
Non ci ha resi più resilienti, più capaci di amare o più saggi. Ci ha insegnato, piuttosto, a sopravvivere. Ci ha insegnato a dubitare di noi stessi, a diffidare degli altri, a reprimere ciò che sentiamo. Ha confuso nei nostri circuiti neurali il legame tra amore e dolore, ha trasformato il futuro in una minaccia invece che in una possibilità.
La sofferenza emotiva non è stata una maestra benevola, ma una scuola crudele
Ha inciso nella nostra memoria modelli difensivi che oggi continuiamo a riprodurre, spesso senza accorgercene. La psicoanalisi li chiama “meccanismi di difesa”, le neuroscienze parlano di “fear memories” e di sistemi di allarme cronicamente attivati. Ma il senso non cambia: invece di aprirci alla vita, la sofferenza ci ha insegnato a restringerla.
Cose che ci ha insegnato la sofferenza emotiva
La sofferenza infantile non ci ha insegnato a crescere, ma a difenderci. Non ci ha aperti al mondo, ci ha insegnato a ridurlo per non soffrire ancora. Le “lezioni” che ci ha lasciato dentro non parlano di libertà o fiducia, ma di sopravvivenza, dubbi e rinunce. Vediamole insiem
1. Ci ha insegnato a sopravvivere, non a vivere
Il bambino che cresce in un ambiente emotivamente doloroso non impara a esplorare il mondo, ma a restarci dentro senza soccombere. Sopravvivere significa adattarsi al minimo indispensabile: non chiedere, non disturbare, non far vedere la propria vulnerabilità.
Molti adulti portano dentro questa lezione: diventano iperadattati, capaci di reggere qualsiasi situazione ma incapaci di sentire piacere autentico. La vita si riduce a resistere, non a fiorire.
Dal punto di vista biologico, il sistema nervoso vive in modalità “minaccia” anziché “crescita”. Il corpo resta iperattivo, pronto a difendersi, a scappare o a compiacere pur di non perdere la fragile sicurezza conquistata. Non è un vivere pieno, ma un vivere in apnea.
2. Ci ha insegnato a dubitare di noi stessi
Un bambino che non viene accolto per ciò che è, che riceve svalutazioni o silenzi, sviluppa un dubbio radicale: “valgo davvero?”.
La psicoanalisi descrive questo processo come interiorizzazione di un Super-Io critico, una voce interna che punisce e svaluta. Le neuroscienze mostrano che il cervello in crescita, esposto a feedback negativi, struttura connessioni che facilitano l’autosvalutazione e la paura del fallimento.
Da adulti, questo si traduce in un costante auto-sabotaggio: ci convinciamo di non essere mai abbastanza, anche quando otteniamo risultati oggettivi. Il dubbio non è sano spirito critico: è un veleno che corrode dall’interno.
3. Ci ha insegnato a non fidarci degli altri
Un’infanzia segnata da incoerenza, rifiuto o tradimento imprime l’idea che gli altri non siano affidabili. Non importa se da adulti incontriamo persone buone: dentro di noi resta l’allarme.
L’amigdala, la centralina della paura, diventa ipersensibile: basta un piccolo segnale di distanza o ambiguità per scatenare sospetto, gelosia, paura di abbandono. È la logica della prevenzione: meglio diffidare subito che restare feriti di nuovo.
Il risultato? Relazioni adulte in cui è difficile lasciarsi andare, accogliere, costruire fiducia. La sofferenza non ha insegnato l’arte dell’amore, ma la paura del tradimento.
4. Ci ha insegnato a compiacere per non perdere amore
Molti bambini imparano presto una strategia sottile: sorridere anche quando soffrono, annullarsi per non disturbare, diventare “bravi” pur di non perdere l’affetto. La sofferenza emotiva insegna che il proprio bisogno non conta. Che per essere amati bisogna rinunciare a se stessi.
Da adulti, queste persone diventano maestri nel compiacere: partner che si cancellano per trattenere l’altro, lavoratori che non dicono mai di no, amici che sacrificano sempre se stessi. Ma dietro non c’è amore: c’è paura della solitudine.
5. Ci ha insegnato a reprimere le emozioni
Un bambino che viene punito per la rabbia, ridicolizzato per la tristezza o ignorato nella paura, non impara a gestire le emozioni: impara a nasconderle. Così l’adulto non sa dire “no” per paura di sembrare cattivo, non sa piangere per paura di essere debole, non sa chiedere aiuto per paura di essere ridicolizzato.
Il corpo, però, non dimentica. Le emozioni represse attivano comunque il sistema nervoso: tachicardia, tensioni muscolari, insonnia, malattie psicosomatiche. Ciò che non è espresso trova sempre una via sotterranea per farsi sentire.
6. Ci ha insegnato a confondere amore e dolore
Forse la lezione più crudele: se da piccoli abbiamo ricevuto un amore condizionato, legato a punizioni, silenzi o incoerenze, abbiamo interiorizzato l’idea che l’amore faccia male. In età adulta, questo schema diventa calamita per relazioni tossiche. Ci sentiamo attratti da partner inaccessibili, da amori instabili, perché riproducono ciò che il nostro cervello conosce: un legame dove il dolore è mescolato all’affetto.
La psicoanalisi parla di coazione a ripetere: cerchiamo nel presente ciò che conosciamo dal passato, anche se ci ferisce. Le neuroscienze mostrano che la dopamina – il neurotrasmettitore della ricompensa – viene rilasciata in modo ancora più intenso nei legami imprevedibili che in quelli sicuri. Così il dolore diventa paradossalmente eccitante.
7. Ci ha insegnato a vedere il futuro come minaccia
Un’infanzia senza sicurezza rende difficile immaginare un domani fiducioso. Il futuro diventa un luogo incerto, pieno di rischi.
Molti adulti che hanno sofferto da bambini non sognano, non desiderano, non osano: preferiscono restare nella zona conosciuta, anche se dolorosa. È l’effetto di un sistema limbico in allerta permanente, con livelli di cortisolo che logorano la motivazione e spengono la spinta vitale. Non c’è speranza, ma paura dell’ignoto. Il domani non è un luogo di possibilità, ma un terreno minato.
Perché la sofferenza non ci rende più forti (ma ci intrappola in previsioni di realtà)
La mente è un sistema predittivo: non reagisce al presente in modo neutro, ma lo filtra attraverso ciò che ha imparato. Le esperienze dolorose dell’infanzia diventano la lente con cui leggiamo ogni situazione.
Sono le fear memories, memorie traumatiche fissate nel circuito amigdala–ippocampo–corteccia prefrontale. Non spariscono: restano pronte ad attivarsi ogni volta che percepiamo un’ombra di minaccia. Così la vita adulta diventa una conferma costante delle paure infantili.
Il cortisolo, l’ormone dello stress, è la prova biologica di questo imprinting. In un’infanzia serena, il cortisolo sale solo di fronte a una minaccia e poi torna a valori basali. Ma in chi cresce nella sofferenza, il sistema si taratura su parametri anomali: il cortisolo resta alto troppo a lungo, o al contrario si abbassa in modo cronico dopo iperattivazioni ripetute. In entrambi i casi, il risultato è un corpo in allerta, che legge la realtà come un campo di pericoli.
Questo meccanismo non insegna resilienza: insegna ipervigilanza. La sofferenza ci ha insegnato ad anticipare il peggio, a diffidare della gioia, a vedere minacce anche dove non ci sono. Non ci ha aperti alla vita, ci ha chiusi dentro un sistema predittivo distorto.
La sofferenza emotiva non è stata una maestra di saggezza, ma di paura
Non ci ha insegnato a vivere meglio, ma a sopravvivere. Ci ha lasciato addosso la convinzione di doverci annullare per essere amati, la paura di fidarci, l’abitudine a reprimere ciò che sentiamo. Ha confuso nei nostri circuiti neuronali l’amore con il dolore, ha reso il futuro un terreno minato invece che un orizzonte.
Non dobbiamo cadere nella retorica che “il dolore fortifica”. Il dolore infantile, se non elaborato, non fortifica: lascia ferite che continuano a parlare attraverso il corpo, le relazioni, le scelte di ogni giorno. La vera forza nasce quando smettiamo di ascoltare quelle vecchie lezioni e iniziamo a scriverne di nuove. Guarire significa imparare ciò che la sofferenza non ci ha mai insegnato: fiducia, libertà, amore sicuro.
E se oggi ti senti fragile, insicuro, bloccato o inadeguato… non stai esagerando. Stai semplicemente dando voce a un dolore antico, un dolore che non ha ancora trovato accoglienza. Ogni volta che ti fermi, che resti con te stesso, che provi a dirti quelle parole che avresti voluto ascoltare da bambino… qualcosa inizia, lentamente, a guarire.
È proprio da questa consapevolezza che nasce il mio nuovissimo libro “Lascia che la felicità accada”. Non è un semplice saggio, né una raccolta di riflessioni: è un percorso guidato che ti accompagna a rileggere la tua storia emotiva con occhi nuovi. Pagina dopo pagina, ti aiuta a riconoscere le memorie che porti dentro – i modi di pensare, reagire e amare ereditati – e a separarti da ciò che non ti appartiene più. Perché c’è una grande differenza tra essere cresciuti ed essere guariti.
Questo libro è pensato per chi ha il coraggio di non adattarsi più a schemi che fanno soffrire e vuole cominciare a costruire una vita che rispecchi la propria autenticità. È rivolto a chi ha cercato l’amore solo fuori da sé e oggi vuole imparare a riconoscerlo dentro. Parla a chi sente di non aver ricevuto abbastanza, ma è pronto a diventare la propria fonte di nutrimento, cura e contenimento.
Se anche tu percepisci che dentro di te c’è ancora un bambino in attesa di essere visto, ascoltato e amato, questo libro può diventare la sua prima vera carezza. Perché le parole, quando sono autentiche, curano. E quando impari a rivolgerti a te stesso con verità e tenerezza, qualcosa si scioglie: il tuo mondo interiore comincia finalmente a respirare.
Ed è lì che la felicità accade. Il libro è già disponibile a questo link su Amazon…ti aspetto tra le pagine
E se ti va, seguimi sul mio profilo Instagram: @anamaria.sepe.
Ti aspetto lì per continuare il viaggio