Ti sei mai chiesto se davvero “sei fatto così” oppure se quel “così” sia stato il prezzo da pagare per sopravvivere a ciò che non potevi controllare da bambino? Ti sei mai accorto che alcuni tuoi modi di fare — il sorridere sempre, il minimizzare, l’aiutare tutti — ti costano una fatica enorme, eppure continui a pensarli come normalità?
Molti di noi crescono convinti che il carattere sia un destino: “Io sono indipendente”, “Io non ho bisogno di nessuno”, “Io sono ansioso di natura”. Ma spesso non è natura: è adattamento.
Il trauma non è solo un evento drammatico
È anche il silenzio che pesa a tavola, il genitore che non ti chiede mai come stai, lo sguardo che ti fa sentire inadeguato, la carezza che arriva solo se hai fatto il bravo. È un’invisibile frattura che ti insegna a sopravvivere, costruendo maschere e abitudini che poi confondi con la tua identità.
E così diventi adulto e credi che sia normale non chiedere mai aiuto, che sia educazione scusarsi sempre, che sia responsabilità controllare tutto. Ma non è normalità: è trauma sedimentato.
Scoprirlo non serve a colpevolizzare, ma a liberarsi. Perché se riconosci che certe abitudini non sono la tua essenza, puoi iniziare a distinguere chi sei davvero da ciò che hai imparato per difenderti. Ecco sei “cose” che forse hai sempre pensato fossero normali, ma che in realtà raccontano una storia molto più profonda.
1. Essere sempre la persona che non dà problemi
La scena quotidiana: sei in ufficio, il carico di lavoro aumenta e nessuno ti chiede se riesci a gestire. Tu sorridi, annuisci, dici “va bene, me ne occupo io”. Dentro senti la stanchezza che cresce, ma non ti passa neanche per la mente di dire “non ce la faccio”.
Ti sembra normale essere quello che non si lamenta mai. Anzi, ci tieni: non vuoi sembrare fragile, non vuoi disturbare. Ma quella che chiami forza è spesso un adattamento nato dall’infanzia.
Se da piccolo ogni volta che esprimevi un bisogno ricevevi freddezza, fastidio o silenzio, hai imparato che per avere un minimo di accoglienza dovevi sparire. “Non dar problemi” è stato il tuo biglietto per restare in relazione. Da adulto, questo si traduce in solitudine silenziosa. Vivi con l’idea che chiedere aiuto sia un peso per gli altri, e intanto ti condanni a una vita in cui nessuno ti vede davvero.
2. Scusarsi in continuazione
La scena quotidiana: sei al supermercato, passi con il carrello e qualcuno ti urta. Invece di aspettarti un “mi scusi” dall’altro, sei tu a dire subito “scusi!” come se fosse colpa tua. Oppure a cena con amici, prendi la parola, poi subito ti correggi: “Scusate, forse sto parlando troppo”.
Chiedere scusa di continuo sembra buona educazione, ma spesso è un riflesso appreso troppo presto. Significa aver interiorizzato l’idea che la propria esistenza sia ingombrante.
Il bambino che cresce in un ambiente instabile, dove ogni suo gesto può essere accolto o criticato senza preavviso, impara a chiedere scusa preventivamente. È una strategia: abbassare la testa prima che arrivi il colpo. E così, da adulto, ogni “scusa” diventa un modo per legittimare la tua presenza. Ma dietro c’è un messaggio invisibile: “Non ho diritto di occupare spazio senza chiedere perdono”.
3. Avere bisogno di controllare tutto
La scena quotidiana: stai organizzando una cena con amici. Gli altri propongono di portare qualcosa, ma tu ti senti in ansia: “Meglio che faccia tutto io, così sono sicura che vada bene”. Oppure in vacanza, hai preparato un itinerario minuto per minuto: se qualcosa salta, ti senti perso.
Molti chiamano questo atteggiamento “efficienza” o “perfezionismo”, ma è spesso il frutto del caos vissuto da bambini. Se da piccolo non potevi prevedere le reazioni di chi ti stava intorno, hai imparato che l’unico modo per sopravvivere era controllare tutto.
Da adulto, vivi con un sistema nervoso ipervigilante. Non ti rilassi mai davvero, perché temi che l’imprevisto possa travolgerti. E ti convinci che sia normalità. Ma quella che chiami responsabilità è spesso paura di fondo: la paura di rivivere il disordine emotivo che ti ha fatto male.
4. Non riuscire a stare fermi nell’intimità emotiva
La scena quotidiana: sei con il partner, vi guardate negli occhi in silenzio. Quel momento dovrebbe essere dolce, ma tu ti senti agitato. Ti alzi, prendi il telefono, cambi discorso. Oppure scherzi per spezzare la tensione.
Molti credono che sia un tratto del proprio carattere, “non amo le smancerie”. Ma a volte è il corpo che ricorda: da bambino, l’intimità non era sicura. Forse un abbraccio era seguito da una critica, forse l’affetto era condizionato. E così la vicinanza emotiva è diventata sinonimo di vulnerabilità e dolore.
Da adulto, scappi. Non per mancanza di amore, ma perché il tuo corpo ti dice che la vicinanza è pericolosa. Eppure continui a pensare che sia normale “avere bisogno dei propri spazi”.
5. Essere sempre iper disponibili per gli altri
La scena quotidiana: ricevi una chiamata all’ultimo momento: “Puoi aiutarmi a traslocare domani?” Tu hai mille impegni, sei stanco, ma rispondi subito “certo, nessun problema”. Poi passi il weekend a fare qualcosa che non volevi, e nessuno ti ringrazia neanche davvero.
Essere disponibili sembra una virtù, ma quando diventa l’unico modo per esistere, nasconde una ferita. Significa che hai imparato presto che l’amore va meritato. Che il tuo valore dipende da quanto servi gli altri.
Da adulto, ti consumi nell’aiutare tutti, anche quando nessuno fa lo stesso per te. Eppure lo chiami altruismo. Ma dentro c’è una paura antica: “Se non servo, non valgo”.
6. Confondere ansia con normalità
La scena quotidiana: ti svegli la mattina con il cuore che batte forte. Corri al lavoro, controlli mille cose insieme, passi la giornata in tensione. La sera sei esausto, ma non riesci a rilassarti. Ti sembra semplicemente “la vita moderna”.
In realtà, non è normalità: è il segno di un sistema nervoso che vive in allarme. Quando da bambino sei cresciuto nell’incertezza o nella paura, il tuo corpo ha imparato a tenersi pronto a tutto. L’amigdala è diventata un radar sempre acceso.
Da adulto, anche se non ci sono pericoli reali, il corpo continua a comportarsi come se ci fosse sempre una minaccia. Lo chiami “stress”, lo chiami “ritmo frenetico”, ma in fondo è solo trauma che non si è mai placato.
Il corpo come archivio silenzioso
Il trauma non resta nei ricordi: resta nei muscoli, nel respiro, nella pelle. È memoria implicita, che non ha bisogno di parole per riaffiorare. È quella tensione alle spalle che non passa mai, quel nodo allo stomaco senza motivo, quell’insonnia che non sai spiegarti.
Il corpo conserva ciò che la mente rimuove. Non distingue passato e presente. Reagisce oggi con la stessa paura di allora. E così ti convinci che sia normale sentirti sempre in allerta. Ma in realtà stai solo ascoltando l’eco di un passato che non hai scelto.
Le ferite invisibili della psicoanalisi
Freud parlava di difese psichiche: strategie che il bambino costruisce per proteggersi da ciò che non può gestire. Il silenzio, il compiacere, il ritiro, l’iperattivismo: tutte modalità di sopravvivenza.
Il problema è che queste difese, utili nell’infanzia, diventano gabbie nell’età adulta. Ci impediscono di vivere con autenticità, ci fanno confondere la corazza con l’identità.
La psicoanalisi ci invita a guardare queste difese non come colpe, ma come eredità. Riconoscerle è il primo passo per decidere consapevolmente se continuare a usarle o lasciarle andare.
Il coraggio di riconoscere
Accorgersi che ciò che pensavi normale è una risposta traumatica è doloroso. È come scoprire che parti di te non sono scelte, ma imposizioni. Ma è anche liberatorio.
Non si tratta di accusare i genitori, né di restare prigionieri del passato. Si tratta di dire: “Questo è ciò che ho fatto per sopravvivere. Ora, però, posso scegliere altro”.
Trasformare le risposte traumatiche
Ogni abitudine nata dal trauma porta un messaggio: “Sono sopravvissuto”. E proprio da lì può nascere la trasformazione.
- Il bisogno di non dare problemi può trasformarsi nella capacità di rispettare i bisogni altrui senza annullare i propri.
- Le scuse continue possono lasciare spazio al riconoscimento: “Ho diritto di occupare spazio senza chiedere perdono”.
- Il controllo può diventare responsabilità vera, non paura.
- La fuga dall’intimità può trasformarsi in apertura graduale, imparando che l’amore non sempre ferisce.
- L’iper disponibilità può evolvere in reciprocità: dare e ricevere.
- L’ansia può lentamente sciogliersi, lasciando spazio a momenti di sicurezza.
La guarigione non è mai un evento unico, ma un processo. È come insegnare al corpo nuove esperienze, così che impari a distinguere tra passato e presente.
Quante volte hai detto “sono fatto così” senza sapere che quel “così” era solo la voce di una ferita che parlava per te?
È destabilizzante scoprire che ciò che consideravi parte della tua identità è, in realtà, un adattamento nato dal dolore. Ma proprio in questa scoperta c’è un varco prezioso: il confine tra sopravvivenza e vita autentica.
Riconoscere le risposte traumatiche non significa condannarsi al passato, ma avere finalmente il coraggio di guardarlo negli occhi. È un atto di cura, un atto di amore verso te stesso. Perché solo quando distingui ciò che hai imparato per difenderti da ciò che ti appartiene davvero, puoi iniziare a scrivere una storia nuova.
Ed è proprio questo il cuore del mio libro “Il mondo con i tuoi occhi“. Ho scelto di chiamarlo così perché tutti noi viviamo imprigionati in mondi costruiti con gli occhi degli altri: dei genitori, della cultura, delle aspettative. Mondi che spesso ci fanno credere che la felicità sia in un modello già scritto: la famiglia perfetta, il lavoro di successo, la forza che non crolla mai. Ma la verità è che la felicità non nasce dal conformarsi a schemi, nasce dal ritrovare la propria voce interiore, quella che spesso abbiamo soffocato per paura di non essere amati.
Il libro non è una raccolta di teorie, ma un percorso emotivo e psicologico per imparare a guardarti davvero, senza più filtri. Ti accompagna a riconoscere i condizionamenti che ti hanno insegnato a sopravvivere, a vedere dove hai scambiato il trauma per carattere, e a scoprire che c’è un modo diverso di abitare la vita: un modo che non copia i modelli esterni, ma riflette chi sei tu.
Leggendo Il mondo con i tuoi occhi, non troverai ricette pronte o slogan motivazionali. Troverai strumenti per fare pace con la tua storia, per riconoscere i meccanismi interiori che ti hanno intrappolato e per costruire una felicità su misura, che non dipende dal consenso degli altri ma dalla tua autenticità.
Se hai riconosciuto in queste “cose” parti di te che pensavi normali ma che in realtà nascondono risposte traumatiche, allora questo libro può essere un compagno prezioso. Perché non ti dice semplicemente cosa cambiare: ti mostra come guarire. E guarire significa restituirti la libertà di non essere più definito dal tuo passato, ma dalle scelte che fai oggi.
Perché la verità è che non sei fatto “così”: sei molto di più. E quando impari a guardare il mondo con i tuoi occhi — e non con quelli che ti hanno imposto — inizi finalmente a vivere la vita che meriti. Il mio libro è disponibile in libreria e qui su Amazon
E se ti va, seguimi sul mio profilo Instagram: @anamaria.sepe.
Ti aspetto lì per continuare il viaggio