Chi ha vissuto un’infanzia trascurata, emotivamente povera o instabile, spesso non si accorge di quanto i suoi stessi pensieri siano impregnati di sopravvivenza. Le parole diventano strategie inconsce per non chiedere, per non disturbare, per anticipare il rifiuto. Frasi che si dicono da adulti, ma che hanno il timbro e la grammatica emotiva di un bambino rimasto troppo solo.
Frasi di chi è stato trascurato durante l’infanzia
In questo articolo esploreremo sei frasi automatiche — poco prevedibili ma profondamente rivelatrici — che emergono spesso in chi ha dovuto adattarsi a un’infanzia trascurante. Non frasi eclatanti o drammatiche, ma espressioni quotidiane che, a ben guardare, portano con sé l’eco di una lunga assenza: l’assenza di accoglienza, di presenza, di sguardi calmi e menti sintonizzate.
Nota importante: queste frasi non vanno intese come diagnosi o etichette. Tutti, occasionalmente, possiamo pronunciarle. Ma quando diventano ricorrenti, automatiche e inconsapevoli, possono essere segnali importanti. Non sono il problema in sé, ma possono raccontare l’origine di un modo di stare al mondo che nasce da lontano.
1. “Tanto ormai…”
Questa frase — che spesso introduce una rinuncia, una chiusura, un silenzio — ha in sé una resa. Ma non una resa adulta, consapevole, trasformativa. È una resa appresa nell’infanzia, quando il bisogno non veniva visto, e chiedere diventava pericoloso o inutile.
Chi dice spesso “Tanto ormai…” sta evitando un’ulteriore frustrazione. Si protegge dalla delusione anticipandola. È la frase di chi ha imparato a contenere il dolore attraverso l’auto-abbandono. È il tentativo disperato di prendere il controllo di una perdita rendendola inevitabile.
A livello neurologico, questa frase è spesso il frutto di un’amigdala iperattiva e di una corteccia prefrontale indebolita dalla mancanza di contenimento emotivo precoce. Il cervello non cerca più possibilità, cerca scappatoie. Cerca modi per sentire “meno”, anche a costo di non vivere davvero.
2. “Preferisco non dire niente, tanto poi sembra sempre che io stia cercando qualcosa”
Questa frase racconta una strategia sottile di auto-censura relazionale. Non si tratta solo di non voler parlare, ma di un vero e proprio tentativo di neutralizzarsi, di disinnescare ogni possibile malinteso affettivo. Chi la pronuncia teme che ogni parola venga interpretata come una richiesta. E ha imparato che chiedere è rischioso.
Dietro questa frase si nasconde un passato in cui l’espressione del bisogno ha avuto un costo: disapprovazione, derisione, sensi di colpa. Il bambino, allora, ha imparato a trattenere, a diventare invisibile, a mascherare anche il legittimo desiderio di vicinanza. Per non risultare “bisognoso”, “invadente”, “esigente”.
Dal punto di vista del sistema nervoso, questa frase è tipica di chi vive in vigilanza relazionale continua, con un tono simpatico cronicamente elevato: il corpo si irrigidisce, la mente analizza ogni segnale dell’altro, in una danza silenziosa fatta di trattenimento e auto-controllo.
Chi dice “meglio non dire niente” sta comunicando un profondo bisogno di essere accolto senza dover negoziare la propria umanità. Sta chiedendo, in silenzio: “Posso restare, anche se non porto nulla in cambio?”
3. “Scusami, stavo solo dicendo…”
Questa frase emerge spesso quando la persona, mentre parla, si interrompe e si giustifica. È un’auto-correzione automatica che racconta un passato in cui il solo fatto di parlare era percepito come sbagliato. Come se il proprio pensiero fosse “di troppo”, come se la parola non fosse mai neutra ma potenzialmente colpevole.
Chi ha avuto un’infanzia trascurata — o peggio, criticata, zittita, ridicolizzata — tende a mettere le mani avanti. Anche quando ha ragione, anche quando sta solo esprimendo un’idea. È come se ogni frase fosse preceduta da una richiesta implicita di permesso, o da una scusa preventiva.
Questa forma di linguaggio è legata a una disregolazione del sistema nervoso sociale: il nervo vago dorsale, implicato nelle risposte di “collasso” e inibizione, viene attivato troppo facilmente. Il corpo si ritira, la voce si abbassa, la mente cerca di essere invisibile.
La frase “Scusami, stavo solo dicendo…” è, in realtà, un bambino interiore che chiede: “Posso esistere senza essere punito?”
4. “Non è niente, davvero”
Questa frase, pronunciata magari con un sorriso o con tono rassicurante, è in realtà una negazione profonda del proprio sentire. È ciò che dice chi ha imparato che il proprio dolore non conta, o non verrà comunque accolto.
Negare il dolore è una strategia adattiva molto comune nei bambini trascurati: aiuta a sopravvivere in contesti in cui non c’è spazio per la tristezza, la paura, la rabbia. Ma da adulti, questa negazione diventa una gabbia. Una sorta di anestesia che impedisce anche la gioia, la vitalità, l’intimità.
Dire “Non è niente” è come mettere un coperchio su un vulcano. Si può controllare per un po’, ma dentro si accumula calore, pressione, disperazione. Spesso queste persone sviluppano sintomi psicosomatici, attacchi d’ansia “inspiegabili” o una depressione larvata, silenziosa.
A livello cerebrale, l’insensibilità al proprio dolore può dipendere da una ridotta attività dell’insula e del cingolo anteriore: le aree deputate all’interocezione, cioè alla percezione del proprio stato interno. Il corpo sente, ma la mente non riesce più a leggere quei segnali.
5. “Lo so che sto esagerando”
Frase apparentemente umile, autocritica. In realtà, è il prodotto di un’invalidazione sistematica dell’esperienza emotiva. Quando da piccoli si viene accusati di “fare i capricci”, di “esagerare sempre”, si impara a dubitare delle proprie percezioni. Si impara che provare è sbagliato. Che avere emozioni intense è una colpa.
Chi dice spesso “Lo so che sto esagerando” non sta esagerando: sta solo sentendo qualcosa che non è mai stato legittimato. Ma poiché l’ambiente affettivo di riferimento ha sempre sminuito o ridicolizzato quelle emozioni, la persona ha imparato ad auto-zittirsi, ad anticipare la colpa.
In ambito psicoanalitico, questo fenomeno può essere letto come formazione reattiva: la persona sostituisce l’espressione autentica con una sua negazione o attenuazione, per non perdere il legame con la figura accudente, anche a costo di tradire sé stessa.
Il risultato è una profonda alienazione emotiva. Una frattura interiore. E anche una difficoltà cronica nelle relazioni: come si fa a essere visti davvero, se prima ancora che l’altro risponda, siamo noi a dire che stiamo esagerando?
6. “È colpa mia, dovevo immaginarlo”
Questa frase è il paradigma del senso di colpa appreso. Chi è cresciuto in un ambiente trascurante o instabile, spesso ha interiorizzato l’idea che ogni evento negativo sia conseguenza di una propria mancanza. Anche se si tratta di qualcosa di imprevedibile o esterno, la colpa viene rivolta verso di sé.
“È colpa mia, dovevo immaginarlo” è una frase che tenta di restituire ordine a un mondo caotico: se è colpa mia, allora forse posso evitare che accada di nuovo. È una forma di controllo illusorio, una strategia difensiva che serve a evitare l’impotenza totale.
In neurobiologia, questo meccanismo si associa a un’iperattività della corteccia prefrontale mediale e al circuito della “colpa sociale”, che si attiva quando ci si percepisce in difetto rispetto a un gruppo di riferimento (genitori inclusi).
Questa frase parla di un bambino che ha dovuto dare un senso all’ingiustizia subita attribuendosene la responsabilità. Perché è meno doloroso pensare “sono sbagliato” che pensare “non c’è nessuno che si prende cura di me”.
Quando le frasi diventano sintomi
Queste frasi non sono solo modi di dire. Sono segnali. Tracce linguistiche di un assetto emotivo che si è strutturato in risposta alla mancanza di cure adeguate. Sono il prodotto di un’adattabilità incredibile, ma anche di una solitudine antica.
La buona notizia è che si possono trasformare. Il linguaggio ha un potere formidabile: può plasmare la percezione, la memoria, persino il nostro sistema nervoso. Quando iniziamo a notare queste frasi, a chiederci da dove arrivano, a sostituirle con parole più compassionevoli, stiamo già riscrivendo la nostra storia.
Parole nuove per una vita che ti somigli
Se hai riconosciuto qualcuna di queste frasi, sappi che non sei solo. Né sei “rotto”, né sei da aggiustare. Forse hai solo imparato — troppo presto, troppo in fretta — a nascondere ciò che sentivi, a minimizzarti per non perdere il legame con chi avrebbe dovuto vederti e contenerti.
Non è colpa tua se ti sei costruito un linguaggio che protegge, ma che a volte isola. Un linguaggio fatto di frasi che chiudono, rinunciano, si scusano. Hai fatto ciò che potevi con ciò che avevi. Ma adesso puoi scegliere. Puoi imparare un modo nuovo di parlarti, e di parlare agli altri. Un modo che non nasconda più il tuo bisogno, ma lo onori. Un modo che non confonda la gentilezza con il silenzio.
Nel mio libro “Il mondo con i tuoi occhi” ti accompagno proprio in questo percorso: non a diventare un’altra persona, ma a ritrovare quella che sei sempre stato, prima che il mondo ti chiedesse di adattarti, di zittirti, di farti piccolo per essere amato.
È un libro che non ti dice cosa dovresti fare, ma ti mostra dove guardare, come ascoltarti, come ricucire quel legame profondo con te stesso che forse nessuno ti ha insegnato a custodire. Troverai domande che non ti giudicano, ma ti aprono. E parole nuove che non servono per spiegarti, ma per accoglierti.
E se senti che qualcosa dentro di te si muove — anche solo leggendo queste frasi — allora forse è il momento di iniziare a parlarti in modo diverso. Perché ogni frase che cambia, è un pezzo di storia che guarisce.
E ogni parola nuova che scegli… è già un atto d’amore verso te stesso. Il mio libro è disponibile in libreria e qui su Amazon
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Ti aspetto lì per continuare il viaggio.