I nostri atti ci seguono, recitava un vecchio adagio e oggi forse più che seguirci ci precedono proprio. Se gli atti non lo fanno, ci penseranno le apparenze a dare un’immagine congrua e coerente con ciò che abbiamo intenzione di far apparire o sapere sul nostro conto.
Devo essere a seconda del contesto in cui mi trovo, o meglio, devo fare affinché l’altro scorga in me il senso di ciò che voglio far intendere. Superata la fase del “fare per essere”, forse oggi viviamo più il senso di “dover sembrare” per sentirsi adeguati e rispondere alle aspettative.
Devo essere, quindi mi sento inadeguato
L’idea di dover migliorare nasce proprio dal riferirsi a modelli esterni che in qualche modo ci fanno sentire carenti o mancanti di qualcosa. Il prendere costantemente a modello chi sentiamo migliore di noi per qualche caratteristica fisica, lavorativa o comportamentale, rischia di creare l’illusione che solo aderendo ad un criterio non appartenente a noi stessi possa farci sentire al pari degli altri.
Questa corsa al “dover essere diversi da ciò che siamo“, ovvero illusoriamente migliori, innesca una serie di comportamenti frustranti sotto ogni profilo, laddove gli obiettivi prefissi non hanno nulla a che fare con la nostra storia formativa, i nostri vissuti ed i bisogni più profondi.
L’illusione di voler essere altro da sé aliena a tal punto da creare abitudini che non hanno niente a che vedere con il piacere personale ma soltanto con l’idea di una meta da raggiungere, innescando automatismi che piano piano allontanano le persone da se stesse con la mente che vaga altrove.
Eppure le emozioni con la loro saggezza riescono ad avvertirci quando è il momento di lasciar perdere, di allontanarci e cambiare aria. Il senso di inadeguatezza arriva prepotentemente e viene vissuto anche a livello corporeo attraverso una serie di segnali che è impossibile ignorare. Ammutolimento, imbarazzo, rossore, ecc.
Segnali che fanno capire che quelle persone, quel contesto, la situazione in sé non è idonea a noi, in qualche modo si rivela inadatta al nostro benessere. Invece la mente, con i suoi rigiri ed i suoi schemi vuole illuderci che siamo noi sbagliati e che, se siamo imbarazzati è perché non siamo all’altezza, siamo inadeguati e che quindi dobbiamo porre rimedio facendo cose, ponendo degli obiettivi da raggiungere.
Esagerando alcune caratteristiche degli altri in termini di bontà e di importanza finiamo per metterli sul piedistallo e così finiamo per subirne il fascino sentendoci inferiori.
Gli altri, avvertendo questo meccanismo, finiscono per trattarci per come noi li percepiamo, ovvero come superiori.
Ci sono alcune emozioni che vengono troppe volte stigmatizzate e considerate negative, scorrette e che andrebbero quindi evitate o cancellate attraverso l’assunzione di atteggiamenti opposti.
La timidezza ad esempio è una tendenza all’introversione che può scaturire dall’imbarazzo di stare in una certa situazione. La timidezza (quando non patologica) porta con sé il bisogno di non aprirsi in certi contesti e di rimanere in disparte. L’unico vero sbaglio è il giudizio negativo che attribuiamo a questa condizione, alimentando l’illusione che in qualsiasi contesto sia necessario mantenere alto il tono dell’umore, fingersi sempre interessati a qualsiasi argomento ed avere sempre e comunque qualcosa da dire.
Dal “fare per essere” al “fingere di essere”
Il “fingere di essere” per salvare le apparenze e gratificare l’ego finisce per frustrare l’essere se stessi e la propria autenticità.
Nei seminari sul silenzio che conduco da qualche anno, aiuto i praticanti a rimanere in contatto con quella dimensione del non dire per provare a sperimentare cosa si provi uscendo dall’abituale condizione in cui parlare sempre e comunque in presenza di altri è ritenuta cosa necessaria e giusta.
Provare a respirare sull’imbarazzo che si prova, sul timore che lo sguardo dell’altro possa carpire qualcosa di noi stessi che vogliamo segretamente tenere nascosto da occhi indiscreti, diventa il primo passo per iniziare a scavare dentro di noi in modo da far affiorare la paura del giudizio, quel macigno che condiziona tantissimo la capacità di vivere le relazioni interpersonali in maniera spontanea ed autentica.
Le fasi del lavoro sul silenzio sono così suddivise:
- Respirazione in cerchi ad occhi chiusi
- Prendersi per mano e respirare sull’esperienza del contatto con l’altro
- Apertura degli occhi ed incontro con lo sguardo altrui.
Successivamente, camminando, è possibile accorciare le distanze cercando di vivere le sensazioni che ci lasciano gli sguardi degli altri.
Paura, senso di inadeguatezza, minaccia, risate, ecc. Tutto può essere successivamente confessato al diario personale in modo da dare voce al proprio silenzio senza usare il linguaggio verbale.
Solo alla chiusura del percorso, ognuno è libero di poter condividere i propri vissuti, altrimenti, i praticanti posso decidere di tenere per sé il risultato del percorso formativo intrapreso.
A cura di Andrea Guerrini, psicologo e pedagogista
Se ti è piaciuto questo articolo puoi seguirci su Facebook: Pagina ufficiale di Psicoadvisor o sul nostro gruppo “Dentro la psiche“. Puoi anche iscrivervi alla nostra Newsletter. Per leggere tutti i miei articoli ti invito a visitare questa pagina