Cosa fanno davvero le persone che riescono a superare i traumi

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Dottoressa in psicologia, esperta e ricercatrice in psicoanalisi. Scrittrice e fondatore di Psicoadvisor

Ti sei mai chiesto come fanno alcune persone a risorgere da esperienze che avrebbero potuto spezzarle per sempre?
C’è chi, dopo un lutto, un abbandono, un abuso o un fallimento, sembra rimanere intrappolato nel dolore, e chi invece — pur portandone le cicatrici — riesce a riprendere il filo della propria vita e a tessere un disegno nuovo. Non significa che il trauma sparisca: resta una traccia, un’impronta indelebile. Ma ciò che cambia è il modo in cui quella ferita viene vissuta, contenuta, trasformata.

Il lato invisibile del trauma

Quando parliamo di trauma, non dovremmo pensare solo a eventi eclatanti come incidenti, abusi o perdite improvvise. Il trauma può assumere forme molto più sottili e quotidiane: una mancanza di ascolto, gesti svalutanti ripetuti, un’assenza di calore costante nel tempo. Sono ferite meno visibili ma ugualmente incisive, che si accumulano goccia dopo goccia e lasciano segni profondi nella percezione di sé e nel modo di vivere le relazioni. È importante ricordarlo: ognuno di noi può portare dentro di sé traumi non appariscenti ma altrettanto determinanti

Le persone che riescono a superare i traumi del passato fanno questo

Superare un trauma non è questione di “forza di volontà” né di durezza caratteriale. È piuttosto un processo delicato e complesso, che intreccia biologia, psiche e relazioni. Ci sono atteggiamenti e scelte interiori che, pur diversi in ognuno, hanno qualcosa in comune: sono le azioni, spesso silenziose e costanti, che distinguono chi riesce a guarire dalle proprie ferite. La ricerca psicologica e l’esperienza clinica mostrano che chi riesce ad elaborare un trauma non lo fa per caso: esistono sei dimensioni interiori che diventano il filo conduttore della guarigione

1. Scelgono di guardare il dolore invece di fuggirlo

Il primo passo non è mai eroico: è umanissimo. Le persone che superano un trauma imparano a non scappare continuamente da ciò che fa male. All’inizio il dolore è insopportabile, e la mente prova a difendersi con l’evitamento, la rimozione, l’anestesia emotiva. Ma queste strategie, se restano predominanti, trasformano il trauma in una prigione invisibile.

Chi riesce a guarire compie un gesto diverso: si concede di restare. Guardare il dolore in faccia, anche solo per pochi istanti, anche solo con un pensiero o una parola, significa interrompere la lotta sotterranea che consuma energie psichiche. È come aprire una porta in una stanza chiusa: all’inizio entra luce dolorosa, ma solo così l’aria inizia a circolare.

Neuroscienze e psicoanalisi concordano: ciò che non viene elaborato resta “non pensato” e continua a ripresentarsi come sintomo. Guardare il dolore, invece, è il primo passo per trasformarlo in memoria integrata, capace di trovare un posto dentro di noi.

2. Trasformano il caos in racconto

Un trauma lascia dietro di sé frammenti sparsi: immagini improvvise, flashback, sensazioni fisiche che sembrano scollegate dal presente. Sono pezzi di memoria implicita che il cervello non ha potuto integrare.

Le persone che guariscono imparano, con il tempo, a raccontare. Non sempre subito, non sempre in modo lineare: ma trovano un linguaggio per trasformare il caos in una narrazione. Raccontare significa collocare gli eventi nel tempo, riconoscerli come parte del passato, inserirli in un filo di senso.

La psicoanalisi ci insegna che ciò che non diventa parola resta agito. Il corpo parla attraverso sintomi, paure, comportamenti ripetitivi. Quando invece il trauma diventa racconto — che sia con un terapeuta, scrivendo, o confidandosi con qualcuno di fidato — smette di essere un frammento grezzo che invade la vita quotidiana e diventa un capitolo della propria storia. Non è più un fantasma, ma un ricordo che può essere contenuto.

3. Accettano la vulnerabilità come parte della loro forza

Chi supera un trauma non diventa invulnerabile. Anzi: spesso impara ad abitare la propria fragilità più di prima. La vulnerabilità non è debolezza, è condizione umana.

Le persone che riescono a guarire smettono di lottare contro la convinzione di dover essere sempre forti, impeccabili, inattaccabili. Iniziano ad accettare che piangere, avere paura, chiedere aiuto siano parti essenziali dell’essere vivi. Questa accoglienza interiore diventa paradossalmente il terreno della vera forza.

Accettare la vulnerabilità permette di entrare in contatto con gli altri in modo autentico, senza maschere. Permette di costruire legami in cui la reciprocità diventa possibile, in cui si può ricevere senza sentirsi “sbagliati”. È questa umanità condivisa, non la durezza, che diventa il terreno fertile della guarigione.

4. Costruiscono legami sicuri che danno nuova base al sé

Nessuno guarisce da solo. La resilienza è un processo relazionale: richiede almeno un testimone, uno spazio in cui potersi sentire al sicuro.

Chi supera un trauma trova o costruisce legami in cui non è necessario difendersi continuamente. Può essere un terapeuta, un amico, un partner, a volte persino un gruppo. Non conta chi sia: conta la qualità del legame, la sensazione di poter esistere senza giudizio e senza paura.

Dal punto di vista neurobiologico, un legame sicuro calma il sistema nervoso iperattivato dal trauma. Insegna al corpo che non tutto è minaccia, che ci sono contesti in cui si può abbassare la guardia. È così che il cervello reimpara a distinguere tra pericolo reale e percezioni deformate dalla ferita.

5. Non cercano di tornare come prima: costruiscono un nuovo sé

Uno degli inganni più dolorosi dopo un trauma è la speranza di “tornare quello di prima”. Ma chi guarisce scopre che non esiste ritorno: c’è soltanto un nuovo cammino.

Il trauma cambia sempre: incide sulla percezione, sulle relazioni, sull’immagine di sé. La differenza è se quel cambiamento resta una ferita aperta o diventa un seme di trasformazione. Le persone resilienti non negano ciò che è accaduto, ma scelgono di costruire una nuova identità che includa la ferita senza esserne definita.

È ciò che in psicologia chiamiamo crescita post-traumatica: la possibilità di riscoprire valori, priorità, sensibilità nuove proprio a partire dall’esperienza dolorosa. Non significa idealizzare il trauma, ma riconoscere che anche dalle macerie può nascere un senso più autentico dell’esistenza.

6. Si prendono cura di sé con gesti quotidiani

La guarigione non è un atto unico, ma una serie di piccoli gesti ripetuti nel tempo. Chi supera un trauma impara a coltivare rituali di cura: dormire, nutrirsi in modo equilibrato, muovere il corpo, meditare, scrivere, respirare, dedicarsi a qualcosa che nutre l’anima.

Questi non sono dettagli: sono strumenti che parlano direttamente al sistema nervoso. Ogni gesto di cura invia al cervello un messaggio chiaro: “Sei al sicuro, puoi rilassarti, non sei più nel pericolo”. È così che il corpo, piano piano, smette di vivere nel presente come se fosse ancora nel passato traumatico.

Con il tempo, questi rituali diventano nuove radici: sostengono nelle ricadute, offrono stabilità nei momenti di incertezza, e ricordano costantemente che la guarigione è un processo, non un punto d’arrivo.

I traumi dell’infanzia: le ferite che pesano di più

Non tutti i traumi hanno lo stesso impatto. I più devastanti, spesso, sono quelli vissuti nei primi anni di vita. Un bambino non ha ancora strumenti cognitivi per comprendere, né risorse emotive per reggere esperienze di abbandono, trascuratezza, violenza o incoerenza affettiva. Ciò che accade nell’infanzia si imprime direttamente nel sistema nervoso in formazione.

Quando mancano cure adeguate, il cervello del bambino registra costantemente segnali di allarme. L’amigdala resta iperattiva, il sistema di attaccamento si disorganizza, il corpo impara che il mondo non è sicuro. Sono queste ferite precoci a generare in età adulta difficoltà a fidarsi, a regolare le emozioni, a costruire relazioni stabili.

Ma proprio perché si radicano così in profondità, i traumi infantili sono anche i più potenti nel determinare la qualità della vita adulta. Riconoscerli, guardarli, nominarli diventa essenziale per interrompere la catena invisibile che li lega al presente.

Perché i traumi condizionano la nostra vita

Un trauma non elaborato non resta confinato nel passato. Vive nel corpo, nella memoria emotiva, nei comportamenti quotidiani. Per questo spesso ci ritroviamo a reagire con ansia sproporzionata, rabbia eccessiva, paure irrazionali: non stiamo rispondendo al presente, ma a un passato che continua a riattivarsi.

Dal punto di vista psicoanalitico, il trauma agisce come un “nucleo non simbolizzato” che torna a manifestarsi ogni volta che il contesto lo richiama. Dal punto di vista neurobiologico, le memorie traumatiche si attivano nel sistema limbico senza passare dal filtro razionale della corteccia prefrontale. Per questo condizionano scelte, relazioni, persino il modo in cui percepiamo noi stessi.

Ecco perché lavorare sul trauma non è un lusso, ma una necessità: senza elaborazione, continuerà a scrivere la nostra vita al posto nostro. Con l’elaborazione, invece, diventa parte della nostra storia, ma non più il suo regista invisibile.

Superare un trauma non significa dimenticare, né far finta che non sia accaduto

Significa imparare ad abitarlo senza lasciarsene divorare. Significa dargli un posto nella propria storia, senza più permettergli di dettarne il copione.

Le persone che riescono a guarire non hanno trovato una scorciatoia, ma hanno coltivato nel tempo la capacità di guardare il dolore senza esserne travolti, di trasformarlo in narrazione, di accettare la vulnerabilità come parte della vita, di costruire legami sicuri, di reinventarsi e di prendersi cura di sé. Sono questi gesti, quotidiani e profondi, a trasformare una ferita in una radice.

E forse, senza accorgertene, alcune di queste cose le stai già facendo anche tu. Ogni volta che ti concedi di nominare ciò che ti fa male, che ti permetti un gesto gentile verso te stesso, che scegli una relazione in cui sentirti accolto anziché giudicato, stai già iniziando il processo di guarigione.

È proprio di questo che parlo nel mio libro “Il mondo con i tuoi occhi“. Non un manuale di auto-aiuto tradizionale, ma un invito a guardare dentro di te con sincerità e coraggio, a riconoscere i costrutti sociali che ti hanno insegnato a credere cosa sia la felicità, e a liberartene per costruire finalmente una vita che ti somigli davvero.
In quelle pagine troverai strumenti concreti e riflessioni profonde per imparare a distinguere tra ciò che ti è stato imposto e ciò che nasce davvero da te. Perché la vera guarigione non consiste nel cancellare il passato, ma nel riconquistare la libertà di scegliere chi vuoi essere, senza più restare imprigionato nelle ferite e nelle aspettative altrui.

Il trauma non è la fine della tua storia: può diventare l’inizio di un capitolo nuovo, più autentico, più tuo. Il mondo con i tuoi occhi è pensato proprio per accompagnarti in questo cammino: pagina dopo pagina, ti invita a togliere gli strati che non ti appartengono e a riconnetterti con ciò che sei.

Perché la felicità non è un modello preconfezionato da inseguire. È la possibilità di guardare il mondo con i tuoi occhi, non più con quelli che altri ti hanno imposto. Ed è lì che la ferita smette di essere peso e diventa radice: il punto da cui può nascere una vita nuova. Il mio libro è disponibile in libreria e qui su Amazon

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Ti aspetto lì per continuare il viaggio