Gran parte dei nostri disagi dipendono dal fatto che tentiamo di evitare le difficoltà, a essere reticente davanti a qualsiasi esperienza di tristezza. Non vi è dubbio, il rifuggire il dolore ci spinge verso il cuore dei problemi. Questa teoria si chiama evitamento esperienziale ed è l’insieme di tutte le azioni che mettiamo in atto per liberarci, negare, allontanare ciò che non provoca piacere dalla nostra vita.
Detto in questo modo si potrebbe pensare che sia qualcosa di positivo o addirittura una sorta di meccanismo di difesa che ci protegge. Ma la realtà è ben diversa. L’evitamento esperienziale ha anche un lato oscuro che di solito non consideriamo e che ci rende “schiavi” di queste emozioni, situazioni o pensieri che desideriamo evitare.
Ovviamente, se applichiamo l’evitamento esperienziale di tanto in tanto per evitare sofferenze inutili possiamo sfruttare i vantaggi di questa tecnica. Ma se diventa un’abitudine può rappresentare un grande pericolo.
Il segreto per vivere bene ed essere felici dipende dallo sperimentare la massima quantità di emozioni positive ed evitare quelle negative?
In effetti, a prima vista sembra un concetto più che sensato. E lo è. Ma nel corso del tempo questo tipo di atteggiamento ci porta ad evitare a tutti i costi le situazioni che non ci piacciono, e queste diventano un demone da esorcizzare, piuttosto che qualcosa che dobbiamo affrontare e risolvere. Così finiamo per evitare i problemi, ma questo non significa che scompariranno.
Inoltre, non dobbiamo dimenticare l’effetto rimbalzo. Cioè, quanto più ci proponiamo di non pensare a qualcosa tanto più l’idea diventa ossessiva. Questo avviene perché nella nostra mente si attiva un meccanismo di ipervigilanza allo scopo di deviare l’idea appena appare, ma con questo meccanismo l’unica cosa che si ottiene è di mantenere attiva l’idea nella nostra mente. Così, invece di sentirci bene entriamo in un ciclo infinito di negatività.
La distrazione positiva e il processo di evitazione interno
Quando l’evitamento esperienziale diventa un’abitudine, la “distrazione positiva” non è più qualcosa di produttivo, necessario e divertente e si trasforma in un meccanismo che ci porta a fuggire da noi stessi e dai problemi.
Infatti, negli ultimi tempi a causa della crescente incapacità di vivere gli stati emotivi interni e l’aumento della tendenza di proiettarsi verso il mondo esterno, molte persone sono diventate dei “dissociatori professionali”. Che cosa significa? Che abbiamo imparato ad “appartare” o “nascondere” quei problemi che ci risultano più difficili per pensare solo a ciò che consideriamo piacevole o facile.
Se immaginiamo che la nostra mente è uno spazio fisico, come un magazzino, siamo in grado di comprendere che appartare o nascondere alcuni contenuti non li fa sparire, ma li costringe solo ad occupare uno spazio prezioso. Ovviamente, questa è solo una metafora, ma dobbiamo tenere a mente che per mantenere tale “stato dissociativo” si deve consumare dell’energia, una quantità di energia che potremmo usare per risolvere i problemi e crescere con questi.
Questo fenomeno è particolarmente evidente quando si verifica un trauma con la “T” maiuscola.
In questi casi la nostra mente ha bisogno di appartarlo perché non abbiamo le risorse psicologiche necessarie per elaborarlo e potrebbe causarci un danno molto grave. Solo più tardi siamo in grado di recuperare quei ricordi ed elaborarli. Ma se non lo facciamo e lo appartiamo in modo permanente, continuerà a determinare negativamente la nostra vita da qualche parte nel nostro subconscio, causandoci paura, angoscia e ansia.
Purtroppo, oggi giorno esageriamo e tendiamo a vivere tutte le emozioni negative come degli “pseudo-traumi”. Abbiamo paura di provare certe emozioni perchè la società le cataloga come negative e indesiderate. E questa paura ci porta all’evitamento esperienziale.
Più cerchiamo di allontanarci dal dolore per presenza più aumenta il dolore per assenza: perchè
Chi entra in questa spirale di sofferenza, afflizione o di angoscia la reazione più naturale è evitare la sofferenza. L’evitamento esperienziale però ha la capacità di aumentare il dolore per presenza ed è la fonte maggiore del dolore per assenza.
Questo semplice, ma inarrestabile processo è dovuto alla capacità che ha il linguaggio, quindi il pensiero di creare relazioni tra situazioni o elementi diversi tra di loro. Nel novantanove per cento dei casi, quando l’essere umano deve risolvere un problema (abilità di problem solving) si affida alla propria mente. Questo funziona molto bene per i problemi pratici ed esterni a noi.
Se il pavimento è sporco lo laviamo, se ho una scarpa che mi fa male la cambio. Diversamente, se noi applichiamo questa strategia di problem solving alla nostra sofferenza personale, il problema rimane o aumenta.
Perché succede questo?
Per il semplice motivo che nel momento in cui decidiamo di sopprimere un pensiero, un’emozione o un comportamento, la nostra mente ha imparato che deve fare qualcosa di diverso. La mente inizia a ricercare un pensiero o un comportamento da sostituire al precedente.
In questo modo è costretta a mantenerli entrambi, per avere la conferma che sta facendo una cosa diversa. Se non voglio pensare al colore bianco posso scegliere un altro colore, questo è possibile solo se il colore che ho scelto non è il colore bianco.
Accetta le esperienze negative come parte della vita
Non si tratta di assumere un atteggiamento masochistico. È ovvio che non dobbiamo vivere cercando la sofferenza. Ma neppure evitarla come la peste. Dobbiamo imparare a dare uno “spazio” a questi contenuti mentali o esperienze che non ci piacciono, perché sono un opportunità per imparare qualcosa da noi stessi. Domande come: perché questo mi da fastidio? Perché lo voglio evitare? Cosa dice di me questa emozione? Ci possono aiutare a conoscerci meglio.
Inoltre, invece di consumare tanta energia per mantenere questi contenuti nascosti, possiamo utilizzarla nel tentativo di risolvere il problema o per canalizzare in modo assertivo le emozioni che stiamo vivendo. Così possiamo crescere come persona. Tuttavia, se ci limitiamo a evitare quelle esperienze che non ci piacciono, il nostro “io” si ridurrà sempre di più.
Illustrazione di: Kim Ryu
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