Perché gli adolescenti si rifugiano nei social (e perché non è colpa dei cellulari)

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Dottoressa in psicologia, esperta e ricercatrice in psicoanalisi. Scrittrice e fondatore di Psicoadvisor

Ogni generazione ha avuto il suo “nemico” da additare: la televisione, i videogiochi, ora lo smartphone. Ma demonizzare i dispositivi è un modo comodo per non guardare dove fa più male: le condizioni emotive, relazionali e socioculturali che rendono i social un rifugio. Il cellulare non è la causa del malessere adolescenziale; lo amplifica, lo rende visibile, lo organizza. È un moltiplicatore, non il motore primo.

Per comprendere perché un ragazzo “vive” online, dobbiamo chiedere che bisogno sta cercando di soddisfare (appartenenza, riconoscimento, regolazione emotiva, esplorazione identitaria), con quali strumenti interiori (autostima, funzioni esecutive, capacità di tollerare l’incertezza), in quali contesti (famiglia, scuola, pari). Ed è qui che la psicologia, le neuroscienze e la psicoanalisi si incontrano e illuminano la scena.

I bisogni che spingono verso i social

Un adolescente non entra nei social solo per passare il tempo. Ci va per rispondere a domande profonde:

  • Chi sono?
  • Come vengo visto dagli altri?
  • A chi appartengo?
  • Valgo qualcosa?

I social offrono uno spazio di sperimentazione identitaria, di confronto, di appartenenza. Non sempre sano, ma immediato e accessibile. Se la vita offline non fornisce strumenti adeguati per rispondere a queste domande, la piazza digitale diventa inevitabilmente il rifugio più a portata di mano.

Perché il cervello degli adolescenti è più sensibile agli stimoli sociali

Il cervello degli adolescenti è programmato per reagire con forza a ciò che è nuovo, inaspettato e socialmente significativo. È una fase in cui i circuiti della ricompensa rilasciano dopamina in modo amplificato: un volto nuovo, un like ricevuto, un riconoscimento da parte dei pari hanno un impatto molto più intenso rispetto a quanto avviene in un adulto.

Non è un difetto, ma un assetto biologico che ha senso dal punto di vista evolutivo: serve a spingerli fuori dal nido familiare, a esplorare il mondo e a costruire nuove appartenenze. Ma questo “motore potente” convive con freni ancora acerbi: la corteccia prefrontale, che governa autocontrollo e pianificazione, matura solo molto più tardi. È così che gli adolescenti si trovano in un equilibrio precario, sospesi tra una forte spinta ad agire e la difficoltà a fermarsi.

E qui entra in gioco l’educazione emotiva. Una buona educazione emotiva nell’infanzia non modifica la biologia di base — il cervello adolescente avrà comunque freni prefrontali più lenti e un sistema limbico più reattivo — ma cambia profondamente il modo in cui quella biologia viene vissuta e gestita.

Un parallelismo aiuta a capirlo meglio:

  • Il sistema limbico è come un mare che in adolescenza si agita per natura, con onde alte e correnti forti.
  • La corteccia prefrontale sono le dighe e i porti che stanno ancora in costruzione.
  • L’educazione emotiva ricevuta da bambino è come avere imparato a nuotare, riconoscere le correnti e fidarsi della presenza di una barca di salvataggio.

Così, anche se il mare resta agitato, chi ha imparato a nuotare non si sente travolto, ma è più predisposto a fermarsi, a riflettere, a scegliere come muoversi. È questa la differenza che rende un adolescente meno “difficile”: non la mancanza di onde, ma la capacità di affrontarle

La spinta dopaminergica: non felicità, ma ricerca

Qui entra in gioco la dopamina. Spesso viene definita la “molecola della felicità”, ma in realtà non regala piacere: accende la ricerca. È la firma neurochimica che ci spinge a muoverci, a esplorare, a inseguire possibilità.

Questo spiega perché “scorrere ancora un po’” sembra sempre una buona idea: la dopamina alimenta il wanting (la spinta, l’anticipazione), non il liking (il piacere pieno e duraturo). Il cervello insegue possibilità, non soddisfazioni stabili. Ed è proprio questa tensione che i social hanno imparato a sfruttare: feed, storie e notifiche sono progettati per fornire micro-sorprese continue, piccoli stimoli capaci di alimentare costantemente l’aspettativa.

Il risultato è che si resta agganciati non perché si è felici, ma perché si è sempre “in cerca”. E quando questa ricerca non trova un terreno solido — legami, senso, compiti di realtà — rischia di trasformarsi in una ricerca infinita, senza approdo.

Rinforzo intermittente: la leva più potente

Il modello comportamentale è noto: non tutte le volte che pubblico, vengo ricompensato; ma a volte sì, e in grande (un reel che “esplode”, un commento della persona giusta, un ingresso nel gruppo). Questo schema a rapporto variabile è il più efficace nel mantenere il comportamento: l’incertezza della ricompensa aumenta l’aspettativa, quindi la dopamina, quindi il comportamento.
Ecco perché infinite scroll e feed personalizzati sono trappole eleganti: non danno qualcosa di certo, danno forse. E il forse è più potente del sicuro quando il cervello è allenato a cercare.

La trappola della chiusura cognitiva

Il nostro cervello non sopporta il dubbio a lungo. È programmato per cercare una risposta rapida, perché nell’evoluzione era più sicuro decidere subito — anche male — piuttosto che rimanere bloccati nell’incertezza. Questo bisogno di “chiudere” il pensiero viene chiamato chiusura cognitiva: meglio una risposta veloce, anche parziale, che il vuoto del non sapere.

Negli adolescenti, che vivono in pieno una fase di identità ancora fragile e mutevole, questo bisogno è fortissimo. È per questo che i social sono così attraenti: ogni like diventa una risposta immediata (“piaccio/non piaccio”), ogni messaggio letto o ignorato diventa un verdetto, ogni video breve sembra condensare una spiegazione “pronta all’uso”. Non importa se la risposta è superficiale: l’importante è che chiuda l’ansia dell’incertezza.

Il legame con l’infinite scroll

Ed è qui che entra in gioco l’infinite scroll. Se la chiusura cognitiva promette “risposte rapide”, lo scroll infinito fa l’esatto opposto: non chiude mai, lascia sempre aperta la possibilità che la prossima risposta sia subito dopo. È una combinazione micidiale: da un lato il cervello cerca di chiudere, dall’altro viene costantemente invogliato a restare aperto, perché forse la chiusura definitiva arriverà con il contenuto successivo.

Il risultato è che l’adolescente resta sospeso in un paradosso: vuole mettere fine al dubbio, ma continua a scorrere perché spera che la prossima immagine, il prossimo video, il prossimo commento gli diano la risposta definitiva. E intanto non chiude mai davvero.

Non è colpa dei cellulari: cosa amplificano davvero

I cellulari non creano i problemi: li riflettono e li amplificano. Sono come uno specchio: non inventano il volto che ci restituiscono, ma lo rendono più evidente. A volte lo ingrandiscono, a volte lo distorcono, sempre lo rendono impossibile da ignorare.

1. Lo specchio che amplifica la fragilità

Un’insicurezza che un tempo restava invisibile oggi si accende sullo schermo: un like che manca, un commento crudele, una chat silenziosa. È come se lo specchio digitale puntasse un faro su quella piccola crepa interiore, facendola sembrare una frattura enorme.

2. Lo specchio che accelera i riflessi

Un tempo la reputazione, l’esclusione o la popolarità si costruivano lentamente. Ora lo specchio dei social restituisce immagini in tempo reale: nel giro di pochi minuti un errore può diventare pubblico, un video può esplodere, un giudizio può rimbalzare a centinaia di persone. Lo specchio non lascia tempo per pensare: costringe a reagire subito.

3. Lo specchio che sostituisce presenze mancanti

Se mancano occhi adulti che sappiano contenere e rispecchiare davvero, lo specchio digitale prende il loro posto. Diventa compagnia quando si è soli, sedativo quando si è ansiosi, misura del proprio valore quando dentro non ci sono ancora basi solide. Lo specchio non inventa ciò che manca, ma lo nasconde dietro una superficie luminosa.

Ecco perché pensare che la soluzione sia “togliere lo specchio” è illusorio. Spegnere lo smartphone senza guardare a ciò che riflette equivale a coprire lo specchio con un telo, fingendo che l’immagine non esista. Ma il volto, con le sue fragilità, resta lo stesso.

Il cellulare non è la malattia. È il riflesso che mostra dove fa male. Se ci limitiamo a rompere lo specchio, non curiamo la ferita: la rendiamo solo invisibile, e quindi più difficile da comprendere e trasformare.

Dal sintomo alla radice

L’uso eccessivo dei social è un sintomo. Il vero nodo è: cosa manca nella vita del ragazzo che lo spinge a rifugiarsi lì dentro?. La risposta non è la tecnofobia, né il controllo cieco. È la costruzione di alternative: relazioni solide, educazione emotiva, spazi dove poter fare esperienza vera di sé. È aggiungere mondo, non sottrarre schermi.

Non è il cellulare: è la felicità che manca

Se guardiamo con onestà alla questione dei social, ci accorgiamo che il vero nodo non è tecnologico, ma emotivo. Un adolescente non si rifugia nello smartphone per pigrizia o per vizio: lo fa perché non ha ancora imparato a riconoscere, nominare e contenere ciò che sente. Perché spesso nessuno gli ha insegnato che la paura, la noia, l’ansia, la vergogna possono essere accolte, attraversate, trasformate.

Ecco perché parlo di educazione emotiva come dell’unica vera “cura preventiva”: non un accessorio pedagogico, ma un fondamento di salute psichica e relazionale. Un ragazzo che impara a leggere le proprie emozioni non ha bisogno di anestetizzarle nello scroll infinito. Un ragazzo che sa dare nome ai suoi stati interni non cerca compulsivamente fuori uno specchio. Un ragazzo che si sente riconosciuto e contenuto non vive il like come unica misura del proprio valore.

Il bisogno di fare educazione emotiva

La felicità — e qui uso questo termine con tutta la sua densità psicologica, non come slogan — non è un traguardo che si raggiunge eliminando ciò che “fa male”. Non è lo smartphone spento, non è la perfezione a scuola, non è l’amore senza delusioni. La felicità accade quando impariamo a stare dentro la complessità della nostra vita emotiva senza scappare, senza giudicarci, senza cercare scorciatoie.

Per questo ho voluto intitolare il mio nuovo libro “Lascia che la felicità accada – Lezioni di educazione emotiva per vivere e viversi meglio” (Rizzoli, uscita 28 ottobre 2025, già in preorder). Perché la felicità non si costruisce imponendosi obiettivi irrealistici, né inseguendo immagini sociali. Si lascia accadere quando finalmente impariamo a non opporci alle emozioni, a non reprimerle, a non confonderle con fragilità.

L’educazione emotiva è la vera risposta alle fragilità che oggi osserviamo nei nostri ragazzi

E’ la bussola che permette di orientarsi anche in mezzo alla tempesta digitale, è il terreno che consente di trasformare i social da rifugio a semplice strumento.

E la verità è che non serve solo agli adolescenti. Serve a tutti noi. Perché anche gli adulti faticano a reggere il vuoto, la mancanza, la solitudine. Anche noi cerchiamo rifugio in scorrimenti infiniti — a volte in uno schermo, a volte in relazioni, a volte nel lavoro. L’educazione emotiva è la radice comune che può liberarci da tutte queste forme di fuga.

Lascia che la felicità accada” non è un manuale contro i cellulari. È un invito a tornare al cuore delle cose: alle emozioni come guida, come materia viva che ci permette di sentirci finalmente interi. È un libro che vuole ricordarci che la felicità non è una meta da inseguire, ma una condizione che sboccia quando impariamo a vivere e a viverci meglio.

E allora sì, possiamo dire che il problema non sono i cellulari. Il vero problema è che non abbiamo insegnato abbastanza — a noi stessi e ai nostri figli — come abitare le emozioni. Perché solo quando impariamo a stare con ciò che proviamo, possiamo finalmente smettere di scappare. E lasciare che la felicità, semplicemente, accada. Il libro è già disponibile a questo link su Amazon per il preorder…ti aspetto tra le pagine

E se ti va, seguimi sul mio profilo Instagram:  @anamaria.sepe.
Ti aspetto lì per continuare il viaggio