Quando si parla di un’infanzia difficile, le rappresentazioni mentali che possiamo farci sono tantissime. Anzitutto, ha avuto un’infanzia difficile il bambino che ha dovuto preoccuparsi per i suoi genitori. Il bambino che è stato trascurato, quello puntualmente messo da parte, il bambino cresciuto all’ombra di un fratello che catalizzava su di sé tutte le attenzioni. Un’infanzia difficile l’hanno avuta i figli di genitori narcisisti, istrionici, dipendenti o che avevano troppi problemi personali -economici o di salute- per garantire un buon accudimento alla prole. Ancora di più, un’infanzia difficile l’ha avuta chi ha subito abusi.
Se nell’immaginario comune «ciò che non ti uccide ti fortifica», ci sono delle più concrete realtà che vorrei portare alla tua attenzione per farti riflettere sui molteplici risvolti di chi non ha potuto concedersi la giusta leggerezza, libertà e spensieratezza durante l’infanzia.
Gli effetti e le colpevolizzazioni
Le conseguenze di un vissuto traumatico infantile sono molteplici ma troppo spesso non sono riconosciute come tali, anzi, si suppone che siano “capricci” o “attitudini” personali. Non si considerano come degli “adattamenti evolutivi”. Sì, perché in ogni giorno della tua vita tu e tutti i tuoi sistemi cognitivi, si sono sforzati al massimo per adattarsi nell’ambiente di sviluppo, cioè nei legami che gli altri stringevano con te. L’ambiente di sviluppo per eccellenza, di ogni bambino, infatti, è il legame con la figura di riferimento (o le figure) principale. Spesso, purtroppo, quel legame è stato traumatico. Nelle scienze psicologiche, infatti, si parla molto di legame traumatico. Il legame traumatico è descritto come un “trauma invisibile” perché il bambino e chi lo perpetua, normalizzano le dinamiche dolorose senza mai attenzionarle.
Allora cosa accade? Nella vita adulta, emergono gli effetti senza mai collegarli direttamente ai vissuti esperiti nell’infanzia. Anzi, addirittura, spesso gli effetti vengono usati per colpevolizzare ulteriormente la persona, come se fosse di per sé difettosa e non come se si fosse dovuta adattare a un ambiente traumatico e spesso disastroso! Per esempio, se «sei troppo sensibile» o sei una persona «troppo appiccicosa», «troppo ansiosa», «troppo insicura» (e così via), tutti ti diranno di “piantarla”, di “non esagerare” o «di fartene una ragione! Perché la vita va così». Nessuno si soffermerà a riflettere su cosa ti ha indotto a essere appiccicoso, ipersensibile, ansiosa…
E questo è l’approccio che anche tu hai con te stesso. Se mangi troppo e non riesci a fare una dieta, pensi che ci sia qualcosa che non va in te, nella tua volontà, non pensi certo «sento l’irrefrenabile bisogno di mangiare perché tanti anni fa ho dovuto distaccarmi dalla mia componente emotiva e il cibo è l’espediente che ho trovato per regolare il caos che provo dentro». E così anche se non riesci a lasciare un partner che ti fa soffrire, se non riesci a farti rispettare dai tuoi colleghi di lavoro (…). Ti colpevolizzi per delle caratteristiche che hai dovuto sviluppare per proteggerti e, in definitiva, per sopravvivere e adattarti in un ambiente difficile. E tutto questo è grottesco, una grande beffa. Perché almeno tu meriti di concedertela quella comprensione che fino a oggi nessuno ti ha davvero mostrato.
Le mancanze e il senso di completezza
Nella vita da adulti ci ritroviamo da un lato a colpevolizzarci per ciò che siamo (o che non siamo diventati) e dall’altro, sentiamo che qualcosa ci manca. Percepiamo una sorta di mancanza non ben definita che non sappiamo come colmare. Allora proviamo a farlo dall’esterno. Spostiamo tutto sul corpo, lanciando lì le nostre insicurezze e paranoie. Ripieghiamo sulla carriera o sul confronto sociale. Pensiamo che acquisire nuovi beni materiali ci faccia stare meglio, ci faccia sentire più completi, più sicuri. Oppure, come capita nella maggior parte dei casi, vorremmo compensare qualsiasi mancanza mediante la nostra vita sentimentale. La vita amorosa, infatti, diviene la nostra inconsapevole via di fuga. Scappiamo da noi stessi, dai nostri dolori ancestrali, dalle nostre mancanze e ogni espediente è buono.
Ti dico una cosa: chi non ha vissuto un trauma relazionale ha una percezione di sé come integra, sicura, completa, degna d’amore e di stima. Ha una percezione di pienezza che adesso, per quanto è distante da te e dal tuo mondo interiore, non riesci neanche a immaginare. Però posso aiutarti. Ripensa a tutto ciò che hai fatto nella tua vita. C’è stato un momento in cui ti sei sentito orgoglioso di te? Per qualcosa che hai fatto? Allora concentrati su quella sensazione. Beh, sappi che chi è in pace con se stesso non ha bisogno di “fare qualcosa” per stimarsi. Si stima e si accetta in modo incondizionato, è mosso dalla fiducia che nutre intimamente per se stesso e nel suo quotidiano, è accompagnato da un senso di pienezza che, lavorando su te stesso, anche tu puoi costruire.
Le rinunce e il senso di diversità
Questo è l’apice. L’aspetto più sottovalutato di tutti e, per certi aspetti, anche il più doloroso. È sottovalutato perché chi vive un’infanzia traumatica serba intimamente l’illusione che “tutto sommato non è andata poi così male”. Tuttavia, sappi che se arrivi in età adulta sentendoti profondamente diverso da tutti e, diciamocelo, anche fuori dal mondo, tutto sommato, non deve esserti andata poi così bene. I meccanismi di difesa sono tantissimi: il mondo, il gruppo, la società…. Vengono rappresentati interiormente come qualcosa di brutto addirittura da disprezzare o come qualcosa di pericoloso.
Però, se insieme a questi sentimenti di spregio nei confronti di “chi fa gruppo” emerge anche una certa nostalgia di ciò che poteva essere ma non è stato, una certa mancanza di un senso di appartenenza a un insieme, a un collettivo, allora sappi che stai attuando un meccanismo distorsivo. Un po’ come nella favola di Esopo, in cui la volpe non potendo arrivare all’uva concluse che era acerba. Stai sminuendo ciò che più di tutto ti manca: il senso di appartenenza. A monte di tutto ci sono delle rinunce forzate.
Quando si parla di vissuti difficili durante l’infanzia, ci si dimentica questi bambini cosa hanno dovuto inconsapevolmente rinunciare. Tu, a cosa sei stato costretto a rinunciare. Lascia che sia io a dirtelo. Prima di tutto sei stato costretto a rinunciare proprio alla genuina vicinanza. Sì, perché per quanto vicini possano essere stati i tuoi affetti, i tuoi familiari, tu eri costretto ad “assumere un ruolo” che non ti apparteneva. Eri costretto ad assumere quell’adattamento evolutivo a scapito di chi eri davvero.
Ti faccio un esempio pratico: se la tua figura di riferimento (per esempio, tua mamma), era molto fragile e bisognosa, tu eri costretto a essere forte e coraggioso, sempre. Per esserlo, hai dovuto iper-responsabilizzarti. Ecco un altro esempio comune: se sei cresciuto all’ombra di un fratello, hai dovuto sempre “fare da spalla”, anche quando avevi voglia di un’identità primeggiante, tutta tua. Costringendo te stesso a essere ciò che non eri, assumendo quel ruolo, la vicinanza che ne conseguiva era sempre subordinata a quel ruolo. Non hai mai sperimentato accettazione e vicinanza per ciò che eri e che sentivi. È qualcosa di molto difficile da comprendere.
Spazio sottratto, sogni rubati
I vissuti difficili nell’infanzia generano emozioni dirompenti che rubano spazio ai sogni, sottraggono spirito d’iniziativa e operosità, demoliscono spensieratezza e ti fanno arrivare in età adulta disorientato. Con tante idee su chi sei e ancora tanta fame su chi avresti voluto essere. La verità è che un bambino iper-protetto o che abbia subito qualsiasi forma di pressione genitoriale, non ha avuto la possibilità di sperimentarsi. Non ha conosciuto libertà.
Quando poi arrivano abusi indicibili come violenze verbali, umiliazioni, violenze fisiche o abusi sessuali, le rinunce sono ancora più devastanti. Si rinuncia a vivere la sicurezza sotto ogni aspetto. Se la figura che più di tutte avrebbe dovuto proteggerti ti ferisce, la fiducia diventa un concetto che non ci apparterrà mai completamente.
Non importa oggi quanti anni tu abbia, non importa quante volte sei scivolato o quante altre sei rimasto imprigionato in emozioni scomode. Ciò che conta è che un’opportunità puoi concedertela. Puoi tenderti la mano e iniziare a garantirti quella libertà necessaria per esplorati, conoscerti e affermare la tua identità personale a prescindere dal ruolo che ti è stato conferito nel tuo ambiente, nei tuoi legami. È possibile e anzi, lo devi a te stesso. Puoi deviare il corso della tua traiettoria evolutiva e fare in modo che ciò che sei coincida in modo definitivo con ciò che vuoi essere.
Questo passaggio non arriva con fatica, è mediato dalla semplice libertà. Una libertà che, come ti spiegavo, non hai mai potuto sperimentare. Se vuoi smettere di fare rinunce e concederti lo spazio per affermare chi sei, ti consiglio la lettura del mio libro «il mondo con i tuoi occhi». Puoi trovarlo in tutte le librerie o su amazon, a questa pagina.
Autore: Anna De Simone, psicologo esperto in psicobiologia
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