Il linguaggio forma e deforma la realtà. E’ il linguaggio che crea e dà sostanza ai pensieri e alle rappresentazioni mentali. Il linguaggio costruisce le realtà in cui viviamo, tuttavia, possiede anche un grande potere de-costruttivo o distruttivo.
Il fraintendimento diviene la matrice essenziale per dar vita a nuovi orizzonti di significato a ciò che viene espressi o taciuti. Il tono della voce ed il contesto del discorso, inoltre, contribuiscono a forgiare la rappresentazione della realtà, portando con sé anche una certa dose di dubbio e di incertezza oltre che, ovviamente, ad una possibile conflittualità tra ciò che ci appartiene e ciò che porta a rimettere in discussione quello che abbiamo acquisito con l’esperienza.
Perché partire dal linguaggio per arrivare all’emozione?
Il linguaggio custodisce in sé un grande potere, ovvero quello evocativo. Usare le parole giuste con il tono adeguato significa attivare o disattivare nell’ascoltatore forti cariche emotive che possono spingere o inibire l’azione.
Sono le parole che, per loro natura, hanno il potere di risvegliare, creare immagini e definire scenari nuovi, consentendo di rompere schemi e dar vita a nuove possibilità di vita.
Il “cogito ergo sum” di Cartesio può essere letto, allora, non tanto come una formula legata al “Penso quindi sono” ma in una visione più ampia del tipo “sento quindi sono”. Pensare e sentire non sono scissi, non sono realtà che appartengono a mondi diversi. Sentire e pensare sono intimamente connessi; la forza delle idee nasce dall’intensità del sentire.
E’ un vizio tutto nostro quello di parcellizzare la realtà per poterla meglio analizzare ed indagare. Il rischio è che poi finiamo per credere che la realtà coincida con l’atto stesso di scindere le parti, ovvero che tutto sia suddiviso in componenti a se stanti. In realtà è l’azione dell’uomo che porta alle scissioni.
Confondere l’atto dell’uomo che separa, con la realtà che si presenta integra, è un fraintendimento che pone il discorso su un piano fortemente conflittuale. Pensare e sentire non necessariamente remano contro. Ciò che crea il problema nell’incomunicabilità fra questi due processi è talvolta la mancanza della capacità di accogliere il sentire, del saper riconoscere le emozioni nel loro nascere e nel successivo diramarsi nei diversi distretti corporei.
Al contrario, può accadere che la soglia di attivazione emozionale sia così bassa che i “volumi” delle emozioni infiltrano in maniera quasi esplosiva favorendo un’attivazione dell’organismo immediata e potente.
Essere “emotivi” non significa essere “Fragili”
Spesso è questa eccessiva capacità di sentire, di accogliere le emozioni, di avvertire le vibrazioni emotive altrui che viene scambiata per fragilità. Anche qui il linguaggio purtroppo inganna, confondendo la sensibilità e quindi una profonda capacità di ascolto con un difetto naturale, come se l’individuo fosse deperito e dovesse corazzarsi per sentire meno.
La capacità di sentire, di stare dentro le emozioni senza negarle o evitarle è, anzi, proprio l’opposto della fragilità. E’ la capacità di affrontare la tempesta emozionale nella consapevolezza che le emozioni non uccidono e che rendono queste persone più capaci di stare in relazione nonostante il peso e la sofferenza delle situazioni.
Le reazioni di pianto, il commuoversi di fronte ad una scena, l’espressione della propria rabbia sono sintomi della soggettiva autenticità che oggi, in qualche modo, viene ostacolata e deviata verso un apparire che deve far manifestare tutt’altro.
La sicurezza ostentata, la pienezza di sé, l’indifferenza esibita, la freddezza come modo di essere, sono tutti modi di porsi attuali che danno l’illusione di forza e di carattere. La tanto osannata imperturbabilità così fortemente proclamata da alcune filosofie, ha finito per legittimare l’egoismo e l’anestesia emotiva come unica forma di sopravvivenza all’interno di una realtà mutevole ed incerta.
Meno sento, meno mi coinvolgo e più sono distaccato.
Con questo motto le persone rischiano di rinchiudersi nel mondo delle idee, del pensare e del rimuginare confondendo il piano della realtà che è estremamente legata al sentire e al provare, con quello rappresentato, emotivamente più distante.
L’esito è che, la rinuncia al sentire diviene un mezzo efficace per trovare un compromesso che alla lunga è lesivo. Il compromesso sta nel barattare l’autonomia, frutto di esperienze anche dolorose e quindi vissute, con il sentirsi una monade, ovvero un’entità chiusa distaccata dal contesto.
Un’autonomia fittizia che, avendo scaricato il mondo del sentire, ha finito per negare l’assunzioni di ruoli, come quello di padre o di madre, rimanendo ancorati ad una base sicura che non consente nessun tipo di cambiamento né, quindi, di relazione autentica.
Fuga dal dolore e paralisi psichica
L’assenza di scelta come unica scelta possibile e il rimanere sospesi come assenza di presa di posizione divengono le regole di base per chi, avendo come unica meta la fuga dalla possibilità del dolore, della delusione e dell’abbandono preferiscono la zona comfort della noia, delle routine stereotipate e dell’immobilità.
La scelta del fermarsi diviene lo specchio della paralisi e della morte psichica; smettere di sentire per non soffrire sono gli ingredienti del proprio anestetico emozionale, l’unico in grado di congelare le vie di comunicazione del proprio sentire.
Ecco che allora chi non scende a questo bieco compromesso con se stesso sceglie di aprirsi alla vita, al continuo cambiamento, al mistero incessante del divenire che porta con sé anche delusioni, amarezze, dolori, tradimenti. Ed è proprio rimanendo in contatto con queste dimensioni che è possibile trarre a sé gli unici insegnamenti importanti per se stessi, consentendosi di elaborarli e di superarli progressivamente, arrivando ad una diversa e più elevata concezione di sé.
L’aver scambiato la sofferenza e la tristezza per l’essere fragili o sbagliati ha finito per far convincere che solo evitando il rischio della delusione sia possibile essere felici e quindi perfetti. La perfezione intesa come assenza di sofferenza ha generato il rifiuto delle esperienze formative che, in quanto tali, hanno a che fare anche con la perdita, la tristezza ed il senso di impotenza.
Il non accettare la sfida del cambiamento significa non aprirsi alle possibilità, di scacco matto nei confronti di se stessi e quindi di conoscersi in maniera più profonda, soprattutto per quanto riguarda la consapevolezza dei propri limiti.
Le fragilità sono il motore del vero cambiamento
Il sentirsi fragili o sbagliati di fronte alle proprie frustrazioni o delusioni, sono la prova lampante di quanto poco siamo inclini ad accettare ed integrare quelle parti di noi scomode, però autentiche, che chiamiamo erroneamente “debolezze”. Sono queste “mancanze” che ci avvertono del senso di noi stessi, dei limiti che ci definiscono ma che ci indicano anche la strada per poterli dilatare.
Sono queste fragilità che innescano in noi il senso di reazione e di voler andare oltre.
Le fragilità così dette sono il motore del vero cambiamento che, se accettate e riconosciute, perdono l’etichetta del pregiudizio legate al senso dell’essere sbagliati, dell’errore, di qualcosa da correggere. E’ proprio l’illusione dell’errore da evitare che impedisce il cambiamento. Ogni passo in noi ed oltre di noi avviene soltanto sganciando il freno a mano che si possa essere sbagliati. Il peso del giudizio esterno e metabolizzato attraverso i rimandi delle figure esterne di riferimento sono le resistenze contro le quali ogni giorno lottiamo e che impediscono di crescere. Dietro il pregiudizio si nasconde sempre la paura. E la paura, se da una parte tende a preservare e a non far rischiare, dall’altra impedisce ogni forma di cambiamento e di raggiungimento dell’autorealizzazione.
A cura di Andrea Guerrini, psicologo e pedagogista
Se ti è piaciuto questo articolo puoi seguirci su Facebook: Pagina ufficiale di Psicoadvisor o sul nostro gruppo “Dentro la psiche“. Puoi anche iscrivervi alla nostra Newsletter. Per leggere tutti i miei articoli ti invito a visitare questa pagina