolo diventa una minaccia al valore di sé. Il viso non è più casa, ma vetrina. Un luogo da esporre, non da abitare.
Chi si trucca per nascondere, spesso si è sentito inadeguato fin da piccolo. Magari ha ricevuto messaggi espliciti o impliciti che l’aspetto fisico è ciò che conta. Magari ha imparato che la bellezza porta amore, che il compiacimento è la strada più breve per ricevere affetto. E allora truccarsi diventa un modo per meritare attenzione, per guadagnarsi uno sguardo. Un atto d’amore condizionato.
Il trucco che cura e il trucco che consuma
Truccarsi può essere terapeutico. Può aiutare a ricostruire la propria immagine dopo una malattia, una perdita, una depressione. Può ridare forma al volto quando dentro ci si sente sfaldati. Può aiutare a riprendersi uno spazio di dignità, come accade in molti laboratori di make-up therapy nei reparti oncologici o psichiatrici.
Ma c’è anche un trucco che consuma. Quello che nasce da un odio per il proprio volto naturale. Quello che fa sentire sbagliate al risveglio. Quello che impedisce di dormire con qualcuno per paura di essere visti senza trucco. Quello che si basa su una forma di auto-squalifica continua, come se si fosse accettabili solo quando si è “sistemati”.
In psicoterapia, spesso emerge quanto la cura dell’immagine sia legata al rispecchiamento primario: se da piccoli siamo stati guardati con amore, tenerezza e accettazione, interiorizziamo l’idea di essere degni così come siamo. Ma se lo sguardo ricevuto era critico, distratto o assente, allora cercheremo sempre di “migliorarci” per essere degni. Anche truccandoci fino a non riconoscerci più.
Truccarsi per giocare, non per nascondersi
Ci sono però persone che si truccano per giocare. Per esprimere creatività, per osare, per divertimento. In questi casi il trucco diventa linguaggio, possibilità, libertà. E qui il make-up non è una maschera, ma un prolungamento del Sé. È il volto che si fa tela, non corazza.
La differenza sta nell’intenzione: mi sto truccando per aggiungere qualcosa alla mia identità, o per cancellare chi sono davvero? Sto giocando con i colori, o sto coprendo il dolore? Sto valorizzando, o sto nascondendo?
Quando il trucco è un gioco consapevole, può essere persino liberatorio. Ma quando nasce dalla paura del giudizio, dall’insicurezza cronica o da una ferita narcisistica non elaborata, rischia di imprigionare.
Il make-up nella società dell’apparenza
Viviamo in un mondo che ci spinge a essere sempre “presentabili”. Le immagini che ci circondano – dai social alla pubblicità – mostrano visi perfetti, lucenti, levigati. Eppure, nella vita reale, tutti abbiamo occhiaie, pori, asimmetrie. Il trucco allora diventa un tentativo di avvicinarci a quegli standard irraggiungibili.
Ma questo alimenta un circolo vizioso: più ci confrontiamo con volti filtrati, più ci sentiamo inadeguati. Più ci sentiamo inadeguati, più abbiamo bisogno di truccarci. E più ci trucchiamo, più ci allontaniamo dalla nostra immagine reale.
In questo senso, truccarsi può diventare anche un modo per “adattarsi” alle aspettative sociali. Ma è davvero questo che vogliamo? O forse potremmo cominciare a riscrivere il significato del trucco, facendone uno strumento a servizio di noi, e non viceversa?
Un invito alla tenerezza verso il proprio volto
C’è qualcosa di profondamente rivoluzionario nel guardarsi allo specchio e dirsi: “Anche così, vado bene”. Con o senza trucco. Con le luci buone o quelle spietate. Con le tracce della vita sul volto.
Truccarsi non è un male. Ma può diventarlo se ci allontana dalla possibilità di amarci per intero: sia nel volto che vogliamo mostrare, sia in quello che preferiremmo nascondere.
La vera bellezza non sta nella perfezione, ma nella coerenza tra come ci sentiamo e come ci raccontiamo al mondo. E se il trucco serve a raccontarci meglio, allora ben venga. Ma se serve a nasconderci, forse è il momento di chiederci cosa non ci sentiamo ancora pronti a mostrare.
Sotto il trucco, la verità
Ogni volta che ti trucchi, fermati un attimo. Chiediti: lo sto facendo per esprimermi o per nascondermi? Per piacermi o per essere accettata?
La risposta non va giudicata, solo ascoltata. Perché sotto ogni gesto, anche il più piccolo, si nasconde una verità. E spesso, dietro un velo di fondotinta, si cela la nostra storia emotiva: quella bambina che voleva sentirsi bella agli occhi della mamma, quell’adolescente che si sentiva invisibile, quell’adulta che ha imparato a trasformare il dolore in bellezza. In fondo, il make-up può essere un linguaggio. E ogni linguaggio può raccontare o censurare. Sta a noi scegliere se usarlo per decorare una maschera o per onorare una verità.
E se oggi senti che il tuo volto parla un linguaggio che non ti somiglia più… sappi che si può tornare a riscrivere quel racconto. Non si tratta di togliere il trucco, ma di riconoscere perché lo indossi. Si tratta di guardarsi allo specchio con occhi nuovi, più morbidi, più veri. Occhi che non cercano la perfezione, ma la presenza.
Nel mio libro “Il mondo con i tuoi occhi“, accompagno il lettore proprio in questo viaggio: imparare a smascherare i condizionamenti interiorizzati, le immagini di sé costruite per compiacere, per sopravvivere, per farsi amare. E ritrovare uno sguardo più autentico, finalmente libero. Uno sguardo che non giudica, non pretende, non nasconde. Ma abbraccia. Dentro e fuori. Il mio libro è disponibile in libreria e qui su Amazon
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Ti aspetto lì per continuare il viaggio.