Ci sono momenti in cui lo facciamo senza rendercene conto. Magari solo per qualche minuto, ci diciamo. Poi ci ritroviamo mezz’ora dopo, con le spalle contratte, lo sguardo opaco e una sensazione indefinita di stanchezza. Non abbiamo fatto nulla, eppure siamo svuotati. Cos’è successo in quella mezz’ora? Cosa accade davvero al nostro cervello mentre scrolliamo lo smartphone?
Non si tratta solo di “passare il tempo”. Oggi, quel gesto ripetuto — scorrere il dito sullo schermo — è diventato un rituale invisibile, una risposta automatica a ogni forma di vuoto: noia, stanchezza, ansia, solitudine. Ma ogni volta che lo facciamo, il cervello impara qualcosa. E spesso non è ciò che vorremmo.
In un’epoca in cui la connessione è costante, abbiamo perso il contatto con la nostra interiorità
Scrollare è diventato il nuovo modo di evitare il silenzio, di anestetizzare i pensieri, di fuggire dalle domande che ci abitano dentro. È un gesto semplice, ma nasconde un impatto profondo sulla nostra salute mentale ed emotiva. Il cervello, il nostro organo più plastico e sensibile agli stimoli, subisce trasformazioni sottili ma significative ogni volta che scegliamo la via dell’intrattenimento passivo invece della presenza consapevole.
In questo articolo ti porto dentro i meccanismi invisibili che lo scrolling innesca nella mente: tra neurotrasmettitori, attenzione selettiva, dissociazione e bisogni emotivi non ascoltati. Lo smartphone non è il nemico, ma può diventarlo quando prende il posto delle emozioni. E quando ci troviamo a vivere in superficie, senza accorgerci che stiamo smarrendo la profondità.
Il cervello ama la novità: dopamina, reward e micro-dipendenze
Lo scrolling ha un’architettura perfetta per il sistema dopaminergico. Ogni contenuto che appare sullo schermo è una “ricompensa potenziale”: un’immagine curiosa, un titolo provocatorio, un video emozionante. Il cervello riceve stimoli rapidi, intermittenti e imprevedibili — proprio la combinazione più efficace per attivare il sistema della ricompensa.
Non è la soddisfazione a tenerci incollati allo schermo, ma l’attesa della soddisfazione. È qui che la dopamina — neurotrasmettitore legato alla motivazione — entra in gioco. Scrollare attiva un circuito che ci tiene in uno stato di ricerca continua, simile a quello dei giochi d’azzardo: so che non tutto sarà interessante, ma forse la prossima cosa lo sarà. Ecco la trappola.
Con il tempo, il cervello impara a cercare sempre più stimoli, ma tollera sempre meno la calma. Ci si annoia facilmente, si fatica a concentrarsi, si sviluppa una tolleranza simile a quella di una dipendenza lieve: per ottenere la stessa soddisfazione, servono più contenuti, più tempo, più intensità.
Il default mode network: ciò che perdi mentre scrolli
Quando non siamo attivamente impegnati in un compito, il nostro cervello si attiva in una modalità interna chiamata default mode network (DMN). È il sistema che ci permette di riflettere su di noi stessi, rielaborare ricordi, immaginare scenari futuri, capire le emozioni. È nella DMN che nascono introspezione, consapevolezza, empatia.
Scrollare per ore, però, disattiva questo sistema. Perché ci mantiene costantemente “fuori da noi”: presi da contenuti esterni, il nostro cervello non ha lo spazio per fare ritorno all’interiorità. Così, ogni momento libero che potremmo dedicare al sentire viene occupato da uno stimolo visivo. Apparentemente innocuo, in realtà anestetico.
Più tempo passiamo in questa modalità reattiva, meno dimestichezza abbiamo con i nostri pensieri e le nostre emozioni. E il silenzio interiore, che potrebbe essere terreno fertile per la crescita, comincia a farci paura.
Il bisogno ancestrale di chiudere il cerchio: perché cadiamo nello scrolling
C’è un meccanismo psicologico molto antico che spiega perché facciamo così tanta fatica a interrompere lo scrolling: si chiama bisogno di chiusura cognitiva. È il desiderio di arrivare a una fine, a una risposta, a una conclusione che dia un senso a ciò che stiamo osservando.
Nella nostra storia evolutiva, questo bisogno ha avuto una funzione cruciale: ci ha permesso di sopravvivere in un mondo incerto. Quando il cervello rileva un’informazione incompleta — un rumore nel buio, un movimento sospetto, una scena lasciata a metà — si attiva per trovare una spiegazione, una “chiusura” che plachi l’ansia dell’ambiguità. La mente umana detesta le cose lasciate a metà.
Ecco perché i feed infiniti sono così pericolosi: non finiscono mai. Ogni post che scorre davanti ai nostri occhi è un piccolo frammento. Un titolo non concluso. Una storia appena accennata. Una domanda implicita. La mente, in automatico, cerca di chiudere ogni ciclo, ma il contenuto successivo lo riapre. Così restiamo intrappolati in un loop che imita la completezza… senza mai offrirla davvero.
A livello neurobiologico, questo attiva una tensione costante nel sistema attentivo e nel circuito dopaminergico: sto per trovare qualcosa… ma ancora no… forse il prossimo contenuto… ancora no…. È il bias della chiusura cognitiva che ci tiene incollati allo schermo, alimentando un senso di urgenza e incompletezza.
Ma la verità è che il senso non arriva mai. Perché quello che stiamo cercando — una risposta, un’emozione piena, un significato — non si trova in un feed, ma in un’esperienza emotiva vissuta fino in fondo. In una relazione. In un pensiero lasciato maturare. In un silenzio abitato, non evitato.
L’attenzione si spezza: effetto frammentazione e perdita di profondità
Ogni volta che passiamo da un contenuto all’altro con uno swipe, stiamo allenando il cervello alla frammentazione. I circuiti attentivi non si sviluppano verso la profondità, ma verso la reattività immediata. È il trionfo dell’attenzione superficiale: quella che osserva ma non contempla, che coglie ma non comprende.
Nel tempo, questa abitudine altera la soglia attentiva: leggere un libro diventa difficile, ascoltare una persona fino in fondo richiede uno sforzo enorme, riflettere in modo articolato appare faticoso. Si innesca una forma di astenia cognitiva: non perché siamo pigri, ma perché il cervello, letteralmente, non è più allenato a restare.
Questo fenomeno ha un nome: adattamento cognitivo all’immediatezza. È come se la mente, abituata a cambiare stimolo ogni tre secondi, rifiutasse qualsiasi cosa che richieda lentezza, attesa, presenza.
Dissociazione digitale: il corpo c’è, la mente è altrove
Scrollare non è solo un comportamento cognitivo: è anche un meccanismo difensivo. Ogni volta che ci sentiamo sopraffatti da un’emozione — tristezza, ansia, solitudine, frustrazione — il gesto automatico dello scrolling ci offre una via d’uscita sensoriale. Lo smartphone diventa una sorta di anestetico emotivo: non cura, ma stordisce.
A livello psicoanalitico, si può parlare di dissociazione digitale: una scissione tra il sentire interno e la percezione esterna. Il corpo è seduto, ma la mente è altrove. Il tempo passa, ma non viene vissuto. L’esperienza non viene integrata, ma saltata. In questo stato, l’identità si diluisce: non ci sentiamo davvero presenti, ma non siamo nemmeno del tutto assenti.
Per alcuni, soprattutto se portano con sé ferite emotive non elaborate, lo scrolling rappresenta una forma di fuga silenziosa: un modo per evitare contatti troppo profondi, dentro e fuori. Ma ciò che evitiamo non scompare: resta in attesa. E spesso torna con maggiore forza, sotto forma di ansia, svuotamento, insonnia.
Il senso di vuoto post-scroll: un effetto reale (e spiegabile)
Hai mai provato quella sensazione dopo mezz’ora passata a scrollare? Un misto di stanchezza, irritabilità e… niente. Nessuna emozione precisa, solo una vaga spossatezza mentale. Questo stato ha una spiegazione.
Quando il sistema dopaminergico viene iperstimolato senza ricompense vere (cioè senza soddisfazioni concrete o relazionali), si innesca una disregolazione del circuito motivazionale. È come se il cervello dicesse: “Sto cercando qualcosa, ma non lo trovo”. Ogni scroll rafforza la ricerca, ma non la soddisfa. Alla fine, il risultato è un vuoto neurobiologico.
A questo si aggiunge il cortisolo — ormone dello stress — che può aumentare in caso di esposizione prolungata a contenuti ansiogeni o eccessivamente stimolanti. L’effetto finale? Il corpo è teso, il cervello è stanco, e tu ti senti esausto… senza aver fatto nulla.
Lo smartphone non è il problema. Ma va ripensato
Il punto non è demonizzare lo smartphone. È uno strumento. Può essere utile, connessivo, creativo. Ma quando diventa una protesi emozionale, qualcosa si incrina. Il problema è come lo usiamo quando non sappiamo stare con noi stessi. Quando riempiamo ogni attimo vuoto per non sentire. Quando il silenzio ci spaventa più di uno schermo acceso.
Per molte persone, smettere di scrollare significa tornare a sentire: la noia, la tristezza, la solitudine. Ma anche il desiderio, l’immaginazione, l’ispirazione. Ciò che all’inizio fa male, col tempo si rivela una porta d’accesso a una vita più piena. Una vita dove siamo presenti. Interi.
Se il cervello è saturo, la felicità si spegne
Scrollare per ore non ci rende solo più distratti. Ci rende più distanti da noi stessi. Il cervello diventa saturo, l’anima si spegne un po’, e la vita scivola in una zona grigia: né infelice, né viva. Una zona di anestesia sottile dove perdiamo l’accesso alla parte più autentica di noi.
La felicità, quella vera, non nasce da una scarica di dopamina. Nasce dalla connessione con noi stessi, dalla coerenza tra ciò che proviamo e ciò che facciamo, dalla capacità di sentire il presente senza doverlo riempire di continuo. Ma per farlo serve allenare la mente alla profondità. Serve silenzio. Attesa. Cura.
Recuperare presenza non significa eliminare la tecnologia, ma ritornare padroni del nostro tempo mentale. Significa imparare a restare. A rallentare. A tollerare il vuoto, senza correre a riempirlo. Perché è lì, in quel vuoto, che spesso ritroviamo noi stessi.
E se ti sei riconosciuto in questo meccanismo, se senti che il tuo bisogno di evasione sta prendendo il sopravvento sulla tua libertà, sappi che non sei solo. Uscire da questo schema è possibile, e spesso il primo passo non è lo sforzo, ma la consapevolezza. Una consapevolezza che va coltivata, custodita, protetta dagli stimoli che ci bombardano ogni giorno.
Nel mio libro “Il mondo con i tuoi occhi” accompagno il lettore in un viaggio per uscire dai costrutti automatici che ci allontanano da noi stessi. Anche quelli digitali. Per ritrovare, al di là degli schermi e delle aspettative, uno spazio in cui sentire — finalmente — che siamo interi, presenti, vivi. Il mio libro è disponibile in libreria e qui su Amazon
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