Frasi che usa chi si sente sempre una vittima (anche quando non lo è davvero)

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Dottoressa in psicologia, esperta e ricercatrice in psicoanalisi. Scrittrice e fondatore di Psicoadvisor

Ci sono persone che vivono come se il mondo intero fosse costantemente in debito con loro. Non chiedono apertamente vendetta, né si presentano come aggressori. Anzi, sembrano spesso innocue, fragili, passive. Ma se ascolti attentamente le loro parole, ti accorgi che in ogni frase si nasconde un’accusa, un risentimento, un dolore che non guarisce. Vivono in uno stato emotivo di allerta, come se dovessero sempre difendersi da qualcosa. Ogni osservazione è vissuta come una critica. Ogni “no” come un abbandono. Ogni gesto neutro viene tradotto in un affronto personale.

Chi si sente sempre una vittima non recita un ruolo consapevole: molte volte è stato davvero ferito, invalidato, dimenticato. Ma non è questo che lo rende “vittima” nel presente. È il fatto che, per sopravvivere a quelle ferite, ha sviluppato un’intera identità fondata sull’idea che l’amore, la giustizia e la felicità siano qualcosa che deve ricevere, non qualcosa che può costruire.

Questo articolo non è un’accusa. È uno specchio. E come ogni specchio, può far male — ma può anche liberare. Perché comprendere il proprio vittimismo è il primo passo per smettere di essere ostaggio di ciò che ci è mancato.

Cos’è davvero il vittimismo?

Il vittimismo non è una strategia manipolativa (almeno, non nella maggior parte dei casi). È un meccanismo difensivo. Nasce spesso da ferite infantili in cui l’individuo si è sentito impotente, trascurato o non ascoltato. Invece di sviluppare una sana assertività, impara a proteggersi mettendo in scena il proprio dolore. Lo fa in modo implicito, attraverso lamenti, silenzi carichi di significato, frasi passive-aggressive. E, soprattutto, attraverso uno stile comunicativo che lo pone sempre dalla parte di chi subisce.

In psicologia, si parla di posizione vittimistica cronica per indicare una modalità relazionale che attribuisce sistematicamente agli altri la colpa del proprio malessere, senza assumersi responsabilità. È una forma di disconnessione dal proprio potere personale. E spesso è accompagnata da sentimenti profondi di vergogna, senso di inadeguatezza e rabbia repressa.

Le frasi tipiche di chi si sente sempre una vittima (e cosa rivelano)

Di seguito esploriamo le frasi più frequenti usate da chi assume inconsapevolmente un atteggiamento vittimistico. Ogni frase non è solo un contenuto verbale, ma uno specchio di dinamiche interiori non elaborate.

1. “Con me succedono sempre queste cose”

Questa frase comunica un senso di destino avverso. Dietro c’è l’idea che il mondo sia ostile e che non ci sia nulla da fare per cambiare le cose. Chi la pronuncia si sente privo di strumenti e tende a vivere ogni difficoltà come la conferma di un’esistenza ingiusta.

Implicazione emotiva: impotenza appresa, convinzione profonda di non poter agire sul proprio destino.

2. “Tanto non cambia mai niente”

Qui emerge il fatalismo depressivo. È una frase che congela ogni possibilità di trasformazione. Non c’è spazio per la speranza, né per il desiderio. È la voce interiore di chi ha smesso di provarci perché ha interiorizzato il fallimento come identità.

Implicazione emotiva: delusione cronica, abbandono del principio di realtà, rinuncia al proprio potere personale.

3. “Io do tanto, e in cambio ricevo solo delusioni”

Questa frase sembra nobile, ma è un’arma a doppio taglio. Trasforma la generosità in una forma di controllo emotivo: “Io do, quindi tu mi devi”. Chi la usa spesso non si accorge di come le sue aspettative siano guidate dal bisogno di compensazione più che dal desiderio di dono autentico.

Implicazione emotiva: bisogno di riconoscimento, difficoltà a regolare la frustrazione, amore condizionato.

4. “Tutti si approfittano di me”

La vittima cronica tende a vedere nelle relazioni una continua invasione. Anche quando i confini non sono realmente violati, interpreta i comportamenti altrui come sfruttamento. È un modo per difendere la propria fragilità, ma al tempo stesso alimenta il senso di solitudine.

Implicazione emotiva: paura dell’intimità, sfiducia profonda, vissuti precoci di abuso o trascuratezza.

5. “Se mi amassi davvero, capiresti da solo/a”

Questa frase è il regno della comunicazione passivo-aggressiva. Non si chiede, non si esplicita, non si costruisce un dialogo. Si pretende che l’altro legga nella mente. Chi la pronuncia spesso non ha imparato che anche le emozioni vanno nominate, non solo sentite.

Implicazione emotiva: aspettative non espresse, paura del rifiuto, bisogno di controllo nella relazione.

6. “Io non ce la faccio come gli altri”

Qui si manifesta la comparazione autodistruttiva. Il vittimismo non è sempre una forma di egocentrismo, ma anche di autoesclusione. È la voce di chi si è convinto di essere difettoso, diverso, e usa questo dolore per spiegare la propria rinuncia alla vita.

Implicazione emotiva: bassa autostima, senso di esclusione, ferite narcisistiche infantili.

7. “Tanto nessuno mi capisce”

È la frase emblematica del ritiro emotivo. Invece di costruire ponti, chi la usa alza muri. È una profezia che si autoavvera: più pensi che nessuno possa capirti, più smetti di raccontarti davvero, più vieni frainteso.

Implicazione emotiva: isolamento emotivo, convinzione di unicità del proprio dolore, ferita da non ascolto.

8. “Tutti mi voltano le spalle, prima o poi”

Qui la ferita dell’abbandono prende parola. Chi vive nel vittimismo cronico è spesso ipervigilante rispetto ai segnali di distacco. E interpreta ogni ambiguità come una conferma della propria solitudine inevitabile.

Implicazione emotiva: trauma da separazione, bisogno di essere rassicurato, paura di non valere abbastanza per essere scelto.

Perché il linguaggio vittimistico è così difficile da cambiare?

Perché è protettivo. Perché, in fondo, è tutto ciò che si è imparato. Il linguaggio vittimistico è un’abitudine affettiva. Più che un comportamento, è una posizione esistenziale. E spesso, chi lo adotta, non se ne rende conto. Non vuole manipolare, non vuole ottenere vantaggi. Vuole solo essere visto, riconosciuto, accudito — come non è stato da piccolo.

Dal punto di vista psicoanalitico, il vittimismo è un meccanismo secondario di difesa, che si attiva quando non ci si sente in grado di reggere il dolore di un rifiuto, la delusione di una risposta mancata, o la complessità di un confronto adulto.

Ma dietro ogni atteggiamento vittimistico c’è una verità che merita ascolto: qualcuno, in un tempo remoto, non si è preso cura di quel dolore. Qualcuno non ha accolto la fragilità, non ha restituito valore, non ha protetto da ingiustizie reali. Così, quel dolore continua a bussare al mondo attraverso frasi che chiedono attenzione — ma ottengono, purtroppo, distanza.

Cosa accade nel cervello di chi vive nel vittimismo cronico

Dal punto di vista neurobiologico, le persone che tendono a sentirsi costantemente vittime mostrano una iperattivazione del sistema limbico, in particolare dell’amigdala, l’area cerebrale deputata alla rilevazione delle minacce. Questo significa che vivono in uno stato di allerta emotiva permanente, anche in assenza di pericoli reali. La loro soglia di attivazione emotiva è molto bassa: basta un tono di voce neutro per scatenare sensazioni di rifiuto o giudizio.

A questo si associa spesso una bassa integrazione cortico-limbica: la corteccia prefrontale, responsabile della regolazione cognitiva delle emozioni, fatica a modulare le risposte emotive intense. Il risultato è una difficoltà a mentalizzare le esperienze: si reagisce con dolore, rabbia o ritiro, senza passare da un’elaborazione consapevole.

Nel tempo, questo assetto può diventare strutturale. Secondo la teoria dell’apprendimento emozionale implicito, il cervello memorizza schemi reattivi che si riattivano automaticamente: se da bambino l’altro era percepito come fonte di pericolo, oggi ogni relazione può essere inconsciamente letta con lo stesso filtro.

Anche il sistema della dopamina può giocare un ruolo

Chi vive nel vittimismo cronico sperimenta spesso una carenza di gratificazione endogena. Non sentendosi mai pienamente visto o valorizzato, ricerca continuamente segnali esterni che possano compensare la carenza interna. Ma, non trovandoli (o interpretandoli negativamente), conferma il proprio senso di esclusione, in un ciclo autoconfermante di sfiducia, dolore e passività.

Questo meccanismo ha una forte risonanza con ciò che in psicoanalisi viene definito come ripetizione coatta del trauma: il soggetto continua a rivivere — e a provocare inconsapevolmente — situazioni in cui viene deluso, escluso o ferito, pur di restare coerente con l’immagine di sé costruita nell’infanzia. Un’immagine che, per quanto dolorosa, offre una paradossale forma di sicurezza: quella del già noto.

Dal ruolo di vittima alla libertà emotiva

Smettere di vivere come vittime non significa negare ciò che ci è stato fatto. Al contrario: è onorare il nostro dolore, ma decidere che non sarà più lui a guidare la nostra vita. È scegliere la responsabilità emotiva, che non è colpa, ma potere. Il potere di cambiare. Di dire no. Di chiedere. Di costruire legami in cui non siamo più bambini bisognosi, ma adulti capaci di dare e ricevere. E se ti sei riconosciuto in molte di queste frasi, non sentirti sbagliato. Sentiti in cammino.

Perché liberarsi dal vittimismo è un processo lento, ma possibile. È come rinunciare a una stampella che ci ha fatto camminare quando eravamo feriti. Fa paura, ma è anche il primo passo per iniziare a correre.

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