Alcune persone sono come sciacalli: false e pronte a ferirti

| |

Author Details
Dott.ssa in biologia e psicologia. Esperta in genetica del comportamento e neurobiologia. Scrittrice e founder di Psicoadvisor

Gli sciacalli sono animali ferocemente territoriali, non vivono in branco ma si muovono singolarmente o in coppia. Una volta individuato il proprio territorio, lo sciacallo respinge con violenza qualsiasi intruso. Gli sciacalli possono predare piccoli animali ma si nutrono soprattutto di animali feriti o già morti (carogne). Per questa caratteristica, nel gergo comune si tende a identificare “sciacallo” colui che trae giovamento dalle difficoltà altrui. Molti esseri umani si comportano come sciacalli e nutrono la propria emotività elargendo giudizi, critiche e traendo un implicito beneficio dall’infelicità altrui.

Molte persone, nell’interagire con gli altri, si comportano da veri e propri sciacalli emotivi. Il paradosso è che lo sciacallo si comporta da sciacallo non solo con gli altri ma anche con se stesso, deprivando la propria esperienza di vita dell’ascolto empatico e della genuina gioia della condivisione.

Come si comporta la persona sciacallo

Lo sciacallo si individua dal modo in cui comunica e legge il mondo circostante. Usa un linguaggio che giudica, critica, classifica le persone, etichetta e soprattutto non si sforza di capire l’altro ma ne interpreta parole e azioni sulla base di propri preconcetti dispregiativi.

Lo sciacallo dice come dovrebbero agire le persone elargendo condanne a destra e a manca: per lui tutti sbagliano. Il paradosso è che lo sciacallo non dà il buon esempio ma si limita a dire cosa dovrebbero e non dovrebbero fare le persone per «fare bene» senza però fare bene in prima persona. Lo stile comunicativo dello sciacallo riflette un intero modus vivendi, una modalità di pensiero e di linguaggio che purtroppo caratterizza molte persone. Questa modalità tende a creare malintesi, sospetti, gerarchie, competizioni… induce a una sterile lotta per la sopravvivenza del sé creando un ambiente ricco di violenza verbale ed emotiva.

A descrivere lo stile sciacallo è stato lo psicologo Marshall Rosenberg nella sua teoria della Comunicazione Nonviolenta. Lo psicologo fa notare come questo approccio possa causare una serie di insoddisfazioni psicofisiche, emotive e relazionali.

Quando si parla di comunicazione o linguaggio, non si fa riferimento solo a una modalità di espressione ma a interi schemi di pensiero, schemi percettivi e cognitivi. Ti riporto un esempio banale di quanto ho appena esposto: «devi fare così!», oppure «che ti piaccia o no, questo è ciò che ti aspetta», «bisogna che tu ti dia una svegliata…», «è così e basta»… queste parole partono da una base di prepotenza perché non danno alcuna scelta all’interlocutore.  Frasi gel genere creano un disequilibrio e non partono da un presupposto di pariteticità. Chi si esprime sente di avere più diritti, più importanza oppure semplicemente più impellenza. E’ così che si esprimono gli sciacalli, rischiando di sopprimere l’altro, sia emotivamente che affettivamente.

Gli sciacalli rendono schiavi gli altri e sono a loro volta schiavi di un sistema che genera malessere. Lo sciacallo non conosce rispetto, reciprocità, ascolto empatico, vera condivisione, accoglienza… Eppure le frasi esposte in precedenza possono essere espressa in modi diversi, dove si restituisce all’altro la sua dimensione dignitosa: «devi fare così!» potrebbe trasformarsi in un confronto costruttivo «mi piacerebbe molto se tu facessi…» oppure, ancora, «se vuoi…», «io non vedo molte scelte ma se la pensi diversamente…»… «hai idee a questo proposito?». L’imposizione lascia spazio al confronto.

La comunicazione non violenta

Per difendersi dagli sciacalli bisogna imparare a riconoscere gli stili comunicativi violenti. Troppo spesso, adoperiamo uno stile violento anche nella convivenza con noi stessi. Elargiamo a noi stessi tanti giudizi e tante critiche di quante ne rivolgiamo agli altri. Per imparare a difenderci dagli sciacalli esterni, abbiamo bisogno di capire quanto sciacalli possiamo essere con noi stessi e con gli altri.

Quando le minacce arrivano dall’esterno è facile: ci basta condannare il prossimo innalzando noi stessi a paladini della bontà. Purtroppo in psicologia non sempre è così scontato. Questa citazione può farci riflettere:

«Il seme della violenza nel mondo inizia nel modo in cui mi ascolto e ti ascolto, nel modo in cui mi penso e ti penso, nel modo in cui mi parlo e ti parlo. La comunicazione empatica ci aiuta a creare e a vivere la connessione che tanto desideriamo avere con noi stessi, con l’altro e con la vita» – Marshall Rosenberg. La comunicazione non violenta è al contempo consapevolezza e strumento per liberarsi dalle paure, dalle imposizione e dai retaggi culturali che ci rendono prigionieri. In più ci tiene al riparo dalle persone sciacallo, cioè da quegli individui che preferiscono criticare gli altri piuttosto che guardarsi dentro.

Le quattro regole d’oro

Il miglior modo per difendersi dagli sciacalli emotivi è…. adottare una comunicazione nonviolenta. La comunicazione nonviolenta è uno strumento d’oro per cambiare in meglio il nostro modo di vivere, l’approccio che abbiamo con noi stessi e con gli altri. Ecco i quattro capisaldi fondamentali.

1. Osservare senza fare valutazioni soggettive

Quando osserviamo gli altri, le nostre percezioni sono inquinate dal giudizio e da valutazioni eccessivamente soggettive dei fatti. La filosofia buddista suggerirebbe: «sii un osservatore distaccato», «esercita l’arte del non giudizio».

2. Riconoscere ed esprimere i sentimenti

Troppo spesso proiettiamo sugli altri ciò che non riusciamo ad ammettere per noi stessi. Molto spesso gli altri fanno lo stesso con noi, proiettano su di noi le loro paure e le loro impressioni inaccettabili. Una maggiore consapevolezza potrebbe aiutarci non solo a conoscerci ma a scandire meglio i confini con gli altri.

«Mi sento umiliato», oppure «Sono un fallito», ancora «Mi sento invisibile», frasi del genere non esprimono nostri sentimenti bensì le valutazioni e i pensieri che fanno gli altri. Lo step successivo sarebbe individuare cosa o chi mi ha tentato di umiliarmi o farmi sentire un fallito… Da questo punto di vista, la comunicazione non violenta funziona un po’ come la Mindufulness e mira a farci sentire in contatto con uno specifico vissuto interiore istante per istante. In questo modo, la sensazione di fallimento può essere letta in modo corretto: come una paura che origina da… Starà poi alla nostra capacità introspettiva di scoprire ciò che ci portiamo dentro.

3. Riconoscere i propri bisogni

Non è facile prendere contatto con ciò che è vivo in noi, la presa di coscienza dei propri bisogni è una conseguenza naturale delle riflessioni precedenti. Riconoscere e dare valore ai nostri bisogni come a quelli degli altri, assumersi la responsabilità dei propri bisogni, viverli con leggera pienezza, senza etichettarci (noi stessi o gli uni con gli altri) come vincenti o perdenti, forti o deboli.

Assumendoci la responsabilità dei propri bisogni riconosciamo il nostro potere. Ecco un esempio palese che emerge nel nostro modo di comunicare: «sono stato male perché non mi hai chiamato». Ecco che come uno sciacallo sto colpevolizzando l’altro attribuendogli la responsabilità di un mio malessere. L’espressione, deprivata della componente giudicante e di condanna, si trasforma in: sono stato male perché avevo bisogno di vicinanza, affetto e sostegno. Non incolpo l’altro ma gli offro l’opportunità di capire che per me la sua presenta è importate e che vorrei soddisfare maggiormente il mio bisogno di affetto e sostegno.

Sta a noi soddisfare i nostri bisogni, valutando chi avvicinare. Osservando l’altro per ciò che è (e non per ciò che siamo!), così da individuare chi può realmente essere affine ai nostri bisogni affettivi e di vicinanza.

4. Impara a chiedere apertamente ma attenzione a chi pretende

Chiedere qualcosa significa lasciare all’altro la facoltà di dire «no», la possibilità di rifiutare. Gli esseri umani sono creature piene di contraddizioni! Troppo spesso ho visto persone che pretendevano qualcosa oppure ricattavano l’altro per avere qualcosa senza mai ottenere piena soddisfazione. Dobbiamo imparare a chiedere ciò di cui abbiamo bisogno e a farlo nel modo giusto, eh sì, aspettandoci anche un rifiuto. Analogamente, dobbiamo imparare a riconoscere i ricatti emotivi e prepararci a dare dei fermi rifiuti.

Dopo che abbiamo identificato i nostri reali sentimenti (passo due) e ci siamo assunti la responsabilità dei nostri bisogni (passo tre), siamo finalmente pronti a chiedere. Non si tratta di esigere, ne’ di estorcere qualcosa… si tratta di restituire alle relazioni interpersonali la dimensione di reciprocità. Io concedo all’altro e ricevo, l’altro concede e riceve, il tutto contornato da soddisfazione e gratitudine reciproca.

Sembra utopico ma non lo è affatto: è questo continuo scambio che fa funzionare le relazioni. Ecco l’ennesimo esempio, di come il chiedere in termini di reciprocità sia ben diverso dal pretendere. Poniamo il caso che il nostro partner abbia l’abitudine di rincasare tardi e così siamo costretti a cenare da soli, sopprimendo il nostro bisogno di condivisione e vicinanza. Possiamo incolpare l’altro della nostra frustrazione oppure affermare: «è un peccato che tu faccia così tardi, mi sarebbe piaciuto trascorrere un po’ di tempo con te perché la tua presenza mi fa stare bene, per me sei importante».

Nelle relazioni interpersonali, le persone dovrebbero sentirsi importanti l’uno per l’altra. Se ciò non si verifica è perché siamo accanto a degli sciacalli o perché noi stessi siamo sciacalli e ci stiamo sottraendo di qualcosa di magico.

Come imparare ad accettarci in modo incondizionato?

Una domanda semplice ma dal significato complesso. Per rispondere sullo stesso piano: semplicemente, imparando a conoscersi, a comprendere le proprie scelte, le proprie azioni… perché tutto ciò che siamo e che facciamo ha una ragione che può essere individuata nella nostra storia personale. Se impariamo a conoscerci davvero, allora diventerà facile accettarci, perché capiremo che tutto ciò che siamo è una “sintesi inevitabile”, una “forma di adattamento” all’ambiente in cui siamo cresciuti. Questa comprensione ci renderà liberi, liberi da ogni giudizio e forma di autocritica, liberi anche di cambiare. Non più prigionieri di ciò che è stato ma liberi di essere ciò che desideriamo.

“D’Amore ci si ammala, d’Amore si guarisce”

Comprendersi sembra facile, eppure, alcuni di noi sono estremamente complessi, si portano dentro una moltitudine di sfaccettature non sempre facili da «gestire». Alcuni di noi, poi, si portano dentro dei carichi emotivi enormi, che stanno lì da chissà quanto tempo, troppo ingombranti e troppo pesanti da poter districare. In questi casi potrebbe essere saggio fare un profondo lavoro su se stessi.  “D’amore ci si ammala, d’Amore si guarisce“, in realtà è il titolo del mio secondo libro, in pochi giorni già divenuto un best seller.. un testo che finalmente farà luce sui tuoi vissuti emotivi e le tue storie relazionali, dall’infanzia all’età adulta.

Curare i nostri legami, le nostre ferite, i nostri conflitti… curare il nostro benessere, è un dovere imprescindibile che abbiamo verso noi stessi. Nel libro, troverai molti esercizi psicologici pratici che potranno aiutarti in mondo tangibile fin da subito. Per tutte le informazioni sul libro ti rimando a questa pagina Amazon

Autore: Anna De Simone, psicologo esperto in neuropsicobiologia
Se ti è piaciuto questo articolo puoi seguirmi su Instagram:  @annadesimonepsi
e seguire le pagine ufficiali di Psicoadvisor su Facebook: sulla fb.com/Psicoadvisor e su Instagram @Psicoadvisor