Frasi da non dire mai a chi vive un disagio emotivo

| |

Author Details
Dottoressa in psicologia, esperta e ricercatrice in psicoanalisi. Scrittrice e fondatore di Psicoadvisor

Chi attraversa un disagio emotivo non ha bisogno di soluzioni. Ha bisogno di comprensione, presenza, contenimento. Ma spesso, anche le parole dette con la migliore delle intenzioni possono diventare graffi sull’anima già ferita. Non perché chi le dice voglia far male, ma perché non ha imparato a stare davvero accanto alla sofferenza dell’altro.

Viviamo in una società che ha difficoltà a reggere il dolore: lo silenzia, lo corregge, lo psicoanalizza in modo sterile o lo riduce a disturbo. E così, quando una persona cara ci mostra le sue crepe, rispondiamo con frasi imparate, automatiche, quasi come se volessimo rassicurarci che tutto tornerà normale, anche se normale non è. Ma la sofferenza emotiva non vuole essere normalizzata. Vuole essere vista. Nominata. Accolta. E per farlo, occorre imparare a lasciare da parte le frasi che proteggono più noi stessi che chi ci sta di fronte.

Frasi da non dire mai a chi vive un disagio emotivo

In questo articolo esploreremo le frasi più comuni che – seppur mosse da buone intenzioni – finiscono per invalidare, sminuire o colpevolizzare chi sta male. E per ciascuna, proveremo a capire cosa si nasconde sotto, sia a livello relazionale che neuropsicologico.

1. “Dai, non è niente”

Sembra una frase rassicurante. Ma per chi soffre, è una negazione. Dire “non è niente” a chi sta attraversando un crollo interno è come dirgli: la tua sofferenza è eccessiva, fuori luogo, non la riconosco. In termini psicoanalitici, è un’aggressione travestita da premura: nega l’affetto sostituendolo con un giudizio implicito.

Sul piano neurobiologico, quando una persona è in stato di disagio emotivo, l’amigdala è attivata e il cervello si trova in uno stato di allerta. Dire “non è niente” disattiva l’unico circuito che potrebbe calmarlo: quello della connessione empatica e della validazione emotiva.

Cosa dire invece: “Immagino che per te sia davvero tanto. Vuoi raccontarmelo?”

2. “Pensa a chi sta peggio”

Questa è una delle frasi più invalidanti in assoluto. Non solo spinge chi soffre a colpevolizzarsi per il proprio dolore, ma lo invita anche a ignorarlo. È una forma sottile di gaslighting culturale: induce a credere che il dolore sia legittimo solo se paragonato a qualcosa di più grave.

Dal punto di vista psicologico, è una difesa: chi la pronuncia spesso non sa contenere la sofferenza dell’altro e cerca rifugio in un confronto che ha lo scopo di minimizzare.

Cosa dire invece: “So che è difficile. Il tuo dolore merita attenzione, non paragoni.”

3. “Vedrai che passerà”

Può sembrare un incoraggiamento. Ma suona come una scadenza. Dire a qualcuno “passerà” rischia di farlo sentire inadeguato se il dolore persiste. Non tutte le ferite guariscono con il tempo; alcune hanno bisogno di cura, presenza, rispecchiamento.

In psicoanalisi, il tempo non è un balsamo automatico: è un contenitore, che però deve essere abitato da senso e riconoscimento.

Cosa dire invece: “Resto con te, anche se non so quando passerà.”

4. “Devi solo distrarti”

La distrazione è una strategia di evitamento. Funziona a breve termine, ma nel lungo può trasformarsi in una dissociazione.Chi soffre ha bisogno di elaborare, non di evadere. Suggerire la distrazione equivale a dire: non riesco a stare nel tuo dolore, cambia canale.

Sul piano neurofisiologico, evitare l’elaborazione significa lasciare attivi i circuiti dello stress (corteccia prefrontale disorganizzata, iperattivazione limbica). Solo quando ci si ferma e si nomina ciò che fa male, il cervello può iniziare a integrare.

Cosa dire invece: “Vuoi che ne parliamo, anche solo per mettere ordine a quello che senti?”

5. “Devi reagire!”

La pressione alla reazione è una forma moderna di negazione. Chi soffre ha bisogno di essere sostenuto, non spinto. Reagire non è sempre possibile. A volte serve prima toccare il fondo, accettare il vuoto, lasciarsi attraversare. L’ordine di “reagire” spesso nasce da un’ansia del testimone: se tu reagisci, io mi sento sollevato. Ma la guarigione emotiva ha un tempo interiore, che non si può accelerare con imperativi.

Cosa dire invece: “So che stai facendo il meglio che puoi, anche se adesso ti sembra poco.”

6. “Non pensarci”

Se il pensiero ossessivo è attivo, dire “non pensarci” è come dire “smetti di respirare”. Le neuroscienze mostrano che più tentiamo di non pensare a qualcosa, più quella cosa diventa presente (effetto rebound). La mente non può non pensare. Può solo essere guidata a pensare in modo diverso.

Cosa dire invece: “Capisco che questi pensieri ti tormentano. Se vuoi, possiamo provare a guardarli insieme.”

7. “Tutti hanno momenti no”

Frase vera, ma poco empatica. Sottintende: non sei speciale, non esagerare. Ma quando il dolore è acuto, non si cerca paragone, si cerca contenimento. Dal punto di vista psicodinamico, questa frase induce una regressione difensiva: la persona si chiude, si sente sbagliata, sola.

Cosa dire invece: “Mi interessa sapere com’è per te questo momento. Voglio capire davvero.”

8. “Sii forte”

Essere forti non significa non crollare. Significa permettersi anche la debolezza. Chi dice “sii forte” spesso ha interiorizzato un modello disfunzionale di forza: quello che ignora la vulnerabilità. Ma la vera forza è l’integrazione delle parti fragili.

Dal punto di vista neurobiologico, accogliere la propria vulnerabilità attiva il sistema della compassione (corteccia prefrontale mediale, insula), che regola l’ansia e promuove il benessere.

Cosa dire invece: “Non devi essere forte per me. Puoi essere come sei.”

9. “Ma dai, non sembri depresso”

Il disagio emotivo non ha sempre il volto che ci aspettiamo. Molti sanno mascherare perfettamente l’inferno interno con sorrisi, battute, efficienza. È il caso di chi vive forme di depressione atipica o “funzionale”. Dire “non sembri depresso” è come dire: non ti credo abbastanza da vederti. E questo è devastante.

Cosa dire invece: “A volte chi soffre sa anche sorridere. Ma io sono qui se vuoi mostrarmi anche il resto.”

10. “Fatti forza, pensa positivo”

Il pensiero positivo forzato è una trappola. Quando viene imposto dall’esterno, diventa un’aggressione mascherata da ottimismo. Chi è nel buio non ha bisogno di luce artificiale, ma di qualcuno che sappia restare con lui lì, finché una piccola luce interna non si riaccende.

Cosa dire invece: “Non ti chiederò di essere positivo. Ti chiederò solo di non nasconderti da quello che senti.”

Perché diciamo queste frasi (e come possiamo fare diversamente)

Tutte queste frasi hanno un’origine comune: la nostra difficoltà a stare accanto al dolore. Non siamo stati educati a reggere il pianto, la rabbia, la paura. Spesso, quando qualcuno ci mostra il proprio disagio, attiviamo inconsapevolmente delle difese.

Cerchiamo di fare qualcosa, di aggiustare, perché restare impotenti ci spaventa. Ma accompagnare chi sta male non significa aggiustare. Significa restare. Essere lì. Dare un volto umano al concetto di contenimento.

Le parole che curano sono silenziose

Le parole che curano non sono quelle perfette. Sono quelle vere. Quelle che non giudicano, non impongono, non forzano. Chi vive un disagio emotivo ha bisogno di uno spazio sicuro, dove poter essere fragile senza sentirsi sbagliato. Di uno sguardo che dica: ti vedo. Di una voce che non corra a spiegare, ma che scelga di accompagnare.

Le emozioni, anche le più difficili, non vogliono essere cancellate: vogliono essere attraversate. E noi possiamo imparare a essere presenze capaci di stare, di reggere, di restare umane proprio quando il dolore chiede accoglienza.

E se senti di non saperlo fare, non colpevolizzarti. Siamo tutti apprendisti nella relazione con l’altro. Ma possiamo imparare. Possiamo crescere nella nostra capacità di amare anche il dolore, anche la parte spigolosa dell’esistenza. Nel mio libro “Il mondo con i tuoi occhi” ho dedicato un intero percorso a questo: imparare a guardare le emozioni non con gli occhi della cultura del “forza e coraggio”, ma con quelli dell’empatia, della lentezza, della cura. Perché ogni parola, ogni gesto, ogni silenzio può diventare uno strumento di guarigione — se nasce da uno spazio vero, profondo e umano. Il mio libro è disponibile in libreria e qui su Amazon

E se ti va, seguimi sul mio profilo Instagram: @anamaria.sepe.
Ti aspetto lì per continuare il viaggio.