Dalla dipendenza affettiva alla riscoperta dell’amore per se stessi

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Ci hanno fatto credere che ognuno di noi è la metà di una mela e che la vita ha senso solo quando riusciamo a trovare l’altra metà. Non ci hanno detto che nasciamo interi, che mai nessuno nella nostra vita merita di portarsi sulle spalle la responsabilità di completare quello che ci manca.

A volerne fare un’estrema sintesi, potremmo dire che la bambina viene al mondo in una famiglia in cui i suoi bisogni non vengono visti, per motivi che possono anche essere molto diversi e che, proprio per la loro eterogeneità, non possono essere classificati: una madre depressa, un padre coinvolto in un crollo economico, la nascita di un fratello più bisognoso, un genitore narcisista, un genitore gravemente malato, uno abusante, un lutto improvviso, l’abbandono di uno o di entrambi i genitori ecc…

In questo contesto familiare, impara presto a non disturbare ulteriormente, “è già tutto così difficile per mamma e papà…” ma, non potendo rinunciare, come ogni figlio, all’amore dei suoi genitori metterà a punto delle strategie per assicurarsi la somministrazione di una dose d’amore anche minima: si comporterà bene, farà la brava, e prima o poi – pensa – qualcuno si accorgerà di lei. Quindi diventerà brava davvero: sarà brava a scuola, brava all’università, brava nel lavoro. Imparerà molte cose, soprattutto imparerà a fare da sola.

Terapeuti che non sono molto formati in dipendenza affettiva si trovano spesso spiazzati da quanto, le donne che giungono nei loro studi di psicoterapia portando un problema di dipendenza affettiva, siano incredibilmente competenti in tutto quello che fanno! Molti di loro se le immaginavano fragili, inconcludenti, dipendenti in tutto. Ma la loro competenza e bravura è assolutamente comprensibile se si conosce l’infanzia tipica che la maggior parte (attenzione, non tutte!) queste pazienti hanno vissuto.

In questo quadro, dove “far da sé” è la norma e “farlo bene” è la speranza di essere finalmente viste dai genitori, queste bambine smettono di guardare a sé stesse.

A loro cosa piace? Cosa desiderano? Cosa vorrebbero fare? Hanno sogni? Dove vorrebbero essere? A fare cosa?

Passano gli anni e diventano sempre più trasparenti, non solo a mamma e papà ma anche a loro stesse. Incontrano il primo amore, con lui fanno quello hanno imparato in famiglia, si comportano bene, sono accomodanti, aspettano gesti e segni d’amore, si mettono da parte per assecondare i suoi bisogni e desideri. E faranno così anche con quello che arriverà dopo.

Nell’affanno di dare, dare e ancora dare si comporteranno ignorando quel vuoto, formatosi quando erano solo delle bambine che non volevano offrire altre preoccupazioni a mamma e papà, e più passeranno gli anni più quel vuoto diventerà grande, fino al giorno in cui, spesso all’ennesimo abbandono del partner, il vuoto diventerà un baratro, troppo spaventoso per essere ignorato, troppo grande per essere riempito con altri partner, altra devozione e altro amore a senso unico.

Quello è il momento in cui, spesso, decidono di iniziare una psicoterapia.

Io me le ritrovo davanti e mi accorgo che da brave bambine hanno studiato tutto, sono competenti sulla dipendenza affettiva, se hanno avuto un partner narcisista sanno tutto sul narcisismo, usano termini tecnici, hanno visto decine di video, letto libri e articoli, sono precise e dettagliate nei racconti, qualcuna si preoccupa di essere stata brava anche con me e di non avermi disturbata troppo: “dottoressa sono stata abbastanza chiara? Spero di non essermi dilungata, di non averla annoiata…”.

Moltissime dichiarano persino di sapere cosa dovrebbero fare per stare meglio: “imparare ad amarsi”. Ed è proprio quando in seduta affrontiamo questo argomento che tutta la loro competenza svanisce, che in un baleno tornano bambine, sembrano occupare di nuovo pochissimo spazio, sul divano e dentro la stanza, hanno sguardi tristi e interrogativi e mi chiedono con una voce adulta che vibra però come quella di una bambina:

“Come si fa?” “Come si fa, dottoressa, ad amarsi si più?”

E in un attimo sono le bambine di allora, quelle che si sono scordate di loro stesse, dei loro desideri, dei loro sogni, quelle che non hanno potuto desiderare né sognare nulla perché nelle loro famiglie non c’era spazio per i loro sogni e i loro desideri. Allora la stanza di terapia diventa il luogo generativo dei sogni, dei progetti per il futuro, degli hobbies, dei desideri, dello spazio per sé e delle nuove sfide.

La strada che dalla dipendenza affettiva porta alla riscoperta di un amore sano, rivolto prima di tutto a sé stesse, è una strada i cui tempi e i cui ostacoli non possono essere preventivati.
Lungo quel percorso ci sono salite e discese. Ci sono ostacoli da superare e piccole gioie da assaporare: un buon libro letto mentre il cellulare giace spento nell’altra stanza, una passeggiata o una corsetta per tenersi in forma, una serata a guardare un film che fa ridere e ben sperare, cantare a squarciagola una canzone che fa ancora credere nell’amore.

Nessuna magia e nessuna illuminazione: la capacità di godere di se stesse, del proprio tempo ritrovato, delle piccole cose quotidiane, rimane ancora il miglior kit per disintossicarsi da una dipendenza d’amore

Sorrido sempre quando mi chiedono come si fa… un po’ perché non c’è una risposta che vada bene per tutti, nessun incantesimo magico, e un po’ perché il senso di una terapia della dipendenza affettiva è proprio questo: smettere di fare una domanda infantile (“come si fa?”) a una terapeuta-mamma che si vorrebbe suggerisse loro cosa desiderare (e sono certa che eseguirebbero benissimo qualsiasi compito) ma, finalmente, imparare a farlo da sole, per sé stesse, senza più essere disposte a barattare i propri desideri, i propri progetti e il proprio tempo per il benessere degli altri, come sino ad ora hanno sempre fatto.

A cura di Silvia Pittera, Psicologa – Psicoterapeuta
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