Baby Reindeer, la serie originale Netflix, sta facendo un gran rumore: è sulla bocca di tutti, o meglio, dovrei dire «è sulle bacheche di tutti». E ben venga se questo serve a far parlare di trauma. La serie, infatti, mette in evidenza come un’esperienza dolorosa riesca a entrare a far parte di noi fino a condizionarci nella nostra identità, nel nostro orientamento sessuale, nelle nostre attitudini, fino a dettare le nostre scelte amorose.
Non solo, la serie mette anche in risalto la relazione tra vittima e carnefice. Colui che subisce, infatti, non è sempre completamente passivo nel processo di vittimizzazione. È piuttosto incastrato in una dinamica contorta e lesiva. Ciò che capita al protagonista, Donny Dunn, spiega perfettamente anche il processo di plurivittimizzazione, cioè quel meccanismo a causa del quale chi ha subito un abuso tenderà poi ad accumularne molti altri nella vita. In soli 7 episodi, Baby Reindeer dà tantissimo materiale su cui riflettere. Dalle mie parole è chiaro: ho amato tutto di Baby Reindeer! La coerenza psicologica è sconvolgente, mentre la guardavo pensavo «è troppo vera per essere solo una serie!».
Infatti si tratta di una storia vera
Baby Reindeer, infatti, racconta una storia vera. Il protagonista, Donny, è interpretato da Richard Gadd, colui che ha vissuto l’intera vicenda e ha scritto la sceneggiatura. I vissuti interiori sono stati resi alla perfezione. Guardandola, è possibile servirsi delle dinamiche psicoaffettive del protagonista per fare introspezione e guardarsi dentro.
Nonostante tutto questo materiale bollente, purtroppo, sui social non si parla di trauma o di plurivittimizzazione, si fa solo tanto gossip. Dal rilascio di Baby Reindeer si è aperta una vera e propria “caccia all’uomo” per scovare le persone reali che si nascondono dietro i personaggi. E qui, per una serie di coincidenze, entro in gioco io.
Chi è Teri?
Chi è Teri? Nella narrazione di Richard Gadd, al secondo episodio, entra in scena Teri, personaggio transessuale interpretato dall’attrice Nava Mau. Teri è una terapeuta che appare sicura di sé e decisa a far valere i suoi bisogni. Nella serie, viene insultata da Martha (la stalker di Donny) per il suo pessimo accento inglese, viene offesa perché straniera e intimata a ritornarsene nel suo paese.
Ho ricevuto oltre 3.000 messaggi di persone convinte che io sia colei che ha ispirato il personaggio di Teri. Principalmente si tratta di fan provenienti dall’America Centrale e Latina, solo pochi italiani.
Su TikTok ho notato almeno una decina di video (il primo dei quali, ha all’incirca 4 milioni di visualizzazioni!) che facevano circolare questa notizia e anche molti blog stranieri la riportano. Per fortuna, sulle testate web si legge che si tratta di un’ipotesi, mentre su tiktok l’informazione passa come certezza, nonostante la mia smentita su Instagram. Tra i blog e siti che hanno riportato la notizia segnalo MSN Portogallo, Radio Hoduras… ma anche il più popolare Razon che è un po’ l’analogo messicano dell’italiano «il fatto quotidiano». Il taglio è più o meno questo:
«Bebê Rena… Teri de la vida real se llamaría Anna de Simone y aunque la mujer hizo un video en sus redes sociales para desmentir que es ella en quien está inspirado el papel de Teri…» – da La Razon
Come è nata questa suggestione?
Come dicevo, ho ricevuto migliaia di messaggi e commenti. Mi sono arrivati in blocco anche una marea di insulti e di like. Ma come sono arrivati a me? E perché molti ancora oggi pensano che io sia Teri? All’inizio non capivo. Poi mi hanno segnalato i video e le info raccolte e ho capito.
Sono arrivati al mio profilo per un semplice like messo a un post dell’ideatore della serie Richard Gadd. È lecito chiedersi: «ma è seguito da circa 300.000 persone, perché il tuo like ha attirato l’attenzione?». A questo non so rispondere con esattezza. Gli screenshot di quella interazione sono finiti su TikTok montati con alcune mie foto accostate a quelle di Nava Mau. A quanto affermano tutti, ci somigliamo moltissimo.
Da Facebook hanno ricostruito la mia vita dal 2013 a oggi, hanno visto che negli anni in cui era ambientata la serie sono stata a Newbury e poi a studiare inglese a sud di Londra. L’ultima similitudine ha fatto il resto: come premesso, Teri, nella serie, è una terapeuta.
Poi c’è il “genere” che confonde. Sulla mia scheda “info” di Facebook, alla voce genere, ho indicato “non binario”. Lo dovetti scrivere a mano perché all’epoca della mia iscrizione su Facebook ancora non c’era questa opzione. C’era solo “Uomo, donna” o Altro, e con “altro” il form ti chiedeva di specificare, e così scrissi “non binario”. Le persone fanno confusione quando si parla di ruoli di genere. Per il resto, posso capire che vedendo i miei video su tiktok o Instagram, i miei lineamenti marcati del viso, la mia statura (sono alta 173 cm) e la mia ossatura importante, abbiano potuto far credere che fossi una transessuale. Mi arrivano ancora molti messaggi al giorno. Penso che li riceverò finché un’altra serie non scalerà la vetta delle “più viste” di Netflix.
La ricerca della verità ci fa raccontare tante menzogne
Questa vicenda ci fa capire come noi ci costruiamo la realtà che desideriamo. Come funziona? Ci creiamo una rappresentazione mentale -bella o brutta che sia- e poi cerchiamo conferme, anche a discapito di ciò che è vero. In pratica ognuno di noi vive nella realtà che si è costruito e nella mente di migliaia di persone, io sono diventata Teri…. ma ribadisco: non lo sono!
Attenzione però a giudicare male chi ha pensato che io potessi essere la vera Teri! Nessuno è esente dal bias di conferma; ricordo a tutti che l’FBI ha preso granchi peggiori cadendo nella stessa dinamica dei fan di Teri e Baby Reindeer. Chi ha letto il mio ultimo sa bene come funziona (pag. 145, «d’Amore ci si ammala, d’Amore si Guarisce», edito Rizzoli).
Baby Reindeer: ma il finale ha un significato?
Mettendo le buffe coincidenze da parte. Il finale di Baby Reindeer ha acceso molte polemiche. Il motivo? Le persone hanno difficoltà ad accettare l’incompiuto. Il finale è da elaborare, come lo stesso trauma vissuto dal protagonista. Non esiste un modo giusto per vivere la propria esperienza post traumatica.
Dalla rabbia all’ambivalenza
Qualcuno potrebbe chiedersi: ma dove è finita la rabbia feroce verso il carnefice? Legittima ed espressa dal protagonista in due episodi. Certo, nel tempo potrebbe essersi estinta: sono passati molti anni dall’accaduto, tuttavia sappiamo che il tempo da solo non estingue alcun debito. Che l’irrisolto può rimanere tale anche per tutta la vita se non ci si lavora, rimane, appunto, irrisolto.
Mediante il suo vissuto, Richard Gadd ha potuto dare vita al suo sceneggiato, alla sua serie di successo, questo potrebbe aver fatto dissipare la rabbia? Beh, non è così semplice, anzi, questo potrebbe essere molto pericoloso, confondere e far emergere emozioni ambivalenti. Le conseguenze di un trauma subito non vengono eliminate solo per il fatto che la vittima abbia preso coscienza di ciò che è successo mettendoci su uno spettacolo. Le conseguenze di un crimine compiuto, di un qualsiasi trauma subito, non vengono eliminate solo per il fatto che vittima e carnefice siano entrambi ciechi.
Alla fine della miniserie c’è Donny, seduto al bancone del pub: si ripete la scena, così come tutto è iniziato. Durante il primo episodio, allo stesso bancone e con la stessa aria smarrita, sedeva Martha. Richard Gadd ha voluto creare, probabilmente, questa sovrapposizione perché egli è divenuto consapevole del suo vissuto traumatico e… in un certo senso, siamo tutti un po’ smarriti.
Anna De Simone, psicologo esperto in neuropsicobiologia
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