Come un vissuto difficile lascia segni nel sistema nervoso

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Dottoressa in psicologia, esperta e ricercatrice in psicoanalisi. Scrittrice e fondatore di Psicoadvisor

Ti sei mai chiesto perché certe ferite del passato sembrano continuare a vivere dentro di te, anche quando la tua mente vorrebbe lasciarle andare?

Molte persone credono che il dolore emotivo appartenga solo alla sfera psicologica, come se rimanesse confinato nei ricordi o nei pensieri. Eppure, la verità è che ogni vissuto – soprattutto quando doloroso o traumatico – lascia una traccia concreta nel nostro corpo, e in particolare nel nostro sistema nervoso. Non si tratta di una metafora poetica: neuroscienze e psicoanalisi ci mostrano come i ricordi difficili si radicano in reti neurali, schemi di reazione, percezioni corporee che ci accompagnano ben oltre l’evento originario.

Un’infanzia segnata da assenze, svalutazioni, rigidità o imprevedibilità non svanisce “solo perché è passato del tempo”: ciò che è stato appreso allora come modalità di sopravvivenza diventa il linguaggio del nostro corpo oggi. Ecco perché, a distanza di anni, possiamo reagire con ansia anche davanti a situazioni neutre, o sentire un vuoto profondo pur avendo accanto persone che ci amano.

I segni del dolore sul sistema nervoso

In questo articolo esploreremo cinque segni profondi che un vissuto difficile lascia nel sistema nervoso. Non sono “difetti” o “debolezze”, ma la testimonianza di una storia che il corpo continua a raccontare, spesso in silenzio. E comprenderli è il primo passo per smettere di sentirsi sbagliati e iniziare a costruire un dialogo diverso con se stessi.

1. Iperattivazione costante: il cervello che non smette di vigilare

Chi ha vissuto ambienti imprevedibili o spaventosi sviluppa un sistema nervoso in perenne allerta. È come se l’amigdala, il “radar” delle minacce, fosse rimasta accesa troppo a lungo e faticasse a spegnersi. Questo si traduce in un corpo che non riesce mai a rilassarsi del tutto: insonnia, tensione muscolare, ipersensibilità ai rumori, facilità a sobbalzare.

Dal punto di vista psicoanalitico, possiamo dire che la psiche non ha mai avuto la possibilità di affidarsi: l’altro, che avrebbe dovuto essere base sicura, è stato invece fonte di ansia. E allora il bambino, pur di sopravvivere, ha imparato a vigilare da solo. Quel meccanismo resta attivo anche nell’adulto, che si sente costantemente sotto pressione, come se da un momento all’altro potesse arrivare qualcosa di spiacevole.

2. Ipoattivazione: il corpo che si spegne per non sentire

All’estremo opposto, c’è chi reagisce al dolore “staccando la spina”. Il sistema nervoso, sovraccarico, sceglie la via dell’ipoattivazione: rallentamento, apatia, dissociazione, sensazione di vivere a metà. È la strategia di chi, da piccolo, non poteva né fuggire né lottare: restava solo la possibilità di anestetizzarsi.

Neuroscientificamente, è il sistema parasimpatico che prevale in modo eccessivo, bloccando l’energia vitale. Psicoanaliticamente, è il “ritirarsi dentro” come forma di protezione, come se l’inconscio dicesse: “Se non sento, non soffro”. Il prezzo, però, è alto: si perde anche la capacità di gioire pienamente, di essere presenti nelle relazioni.

3. Schemi ripetitivi di risposta emotiva

Un vissuto difficile crea scorciatoie neurali: il cervello impara a reagire sempre nello stesso modo, anche quando non è necessario. Così, chi ha sperimentato rifiuto può interpretare un silenzio neutro come abbandono, chi ha vissuto svalutazione può sentire ogni critica come devastante.

Le neuroscienze ci dicono che questo avviene perché la memoria implicita e quella emotiva lavorano in modo rapido e automatico, molto più veloce della razionalità. La psicoanalisi aggiunge che, in realtà, non è l’adulto che reagisce: è il bambino ferito che prende il sopravvento. Per questo certi conflitti di coppia, certe paure sul lavoro, certe ansie sociali sembrano sproporzionate: sono il passato che continua a riattivarsi nel presente.

4. Disregolazione affettiva: il pendolo tra troppa intensità e vuoto

Uno dei segni più tipici è l’incapacità di regolare le emozioni. Chi ha avuto un vissuto difficile può passare da stati di iperemozione (ansia, rabbia, panico) a stati di vuoto emotivo. È come se il pendolo oscillasse senza trovare un centro.

Il sistema nervoso fatica a modulare: la corteccia prefrontale non riesce a “contenere” le scariche limbiche, e l’individuo si sente in balia delle proprie emozioni. Psicoanaliticamente, potremmo dire che manca l’esperienza precoce di un genitore che, con la sua presenza stabile, insegnava a dare un nome e una forma alle emozioni. Senza quel contenimento, l’adulto non ha imparato a “stare con sé” nei momenti di tempesta.

5. Somatizzazioni persistenti

Il corpo diventa il portavoce di ciò che non è stato detto. Mal di testa cronici, dolori addominali, disturbi digestivi, tachicardia, mani sudate: non sono semplici coincidenze, ma espressioni di un sistema nervoso che non ha mai trovato pace.

La scienza conferma che l’asse ipotalamo-ipofisi-surrene, quando cronicamente attivato, influisce sull’immunità, sull’apparato digerente, persino sulla sensibilità al dolore. Ma la psicoanalisi aggiunge un tassello fondamentale: il sintomo è un linguaggio. Ogni dolore fisico racconta una storia non ascoltata, un vissuto che non ha trovato parola e cerca un varco attraverso il corpo.

Oltre i segni: tre riflessioni necessarie

Quando parliamo di ferite emotive e dei segni che lasciano nel sistema nervoso, rischiamo di fermarci solo al dolore e alle difficoltà che comportano. Ma il punto non è soltanto riconoscere i sintomi: è andare oltre. Perché ogni segno, per quanto incisivo, non è un destino già scritto, ma una possibilità di trasformazione.
Ecco allora tre riflessioni fondamentali per comprendere meglio cosa accade dentro di noi e, soprattutto, per intravedere la via di una vera guarigione.

1. Il corpo non dimentica, ma può trasformare

Un vissuto difficile imprime tracce biologiche ed emotive profonde. Il corpo non dimentica perché ogni esperienza, soprattutto se connotata da paura o dolore, si traduce in circuiti neuronali, in memorie implicite che restano operative anche quando la coscienza le ha rimosse. Tuttavia, la memoria non è mai un archivio statico. La neuroplasticità – la capacità del cervello di modificare le proprie connessioni – ci insegna che nulla è inciso per sempre: le sinapsi possono essere rafforzate o indebolite, nuove reti possono affacciarsi e prendere il posto di quelle radicate nel passato.

In termini psicoanalitici, possiamo dire che il lavoro interiore, quando sostenuto da una relazione di fiducia, permette di ridare forma a ciò che era rimasto congelato. Ciò che un tempo era un fantasma persecutorio può diventare un ricordo integrato, meno minaccioso. Non si cancella la ferita, ma la si riconsegna a un contesto nuovo, capace di darle senso e di restituire al soggetto la possibilità di non essere più interamente dominato da essa.

2. Non basta la consapevolezza razionale

Molte persone arrivano a terapia con un racconto lineare della propria sofferenza: sanno di avere avuto un’infanzia difficile, riconoscono i traumi, comprendono razionalmente i legami tra passato e presente. Eppure, continuano a star male. Questo accade perché la consapevolezza cognitiva non basta. Conoscere il proprio dolore “con la testa” non equivale a trasformarlo “nel corpo”.

Le neuroscienze mostrano che le memorie traumatiche sono custodite in circuiti impliciti, che si attivano al di là della volontà cosciente. Un semplice odore, un tono di voce, uno sguardo possono riattivare stati emotivi che scavalcano la razionalità. È per questo che serve un’esperienza emotiva correttiva: vivere, nel presente, situazioni di sicurezza che contraddicano la previsione di pericolo scritta dal passato.

La psicoanalisi aggiunge un tassello ulteriore: la consapevolezza autentica non è solo sapere, ma è integrare. Significa lasciar emergere emozioni rimosse, tollerarle, dar loro parola. È il passaggio dal pensare al sentire, dal capire al vivere, dal ricordare al rielaborare.

3. Non sei il tuo dolore, ma ciò che puoi farne

Il vissuto difficile ha lasciato segni nel tuo sistema nervoso, sì, ma quei segni non esauriscono la tua identità. Essere stati esposti al dolore non significa essere condannati a ripeterlo per sempre. Ciò che ti definisce non è la ferita, ma la possibilità che hai di trasformarla in un racconto diverso.

Le neuroscienze ci ricordano che ogni esperienza attuale può riorganizzare le reti neurali, creando memorie alternative. La psicoanalisi ci ricorda che la soggettività non è mai un dato fisso, ma un processo continuo di costruzione. Questo significa che puoi scegliere di non identificarti con il tuo trauma: puoi imparare a guardarlo come una parte della tua storia, non come l’intero della tua vita.

Il dolore diventa allora materiale trasformativo. Può renderti più sensibile, più consapevole, più capace di empatia verso gli altri e verso te stesso. Non sei le tue reazioni automatiche, non sei le tue paure, non sei i tuoi sintomi: sei la persona che può decidere cosa fare di tutto questo, quale narrazione costruire, quali nuove possibilità aprire.

Una ferita non è una fine, ma un inizio possibile

Se ti sei riconosciuto in queste descrizioni, forse ti sei accorto di quanto il passato continui a vivere nel tuo presente. Forse ti sei sentito meno “sbagliato” e più “compreso”. Ed è proprio questo il primo passo: comprendere che i tuoi sintomi, i tuoi schemi, persino le tue difficoltà fisiche non sono difetti, ma testimonianze di una storia che merita di essere ascoltata.

Il sistema nervoso non mente: registra tutto, e lo fa per proteggerti. Ma proprio perché è plastico, può essere rieducato. La guarigione non avviene eliminando il passato, ma costruendo un presente che insegni al cervello e al cuore nuove possibilità.

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