Cose che chi ha avuto un’infanzia difficile non riesce (quasi mai) a fare

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Dottoressa in psicologia, esperta e ricercatrice in psicoanalisi. Scrittrice e fondatore di Psicoadvisor

Ti sei mai chiesto perché alcune persone sembrano avere una leggerezza naturale nell’affrontare la vita, mentre ad altre tutto pesa di più? C’è chi sa fidarsi con facilità, chi riesce a dire “no” senza colpa, chi vive la felicità senza sospetto. E poi ci sono quelli che, pur desiderando le stesse cose, si sentono bloccati da fili invisibili.

Questi fili spesso nascono molto prima dell’età adulta

Si intrecciano nell’infanzia, nel modo in cui siamo stati accolti, contenuti, ascoltati. Non si tratta di colpe, ma di mancanze. Un bambino che cresce in un ambiente instabile, freddo o contraddittorio, impara presto a sopravvivere. E quelle stesse strategie di sopravvivenza, diventate automatismi, impediscono da adulti di vivere appieno.

5 cose che non fa chi ha avuto un infanzia difficile

Non sono scelte consapevoli: nessuno decide di avere paura della calma o di sentirsi in colpa per un “no”. Sono copioni interiorizzati, scritti nel corpo e nella psiche. Vediamo allora 5 cose che chi ha avuto un’infanzia difficile non riesce (quasi mai) a fare, e come queste difficoltà si manifestano in coppia, sul lavoro e nelle amicizie.

1. Fidarsi davvero

La fiducia è la base di ogni legame. Ma per chi è cresciuto in un ambiente imprevedibile, fidarsi significa esporsi a un rischio troppo alto.
Un bambino che ha sperimentato promesse mancate, abbandoni emotivi o incoerenza genitoriale ha imparato che “fidarsi” equivale a restare ferito.

  • In coppia: la persona chiede continue rassicurazioni, controlla, fatica a credere alle parole dell’altro. Ogni distanza diventa un segnale di possibile abbandono.
  • Sul lavoro: difficoltà a delegare, bisogno di controllare tutto, sospetto verso colleghi o superiori.
  • Nelle amicizie: paura di aprirsi, condivisione parziale di sé, timore che ogni confidenza si trasformi in un’arma contro.

Questa diffidenza non nasce da mancanza di amore per l’altro, ma da un sistema nervoso che ha imparato a difendersi prima ancora di potersi fidare.

2. Dire “no” senza sentirsi in colpa

Chi ha vissuto un’infanzia difficile spesso è cresciuto con un amore condizionato: “ti voglio bene se sei bravo”, “sei degno se non disturbi”, “sei accettato se non fai arrabbiare nessuno”.
Da adulti, questo si traduce in incapacità di mettere confini.

  • In coppia: si accettano comportamenti irrispettosi per paura che il partner se ne vada.
  • Sul lavoro: si dice sempre “sì”, caricandosi di compiti extra, fino al burnout.
  • Nelle amicizie: si diventa il “salvatore” del gruppo, quello che c’è sempre, anche a costo di annullarsi.

Il “no” diventa sinonimo di colpa. Ma non è un capriccio: è un riflesso nato dal bisogno infantile di non perdere le poche briciole di amore ricevute.

3. Sentirsi abbastanza

Un messaggio tossico che molti bambini assorbono è: “Non vali di per te, devi meritarti tutto.”
Questo schema diventa un tormento adulto. Non importa quanto si ottenga: resta sempre la sensazione di non essere mai sufficienti.

  • In coppia: paura costante di non essere all’altezza, ricerca ossessiva di conferme.
  • Sul lavoro: perfezionismo, sovraccarico, incapacità di celebrare i risultati.
  • Nelle amicizie: paura di annoiare, timore di non dare abbastanza, ansia da prestazione anche nelle relazioni affettive.

Il successo non viene mai interiorizzato: si resta in una corsa continua che logora e svuota.

4. Lasciarsi andare alla felicità

Per chi ha avuto un’infanzia difficile, la felicità può sembrare un inganno. Da bambini, ogni volta che si intravedeva uno spiraglio di gioia, arrivava spesso la delusione: un genitore che si arrabbiava, una promessa non mantenuta, un improvviso silenzio. Il corpo allora ha imparato ad associare il piacere al pericolo.

  • In coppia: si teme che un momento di intimità sia il preludio a un distacco.
  • Sul lavoro: non ci si gode un successo, perché già si pensa al prossimo fallimento.
  • Nelle amicizie: si ha paura di essere troppo felici insieme, come se la gioia fosse destinata a svanire.

Così nasce l’autosabotaggio: non ci si permette di essere felici fino in fondo, per paura che la caduta faccia troppo male.

5. Sentirsi al sicuro nella calma

Forse la ferita più invisibile: chi ha avuto un’infanzia difficile non riconosce la calma come pace.
Il silenzio in casa da bambini era spesso la quiete che precedeva la tempesta. La calma era un vuoto in cui covava la paura.

  • In coppia: si ricercano discussioni continue, perché il conflitto sembra più familiare della serenità.
  • Sul lavoro: ci si butta in mille progetti contemporanei, incapaci di tollerare la pausa.
  • Nelle amicizie: si teme il silenzio tra una chiamata e l’altra, si interpreta la calma come disinteresse.

Per questo, da adulti, il silenzio e la quiete possono sembrare insopportabili. La vera rivoluzione interiore arriva quando si impara che la calma non è minaccia, ma rifugio.

Il corpo come archivio

Il sistema nervoso non dimentica. Nei bambini, l’asse ipotalamo-ipofisi-surrene (HPA) è delicatissimo: un ambiente instabile mantiene attiva l’allerta, con rilascio costante di cortisolo.
Il cervello cresce dentro un paesaggio chimico alterato. Da adulti, questo significa insonnia, ipervigilanza, ansia.

Perciò non basta “decidere” di fidarsi o rilassarsi: il corpo continua a rispondere come se il pericolo fosse ancora lì.

I copioni inconsci

In psicoanalisi si parla di copioni: strategie infantili che diventano automatismi.

  • Il bambino che tace per non essere umiliato, diventa adulto incapace di esprimere rabbia.
  • Quello che sorride per non perdere amore, diventa adulto che compiace.
  • Il bambino che si prende cura degli altri per sentirsi utile, diventa l’adulto che si dimentica di sé per salvare tutti.
  • Il bambino che si nasconde per non dare fastidio, diventa l’adulto che si rende invisibile nelle relazioni.
  • Il bambino che ingoia le lacrime per non essere deriso, diventa l’adulto che non sa più piangere, neppure quando soffre.
  • Il bambino che si colpevolizza per i litigi dei genitori, diventa l’adulto che si sente responsabile di tutto e di tutti.
  • Il bambino che impara a essere “forte” troppo presto, diventa l’adulto che non chiede mai aiuto, anche quando ne ha disperatamente bisogno.

Non è una scelta, è lealtà a un copione che un tempo garantiva sopravvivenza.

La nostalgia di ciò che non c’è mai stato

Una delle ferite più sottili è la nostalgia di un’infanzia mai vissuta.
Non si rimpiange solo ciò che si è perso, ma ciò che non si è mai avuto: uno sguardo che conforta, una carezza che rassicura.

Questa nostalgia silenziosa diventa ricerca spasmodica di approvazione, attaccamento a relazioni tossiche, bisogno di colmare un vuoto che non ha mai avuto forma.

Educazione emotiva come rivoluzione

Se ti sei riconosciuto in queste difficoltà, la prima cosa da sapere è che non sei sbagliato. Le tue fatiche non parlano di debolezza, ma di strategie che un tempo ti hanno permesso di sopravvivere. Fidarsi, dire “no”, sentirsi abbastanza, lasciarsi andare alla felicità, trovare sicurezza nella calma… non sono conquiste scontate, ma passaggi che richiedono un lavoro interiore profondo quando non hai avuto un’infanzia capace di offrirti questi strumenti.

La verità è che non possiamo tornare indietro a cambiare ciò che è stato. Non possiamo riscrivere la nostra infanzia. Ma possiamo restituire all’adulto che siamo ciò che il bambino non ha ricevuto.
E questo, oggi, ha un nome: educazione emotiva.

Educazione emotiva significa imparare a stare dentro i propri vissuti, senza negarli o reprimerli. Significa ascoltare il corpo che parla attraverso l’ansia, la tensione, l’insonnia, e riconoscere che non è il nemico, ma il messaggero.
Vuol dire concedersi il diritto di provare rabbia senza sentirsi cattivi, tristezza senza sentirsi deboli, gioia senza sospetto.

È un lavoro lento, a volte doloroso, ma trasformativo. Perché non basta capire con la testa: bisogna imparare a sentire diversamente, a dare nuove risposte al proprio sistema nervoso, a riscrivere i copioni interiori. E quando inizi a farlo, qualcosa cambia. Ti accorgi che puoi dire “no” e restare amato. Che puoi fermarti senza pericolo. Che puoi respirare nella calma senza aspettare la tempesta. Che puoi sorridere senza temere che qualcuno venga a spegnere quella luce.

Ed è proprio da questa consapevolezza che nasce il mio nuovo libro, “Lascia che la felicità accada” (Rizzoli, uscita il 28 ottobre, già disponibile in preorder). Non un manuale teorico, ma un percorso che intreccia psicoanalisi e neuroscienze per mostrarti come trasformare il peso della tua storia in radici nuove.
Non per “guarire” come se fossi stato rotto, ma per imparare a vivere nonostante, e anzi attraverso quelle ferite.

Il cuore del libro è questo: la felicità non si costruisce con lo sforzo di essere perfetti o con l’illusione di cancellare il passato. Accade quando impari a stare dentro le tue emozioni, a regolarle, a trasformarle in risorse.
Accade quando smetti di cercare fuori ciò che puoi coltivare dentro. Accade quando ti concedi di lasciare andare la sopravvivenza per aprirti alla vita.

Perché la felicità non è un traguardo da rincorrere, ma uno stato che si manifesta quando smetti di combattere con te stesso. E allora sì, “lasciare che la felicità accada” diventa la tua più grande rivoluzione interiore. Il libro è già disponibile a questo link su Amazon per il preorder…ti aspetto tra le pagine

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