La creazione del legame fra una madre e un figlio non è spontanea e non è innata, attiene piuttosto all’esperienza di accudimento che ogni donna, futura mamma, ha avuto con la propria madre, oltre che alla sensibilità empatica personale. Il legame materno non può essere solo un dato biologico, innato: è fatto di capacità di accudimento, ascolto, accoglienza, comunicazione, emozioni scambiate, trasmesse e condivise. Ed è un legame che inizia a prendere forma a partire dal lungo periodo gestazionale, quando la condivisione di un unico corpo diventa anche condivisione di stimoli, informazioni, sensazioni ed inizia a strutturare l’esperienza del feto.
La maternità è per la donna una fase di vita, un periodo evolutivo di profondo cambiamento. Si può parlare di due tipi di cambiamento:
– un cambiamento oggettivo della vita quotidiana caratterizzato da un aumento improvviso ed elevato di compiti e responsabilità, non confrontabili con esperienze precedenti, dove spesso si ha a che fare con una percezione della dimensione temporale totalmente differente rispetto a prima.
– una modifica soggettiva dei processi cognitivi e emozionali che riguardano la percezione del sé. (Reale, 2004)
Cosa accade alla donna nei momenti di grande cambiamento?
Una sensazione forte dove, si mischiano la tristezza per la perdita delle sicurezze precedenti, lo spaesamento dato dallo scenario che improvvisamente cambia, l’ansia per il senso di inadeguatezza e la paura del nuovo.
Tutto questo determina smarrimento e spesso un conseguente sentimento di crisi di adattamento. E la maternità può diventare per le neo-mamme un’esperienza anche di profonda crisi, in un contesto sociale e familiare che pretende una madre felice e basta. Le ricerche (Milgrom,2004) affermano che molte donne dopo il parto attraversano momenti di scoraggiamento e di demoralizzazione e almeno una donna su dieci va incontro a un vero e proprio disturbo depressivo maggiore senza tratti psicotici.
Anziché raggiungere la tanto attesa serenità molte donne si trovano a dover affrontare sia le continue richieste del neonato, che la perdita dell’ordine della routine, le notti insonni, i cambiamenti di ruolo e l’isolamento. Questo sconvolgimento emotivo può generare un’esperienza di malessere di varia intensità.
Malessere psicologico sottostimato perché circa il 50% delle donne che ne sono affette non chiede aiuto e comunque, anche se un aiuto viene loro offerto, spesso lo rifiutano, probabilmente, perché anche questo confermerebbe il senso di inadeguatezza (non sono capace a fare la mamma).
E’ un momento della vita in cui la donna è fragile e sensibile, coinvolta in processi intrapsichici di perdita e “cambiamento”.
Una parte della sua personalità sta scomparendo per dare spazio a una nuova identità, integrata da altri aspetti.
Con il parto una donna diventa fisicamente madre e prende forma una nuova identità: il senso dell’essere madre (Stern 2000). La nascita, o la rinascita, del “senso dell’essere madre” emerge gradualmente ed è un’esperienza interiore intensa, che passa anche attraverso la sofferenza fisica e psicologica dovuta prevalentemente al passaggio a ruoli diversi, per molti aspetti inaspettata ed ambivalente, come ambivalente è il manifestarsi dell’amore materno caratteristico di questa nuova identità. La mamma, è investita da profonde e importanti trasformazioni psicologiche che si riflettono sulla sfera intrapsichica, affettiva, relazionale, cognitiva e sociale.
Diventare madre modifica in maniera permanente la vita di una donna. Si tratta di un cambiamento naturale e anche delicato, che va accolto e valorizzato affinché diventi un’ulteriore tappa nello sviluppo della personalità “sana” della donna, del bambino e della coppia.
Una trasformazione spontanea che determinerà nella donna pensieri, paure, speranze, fantasie, influirà sulle emozioni e azioni. L’atteggiamento verso l’allattamento influenzerà il senso di competenza materna, la relazione madre-bambino.
La donna può avere la sensazione di vivere un vero e proprio shock ed è un’esperienza che spesso rischia di restare chiusa dentro, sullo sfondo, perché si sviluppa in parallelo alla nascita fisica del bambino.
Con l’arrivo del bambino l’interesse è prevalentemente rivolto al nuovo arrivato e tutte le attenzioni prima dedicate alla mamma in gravidanza si dirigono ora verso il bambino, lasciando spesso la madre con un senso reale di solitudine. Il cambiamento di prospettiva che si sposta dalla madre al figlio non è solo esterno ma anche e soprattutto interno e profondo.
La donna prova disagio perché la nascita del bambino provoca dei lutti psicologici nella madre legati, a livello intrapsichico, alla perdita del bambino immaginario, alla perdita del ruolo di figlia, alla trasformazione del rapporto con la propria madre.
Il parto rappresenta il primo e grande distacco fisico. Il taglio del cordone ombelicale simboleggia la fine del legame simbiotico con il figlio che si accompagna ad un sentimento di perdita dovuto al venir meno della figura del figlio immaginario. Il bambino immaginario è un bambino indefinito, indeterminato, che può essere tutto.
La nascita fisica del bambino segna la fine della vita del figlio interiore ideale, e l’avvento sulla scena del mondo del suo doppio, cioè il bambino reale con tutti i suoi limiti. La percezione che la persona appena arrivata non è uguale a quella immaginata è sottile e soprattutto inconscia, anche se le emozioni che ne derivano sono consapevoli e a volte legate a un senso di vaga delusione. Il divario tra aspettative e realtà è una delle maggiori interferenze nelle ragioni che impediscono la creazione di un legame immediato tra madre e figlio. Non provare le “giuste” sensazioni nei confronti del proprio figlio fa sentire delusione e tristezza.
Prima di diventare madre, la donna è sempre stata solo figlia di sua madre. Questa relazione, positiva o negativa che sia, è sempre stata centrale per l’identità della donna.
Interrogare la maternità significa portare in scena la figura della propria madre e aprire con lei un confronto o uno scontro. Nella gravidanza e nella relazione con il figlio si rivivono anche le proprie esperienze infantili.
Nel rapporto materno influisce l’eredità che la figlia ha ricevuto dalla propria madre nel suo primo legame con lei, perché la famiglia di origine è il contesto più influente, è il copione al quale facciamo riferimento nei rapporti interpersonali; esserne consapevoli ci permette di decidere di riproporlo o meno anche nell’identità di madre. Secondo numerosi studi recenti, il modello di attaccamento che viene stabilito con il bambino è in larga misura determinato da quello sperimentato con la figura materna (Ainsworth, Blehar, Waters, Wall, 1978).
E lo stile di attaccamento ci guida anche nelle relazioni amorose adulte (Giusti, Spalletta, 1997). Però il ritorno del passato non ne determina necessariamente la ripetizione. Al contrario se ci sono state carenze, insoddisfazioni, delusioni, queste esperienze possono essere recuperate, modificate e rese positive proprio attraverso una maggior consapevolezza. E la maternità rappresenta una seconda chance che consente a ciascuna di saldare i crediti contratti nell’infanzia. Questo permette la trasformazione di un rapporto con la propria madre da bambino–genitore a adulto-adulto (Stewart, Joines 1987)..
L’amore materno è un sentimento umano: vivo mutevole mai definito una volta per tutte. E’ ambivalente, come tutti i grandi sentimenti: capace di assorbire anche emozioni che sembrano in contrasto con le sue caratteristiche più riconosciute e accettate come la tenerezza, la dedizione, la gioia. Ci sono anche i dubbi, i timori, il senso di incapacità, di colpa, la fatica, l’insofferenza e a volte la collera. E’ bene riconoscere questi sentimenti.
Il bambino come un adulto ha bisogno di un sentimento vero non di un affetto perfetto, così come non ha bisogno di una mamma perfetta ma sufficientemente buona: capace di tollerare sia la fatica e la preoccupazione dell’essere madre, sia i lati più oscuri, ambivalenti del suo amore (Winnicott, 1970). Riconoscerli permette di accettarli ed è il modo migliore per non sentirsi sopraffatte da limitanti paure e sensi di colpa.
Questo articolo, vuole essere uno spunto per approfondire e sottolineare l’importanza del sostegno alla maternità in quanto il periodo successivo al parto è stato descritto come ad alto rischio per la salute mentale della donna.
Per la maternità da un punto di vista sanitario e legislativo si è ottenuto molto ma ho sentito ancora molto silenzio rispetto all’intima esperienza psicologica della maternità che determina nella vita interiore di una madre straordinarie e travolgenti emozioni. Eppure non è in questo mondo soggettivo che vivono le madri ogni giorno accanto al proprio bambino? Non è la nostra realtà soggettiva che ci guida nelle interazioni? La relazione madre-bambino non è in stretta relazione al mondo interno della madre?
Credo che il panorama sia ancora molto confuso in quanto si tende a trattare questa tipologia di utenza, le neomamme, in modo molto superficiale senza prendere adeguatamente in considerazione il disagio psicologico sottostante la maternità, che può svilupparsi in una patologia.
Prevenzione nella maternità
Una buona azione preventiva del disagio alla maternità può svilupparsi su tre livelli:
Livello divulgativo
Informare la donna dei rischi della maternità sulla sfera esterna ed interna. Le donne devono essere informate in modo particolare su quali sono i processi ed i fenomeni intrapsichici che naturalmente la possono coinvolgere.
Livello intrapsichico
Aiutare la donna a ridurre le proprie aspettative legate alla maternità. La donna deve poter essere indirizzata a mantenere la centralità sul proprio sé, visualizzando i suoi bisogni e le sue necessità di donna, al di là di essere madre. (molto difficile, soprattutto se non si dispone di una rete di sostegno. In Italia le mamme vengono lasciate sole con il proprio figlio, non esiste un servizio nazionale di sostegno)
Livello sociale sostegno sociale
Garantire alla donna i supporti o rete sociale. Il vissuto della maternità, quando va bene, rimane un discorso privato fra le donne, oggetto di confidenze, di sfoghi, di confronti dubbiosi in assenza di modelli di riferimento concreti. Non riesce a divenire un sapere in qualche modo visibile e condivisibile, esperienza confrontabile e utilizzabile al di là del consiglio tra amiche e sorelle.
In definitiva quindi ritengo che prestare attenzione a questo disagio, non significhi solamente accoglierlo ma dare vita a un modello in grado di favorire la consapevolezza femminile sul proprio essere e sul poter divenire madre, non solo di corpi ma anche di significati sociali. Un modello che ricostruisca nuovi orizzonti di valore e di senso, al quale fare riferimento per trovare tra donne un legame e un sostegno sociale, che non miri all’indipendenza della madre che spesso rischia l’isolamento, ma miri al confronto e al reciproco supporto. Importante quindi creare spazi e tempi dedicati a valorizzare l’incontro e la condivisione.
L’atteggiamento materno una volta ridefinito può convertirsi in uno sguardo sul mondo, in uno stile comunicativo e comportamentale, in un modo di porsi in relazione con sé e con gli altri che determina una migliore qualità della vita, un miglior-essere. Si tratta di vedere al di la dello spazio privato.
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