
Ci sono parole che sembrano piccole, automatiche, quasi insignificanti. Eppure, quelle stesse parole portano dentro di sé un’eredità invisibile: raccontano l’infanzia che hai vissuto, le relazioni da cui sei stato forgiato, il modo in cui sei stato guardato – o non sei stato guardato. Il linguaggio quotidiano, spesso, custodisce più verità di quante ne sappiamo sopportare.
Crescere con un genitore anaffettivo non significa crescere senza un tetto, senza cibo o senza regole
Significa crescere in una casa dove mancava un ingrediente fondamentale: la sintonizzazione emotiva. Non parliamo quindi dell’assenza di gesti pratici, ma di qualcosa di più sottile e invisibile: lo sguardo che non ti riconosce, la carezza che non arriva, il silenzio davanti alle tue lacrime, la mancanza di quella presenza che ti insegna che i tuoi sentimenti sono legittimi, nominabili, degni di essere ascoltati.
Un genitore anaffettivo può averti vestito, nutrito, portato a scuola. Ma forse non ti ha mai chiesto davvero: “Come ti senti?”. E così, da bambino, hai imparato presto che ciò che sentivi non aveva importanza, che era meglio nascondere, minimizzare, adattarsi.
Il risultato è che oggi, da adulto, il tuo linguaggio continua a parlare quella lingua antica. Ripeti frasi che non sono solo tue: sono il riflesso di quel vuoto affettivo che hai respirato fin da piccolo. Le dici “senza saperlo”, perché il corpo e la mente hanno imparato che era il modo migliore per sopravvivere.
Chi è un genitore anaffettivo?
Non basta dire “freddo” o “distaccato”: un genitore anaffettivo è qualcuno che, per proprie ferite o limiti, non riesce a entrare in risonanza con il mondo emotivo del figlio. Non si tratta solo di non dare abbracci: è l’assenza di ascolto emotivo, la mancanza di validazione, l’incapacità di contenere le emozioni altrui senza negarle o svalutarle.
Psicoanaliticamente, il bambino si trova davanti a uno specchio opaco: cerca un riflesso che non c’è. Questo genera la sensazione di non esistere davvero, di essere invisibile. La mente, allora, costruisce difese: diventa “adulta” troppo presto, si anestetizza, si adatta.
Dal punto di vista neuroscientifico, sappiamo che la mancata co-regolazione da parte del genitore porta a un’iperattivazione cronica dell’asse dello stress (cortisolo, adrenalina). Senza un adulto che calmi e contenga, il cervello del bambino resta in allarme. Questo allarme cronico incide sullo sviluppo del sistema limbico (amigdala, ippocampo) e sulle connessioni con la corteccia prefrontale, rendendo difficile, da adulti, riconoscere e gestire le emozioni.
Un genitore anaffettivo, dunque, non lascia “solo ricordi freddi”: lascia un’impronta biologica e psicologica che risuona in ogni parola che userai.
Il linguaggio come eredità invisibile
Perché le frasi che diciamo sono così rivelatrici? Perché il linguaggio non nasce nel vuoto: nasce dalle prime interazioni. Ogni volta che un bambino pronuncia “Mamma, ho paura” e riceve una risposta di accoglienza, il cervello memorizza che le emozioni possono essere nominate e accolte. Ogni volta che riceve indifferenza o rifiuto, impara il contrario: meglio tacere, meglio non disturbare.
Così, negli anni, si formano formule linguistiche automatiche. Frasi che diventano come “impronte digitali emotive”: si ripetono da sole, spesso senza che tu te ne accorga. Sono la traduzione in parole di ciò che non hai potuto vivere.
Le neuroscienze lo confermano: le frasi che usiamo spesso rafforzano determinati circuiti neurali. Se da piccolo hai imparato a dire “sto bene” anche quando non lo eri, quel circuito è diventato il tuo sentiero preferenziale. E oggi, in automatico, ti ritrovi a usarlo ancora.
Le frasi tipiche di chi è cresciuto con un genitore anaffettivo
Il linguaggio che usiamo quotidianamente non è mai casuale: è la rappresentazione simbolica delle esperienze affettive che abbiamo interiorizzato sin da bambini. Ogni parola, ogni formula ripetuta nel tempo, custodisce memorie invisibili: sono frammenti di ciò che abbiamo vissuto, del modo in cui siamo stati visti o ignorati, ascoltati o messi a tacere.
C’è chi impara presto a dire “sto bene” anche quando non lo è, chi si scusa per ogni cosa, chi evita di chiedere aiuto. Non sono semplici modi di dire: sono impronte emotive, segni lasciati da un’infanzia in cui le emozioni non hanno trovato accoglienza.
Crescere con un genitore anaffettivo non significa necessariamente crescere senza cure pratiche: potevi avere vestiti puliti, la merenda pronta, la cartella sistemata. Ma mancava qualcosa di più essenziale: la sintonizzazione emotiva. Il genitore anaffettivo non sa rispecchiare, non sa contenere, non sa farsi ponte tra ciò che senti e la tua possibilità di esprimerlo. Così impari a silenziarti, a ridurre la tua presenza, a renderti “leggero” per non pesare.
Con il tempo, queste strategie diventano frasi automatiche che portiamo nell’età adulta. Le diciamo senza pensarci, ma in realtà rivelano mondi interi: raccontano paure, mancanze, ferite. Sono il linguaggio di un bambino che non si è mai sentito davvero visto. Vediamo allora alcune delle più comuni, insieme al loro significato nascosto.
“Non voglio disturbare.”
Dietro queste tre parole c’è un mondo di paure antiche. Sono la voce di chi, da bambino, ha percepito che ogni richiesta di attenzione veniva vissuta come eccessiva, fastidiosa o addirittura irritante dal genitore. Crescendo, quella sensazione diventa convinzione: “Se chiedo, darò fastidio. Meglio rinunciare”.
Psicoanalisi: il bambino interiorizza l’idea di non avere diritto allo spazio emotivo, come se il proprio bisogno fosse una colpa.
Neuroscienze: rinunciare a chiedere riduce il rilascio di dopamina, la molecola che sostiene la motivazione. A lungo andare, questo produce una ridotta spinta ad agire e a credere nei propri desideri.
Esempio: immagina Laura, 35 anni. Al lavoro ha un dubbio su una procedura, ma invece di chiedere chiarimenti al responsabile pensa: “Non voglio disturbare, magari è occupato”. Così commette errori che la fanno sentire ancora meno competente. In coppia, evita di dire al partner che ha bisogno di più vicinanza, perché teme di apparire esigente. Vive tutto in silenzio, convinta che essere discreta la renderà più amabile, senza accorgersi che così nega se stessa.
2. “Sto bene.” (anche quando non lo sei)
È una delle frasi più ingannevoli: un “mantello” che copre il dolore. Un genitore anaffettivo non chiedeva “come stai?” o, se lo chiedeva, non sapeva accogliere una risposta autentica. Così il bambino impara presto a cancellare la verità delle proprie emozioni.
Psicoanalisi: è una difesa basata sull’anestesia emotiva. Si impara a non sentire per non soffrire.
Neuroscienze: sopprimere le emozioni in modo cronico mantiene costantemente attivo il sistema nervoso simpatico, quello dell’allerta. Il corpo resta “teso”, anche se la mente dice “sto bene”.
Esempio: Marco, 42 anni, dopo una giornata estenuante, torna a casa. La moglie gli chiede: “Tutto ok?”. Lui sorride e risponde “Sto bene”. Poi, nel cuore della notte, ha tachicardia e insonnia. Non è vero che sta bene: ha solo imparato a non raccontare il contrario.
3. “Non so cosa provo.”
Questa frase rivela una difficoltà concreta a dare un nome alle emozioni. È come avere un corpo che sente, ma una mente che non riesce a tradurre in parole. È la condizione dell’alessitimia, spesso radicata in infanzie prive di rispecchiamento affettivo.
Psicoanalisi: le emozioni non riconosciute restano mute, come se non avessero diritto a esistere.
Neuroscienze: la scarsa integrazione tra sistema limbico e corteccia prefrontale rende difficile nominare ciò che si sente.
Esempio: Chiara, 29 anni, va in terapia. La psicologa le chiede: “Come ti senti quando litighi con tua madre?”. Chiara rimane in silenzio: “Non lo so. So solo che mi viene da piangere, ma non so se è rabbia, tristezza, o tutte e due insieme”. Non è mancanza di intelligenza: è un’abilità che nessuno le ha insegnato.
4. “Non serve parlarne, non cambia niente.”
Questa frase porta con sé il peso dell’impotenza appresa. Se da bambino hai provato a esprimere un disagio e hai ricevuto indifferenza o derisione, hai imparato che “parlare non serve”. Da adulto, la conclusione è che conviene tacere.
Psicoanalisi: nasce un senso di sfiducia relazionale, come se ogni parola fosse destinata a cadere nel vuoto.
Neuroscienze: la ripetuta frustrazione di comunicazioni inascoltate rafforza l’amigdala, che registra l’inutilità del tentativo e inibisce l’impulso a provare ancora.
Esempio: Davide, 37 anni, litiga con la compagna. Lei gli chiede: “Vuoi parlarne?”. Lui scuote la testa: “Non serve parlarne, tanto non cambia niente”. Ma non è vero: è il ricordo infantile di un padre che non lo ascoltava a parlare al posto suo.
5. “Non ho bisogno di nessuno.”
Sembra una dichiarazione di forza, in realtà è una corazza. Dietro questa frase c’è la paura di dipendere e di restare feriti. È l’estremo opposto di chi chiede troppo: qui ci si difende negando ogni bisogno.
Psicoanalisi:È una difesa che nasce dal bisogno di sopravvivere a una mancanza antica. Quando da bambino impari che esprimere i tuoi bisogni significa essere ignorato o rifiutato, dentro di te si crea un vuoto difficile da tollerare. Per non sentire ancora quell’umiliazione, costruisci una corazza: ti convinci che non hai bisogno di nessuno, che puoi bastare a te stesso. In realtà, dietro questa apparente forza, c’è un’enorme paura di dipendere dagli altri e di essere di nuovo ferito. Dire ‘non ho bisogno di nessuno’ diventa così un modo per illudersi di avere il controllo, anche se in profondità resta vivo il desiderio di vicinanza e cura..
Neuroscienze: l’isolamento cronico riduce i livelli di ossitocina e serotonina, impoverendo la capacità di provare benessere relazionale.
Esempio: Federica, 40 anni, dopo una delusione amorosa, decide che “non ha bisogno di nessuno”. Lavora senza sosta, viaggia da sola, evita qualsiasi legame profondo. In superficie appare indipendente, ma dentro di sé sente un vuoto che la notte diventa insopportabile.
6. “Non voglio essere di peso.”
È una frase che suona umile, ma in realtà è intrisa di vergogna. Chi la dice ha imparato che avere bisogni equivale a essere un peso insopportabile. Così, da adulto, preferisce negare ogni richiesta, anche quando sarebbe legittima.
Psicoanalisi: È la traccia di una convinzione radicata: l’idea profonda di non meritare cura, di non avere diritto all’attenzione e alla vicinanza dell’altro. È come se dentro fosse rimasto inciso il messaggio che i propri bisogni sono un peso, qualcosa da nascondere per non essere rifiutati
Neuroscienze: vivere in solitudine emotiva mantiene il corpo in uno stato di stress latente, come se ogni giorno fosse una prova di sopravvivenza.
Esempio: Andrea, 55 anni, ha la febbre alta. Sua moglie gli propone di chiamare il medico, ma lui risponde: “Non voglio essere di peso, passerà”. In realtà, avrebbe bisogno di aiuto, ma il suo modello di vita lo porta a rifiutare persino la vicinanza nelle malattie.
Le conseguenze emotive e relazionali
Queste frasi non restano innocue: diventano modelli di vita.
- In coppia: puoi sembrare distante, incapace di lasciarti andare.
- Nel lavoro: diventi iper-indipendente, ma spesso fragile dietro la corazza.
- Nelle amicizie: mantieni rapporti superficiali, senza mai confidarti davvero.
Il filo comune è la difficoltà a credere di avere diritto a esistere emotivamente.
Le frasi che ripeti ogni giorno non sono solo parole
Sono frammenti della tua storia, ricordi incarnati che parlano anche quando credi di tacere. Riconoscerle significa riconoscere le tue ferite, ma anche la tua forza: la possibilità di dare finalmente voce a ciò che non è mai stato ascoltato.
Non sei condannato a parlare la lingua dell’anaffettività. Puoi imparare a costruirne una nuova, fatta di autenticità, di bisogni accolti, di emozioni riconosciute. È un cammino che richiede coraggio, ma è anche l’unico che porta a una vita in cui puoi sentirti davvero visto.
Ed è lo stesso percorso che approfondisco nel mio nuovo libro “Lascia che la felicità accada – Lezioni di educazione emotiva per vivere e viversi meglio”, già in preorder. Un viaggio per riconoscere le emozioni che abitano in te, anche quelle che hai imparato a soffocare. Per dare finalmente voce a ciò che è rimasto in silenzio troppo a lungo, trasformando la vergogna in dignità, la paura in forza, il vuoto in presenza. Un cammino che ti aiuta a costruire legami capaci di riflettere la tua essenza più autentica, non ciò che hai dovuto fingere per essere accettato. Perché solo quando ti permetti di essere visto davvero, puoi iniziare a vivere relazioni che non tradiscono chi sei, ma lo onorano. Il libro è già disponibile a questo link su Amazon per il preorder…ti aspetto tra le pagine
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