
Quando le parole tradiscono l’instabilità emotiva
Le parole non sono solo suoni, ma veri tracciati emotivi. Ogni frase che pronunciamo porta con sé il segno di come il nostro sistema nervoso regola (o non regola) gli stati interni. Così, accanto a persone che vivono una certa instabilità, ci si ritrova a decifrare messaggi contraddittori, promesse subito ritirate, entusiasmi che diventano apatia nel giro di un’ora.
L’instabilità emotiva non è un difetto di carattere: è spesso la conseguenza di storie affettive precoci, di un amore percepito come intermittente, di un ambiente che ha trasmesso al bambino un senso di sicurezza fragile. Sul piano biologico, significa che il sistema nervoso è rimasto più “reattivo” che “regolato”: l’amigdala si accende al minimo segnale di incertezza, il cortisolo si alza con facilità, la corteccia prefrontale fatica a modulare.
Frasi tipiche delle persone instabili
Le persone instabili parlano un linguaggio che porta dentro queste oscillazioni. Riconoscerle non serve a giudicare, ma a comprendere: comprendere che dietro la frase c’è un corpo in allerta, un passato che ancora pesa, una difficoltà reale a mantenere coerenza tra emozione e parola. Vediamo ora 5 frasi tipiche che raccontano bene l’instabilità interiore.
1. “Voglio tutto… però non adesso”
Questa frase condensa la dinamica dell’approach-avoidance: avvicinarsi perché si desidera, ritirarsi perché si teme di soffrire. Psicologicamente nasce spesso da storie in cui l’amore era a intermittenza: la vicinanza scaldava e feriva insieme.
Biologicamente, dietro c’è un sistema limbico in costante altalena: il circuito della ricompensa (dopamina) spinge verso l’oggetto desiderato, ma l’amigdala e l’asse dello stress (HPA) frenano, segnalando pericolo. È come se il corpo inviasse due segnali opposti nello stesso istante. Chi riceve questa frase si sente in un’altalena emotiva: prima attratto, poi respinto, senza un terreno stabile.
2. “Non so cosa voglio… ma non va mai bene niente”
Qui emerge la difficoltà a contattare i propri bisogni autentici. Psicologicamente, è tipico di chi ha imparato a difendersi criticando: se rifiuto tutto, non mi espongo. È la voce di un Sé che si protegge dal rischio di mostrarsi vulnerabile.
Sul piano biologico, è collegato a un’eccessiva attivazione della corteccia cingolata anteriore, che registra il conflitto interno tra desiderio e paura, senza però arrivare a una decisione regolata. Questo mantiene l’organismo in uno stato di insoddisfazione cronica, simile a un circuito dopaminergico che non trova mai appagamento.
Il risultato è un clima relazionale di perenne insufficienza: nulla soddisfa davvero, e chi sta accanto si sente sempre in difetto.
3. “Stavo solo scherzando, sei tu che esageri”
Questa è la tipica frase che segue un commento pungente. Psicologicamente, è una difesa dall’imbarazzo: la persona non regge la colpa di aver ferito e nega l’impatto, riducendo l’altro a “troppo sensibile”. È un meccanismo di disconferma, che destabilizza e invalida.
Sul piano biologico, è legato a una scarsa integrazione tra amigdala (che spara la battuta aggressiva) e corteccia prefrontale (che dovrebbe mediare). Lo stress momentaneo porta a un rilascio rapido di adrenalina, seguito da un tentativo di negazione cognitiva: “era uno scherzo”.
Chi riceve queste frasi sperimenta un doppio legame: se reagisce, viene accusato di esagerare; se tace, l’offesa resta senza nome.
4. “Mi hai frainteso” (ripetuto sistematicamente)
Se accade una volta, è normale; se accade sempre, diventa segnale. Psicologicamente, è un modo per evitare la responsabilità delle proprie parole: spostare la colpa sul destinatario, lasciando intatto il proprio senso di sé.
A livello neurobiologico, questo atteggiamento riflette un ipercontrollo cognitivo: la corteccia prefrontale interviene in ritardo e “riscrive” retroattivamente ciò che è stato detto, come se il cervello tentasse di cancellare l’attivazione emotiva originaria. È un meccanismo di rielaborazione difensiva.
Chi ascolta si sente confuso e svalutato: il messaggio è che non ha mai capito nulla, anche quando ha colto con precisione.
5. “Sei tu che mi fai stare così”
Questa frase sposta il locus del controllo totalmente all’esterno. Psicologicamente, è tipica di chi non ha sviluppato strumenti di autoregolazione: le emozioni vengono vissute come indotte dall’altro.
Biologicamente, significa che il sistema nervoso non ha appreso strategie di autoregolazione vagale: la persona dipende dalla co-regolazione esterna, ma senza riconoscerlo. È come se dicesse: “il mio battito, la mia tensione, la mia ansia dipendono da te”.
Il risultato è una relazione squilibrata: l’altro diventa “responsabile” dello stato emotivo, con sensi di colpa e iper-responsabilità.
Instabilità non è una diagnosi, ma un segnale
“Instabile” non è un’etichetta clinica: è un modo per descrivere un funzionamento oscillante. Le persone diventano più instabili quando non si sentono al sicuro: è la mancanza di base sicura a renderle vulnerabili. Il corpo registra questa insicurezza con un aumento costante di cortisolo, che rende la mente più reattiva e meno centrata.
Ambivalenza sana vs. instabilità che logora
L’ambivalenza appartiene a tutti: desiderare una cosa e temerne gli effetti è umano. La differenza è tra chi riconosce e chi nega. Se dico: “sono combattuto, ci penso due giorni e poi decido”, la mia è un’ambivalenza gestita. Se invece passo da un “sì” a un “no” senza consapevolezza, diventa instabilità che confonde e ferisce.
Il corpo come registratore di oscillazioni
Il corpo non mente. Un sistema nervoso instabile mostra segni visibili: battito irregolare, respiro corto, sudorazione improvvisa, insonnia. Questi segnali non sono “capricci”, ma conseguenze biologiche reali di una regolazione emotiva fragile. Quando il corpo non trova un ritmo, anche le parole non lo trovano.
Imparare a stabilizzarsi
Le frasi instabili non sono cattiverie intenzionali: sono la voce di un corpo e di una psiche che non hanno mai conosciuto una base sicura. Dietro c’è spesso un bambino che ha imparato a oscillare perché non aveva alternative: oscillare era il modo per non perdere l’amore, per proteggersi da rifiuto e abbandono.
Se queste frasi ti risuonano, forse non sei solo spettatore: forse hai dentro di te lo stesso copione, fatto di entusiasmi che diventano ritiro, di critiche che mascherano paura, di emozioni affidate agli altri. La buona notizia è che non è una condanna: il sistema nervoso resta plasmabile, la psiche resta capace di riscrivere.
Ed è qui che entra in gioco l’educazione emotiva. Imparare a riconoscere i segnali del corpo, a nominare ciò che sentiamo, a regolare senza reprimere, a distinguere tra la paura e il bisogno reale. Non teoria, ma pratica quotidiana: piccoli gesti che stabilizzano, parole nuove che sostengono, confini che proteggono.
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