Il vittimista è una persona che non sa assumersi le sue responsabilità, scarica le colpe sugli altri (a volte apertamente, altre volte in maniera più sottile), usa una comunicazione passiva aggressiva e riesce a svilire chiunque. La sua comunicazione non è espressione d’intenti, non esprime richieste chiare, dirette e comprensibili, bensì è un mezzo per veicolare rabbia, frustrazione o disapprovazione in modo indiretto. Le frasi tipiche associate al vittimista possono sembrare innocenti o addirittura gentili ma nascondono sempre un sottofondo negativo, ostile, punitivo e svilente. Il vittimista, infatti, si sente costantemente oppresso, ingiustamente trattato, così colpevolizza chiunque gli si trovi intorno, soprattutto amici e affetti più vicini. In questo articolo, esploreremo alcune delle frasi più comuni utilizzate nel linguaggio del vittimista (che usa una comunicazione passiva aggressiva) e analizzeremo l’impatto che ha sull’altro.
La critica mascherata: ti offendo ma nego di averlo fatto
Uno dei tratti distintivi del linguaggio passivo-aggressivo è la sua abilità nel porre critiche in modo indiretto. Ad esempio, una frase comune potrebbe essere: «wow, questo vestito ti sta benissimo nonostante le tue forme», oppure «terminare gli studi per una provincialotta come te deve essere stata una grande soddisfazione». A prima vista, sembrano un complimento ma c’è un sottinteso di critica che lascia sempre disorientato l’interlocutore. Il linguaggio passivo-aggressivo spesso si basa sull’utilizzo di aggettivi come “interessante” o “diverso” per comunicare disapprovazione senza dirlo apertamente e c’è sempre un “ma” che termina la frase.
Altri esempi
Altre affermazioni tipiche potrebbero includere: «devo prendere atto della tua perseveranza, dopo tutti quei fallimenti…» o «hai davvero una bella immaginazione». Queste frasi, apparentemente innocenti, possono nascondere una critica sottile che può essere dolorosa per chi le riceve. Il vittimista ha uno scopo: far passare un messaggio negativo senza assumersi la responsabilità diretta della critica. Cosicché, se l’altro gli fa notare qualcosa, potrà prontamente negare i suoi intenti offensivi e affermare: «io?? Ma sei impazzito? Come sei permaloso? Non ti si può dire niente…? Ma non ti va mai bene niente?».
La teatralità
Se quando criticano lo fanno in modo occulto, quando si complimentano, lo fanno in modo teatrale. Il vittimista utilizzerà mille parole quando potrebbe dire semplicemente «ben fatto!». Userà, per complimentarsi, paroloni pomposi, superlativi, condirà il complimenti per rafforzare ai tuoi occhi, un’immagine di sé “completamente buona”. Sì, i vittimisti utilizzano molto la lusinga per ottenere la benevolenza altrui.
Quindi, quando criticano lo fanno in modo nascosto, mentre se c’è qualcosa di buono (complimenti o gesti) lo fanno in modo da essere notati. Con questa modalità, si crea una dissonanza. Cosicché, quando utilizzano delle critiche nascoste e tu lo fai notare, possono dire: «ma dai, eppure io ti dico sempre che…? Sei fissato… Sei tu che…», il copione perfetto per far passare se stesso come la vittima incompresa e tu l’ingrato di turno.
Le frasi che evitano l’impegno e la procrastinazione
Un’altra caratteristica del vittimista è l’uso di frasi che evitano la responsabilità. Questo tipo di comunicazione può essere frustrante per coloro che cercano una risposta chiara o una presa di posizione definitiva. Ad esempio, la frase «farò del mio meglio» può sembrare un impegno, ma in realtà è vaga e non specifica.
Altre frasi comuni in questo contesto includono: «lo sai che devo fare un milione di cose, vedrò cosa riesco a fare», «Potrebbe essere possibile» o «Non posso fare nulla al riguardo» (quando è palese il contrario). Queste frasi sembrano offrire una risposta, ma in realtà evitano di assumersi la responsabilità di un’azione o di una scelta definitiva. Certo che queste frasi vanno contestualizzate: se alla frase segue impegno reale e concretezza, allora non si tratta di un atteggiamento vittimista. Ciò che invece accade spesso con il vittimista è questo: al vago impegno iniziale segue un polverone, mille messaggi, imprese raccontante nei dettagli ma, alla fine, un buco nell’acqua.
Se, invece, segue un comportamento di procrastinazione, sappi che non ci sono dubbi: hai a che fare con un vittimista passivo aggressivo. L’aggressività nascosta può manifestarsi in modi insospettabili, i più occulti (e anche i più comuni) sono:
- Dimenticanze (ops… l’ho scordato!)
- Procrastinazione (sì sì, poi vengo… poi faccio questo e quello… poi.. poi.. poi…)
- Inefficienza (all’apparenza non riescono a organizzarsi, sono sciatti, svogliati…)
Il sarcasmo corrosivo
L’ironia è divertente, innocente, fa divertire tutti. Nel sarcasmo c’è sempre qualcuno che subisce. Il sarcasmo è spesso utilizzato dal passivo-aggressivo per svilire e ferire in modo implicito e indiretto. Come è ormai chiaro, il passivo aggressivo è passivo! Quindi non riesce ad assumere una posizione, non riesce ad affermarsi è dire in modo fermo ma calmo: «senti, questa cosa non mi va di farla…», allora ti promette che la farà e poi rimanda. Analogamente, non riesce ad essere onesto con se stesso e dirsi: «sono frustrato e mi sento impotente, allora sposto la mia frustrazione sugli altri».
Il sarcasmo, gli serve proprio a questo, a sfogarsi sui malcapitati di turno, ad alleviare le sue sofferenze
Ancora una volta, le frasi sarcastiche possono sembrare scherzose, magari attirano anche la simpatia di qualcuno… ma contengono SEMPRE un grosso fondo di rabbia. Ad esempio, la frase «WOW, addirittura sai stirare, allora sai fare tutto» oppure «wow, se anche tu hai preso il nuovo smartphone…». Queste esclamazioni sarcastiche potrebbe sembrare un complimento, ma in realtà sono critiche velenose verso qualcuno che è ritenuto incapace. Un altro esempio di frase sarcastica, in caso di errore o di una piccola sbavatura: «come al solito hai fatto un lavoro eccellente, bravo».
È sempre colpa tua
Il vittimista, come premesso, non usa la comunicazione per fare richieste chiare e dirette, bensì per esprimere rancore, rabbia, frustrazione e soprattutto per colpevolizzare. Le richieste del vittimista sono sempre molto vaghe, in realtà neanche lui/lei sa bene ciò che vuole. Allora cosa fa? Per non prendersi la responsabilità della scelta, fa in modo che sia tu a scegliere per lui/lei, per poi… però… dirti che hai sbagliato! Che avrebbe preferito l’esatto opposto. Allora perché non l’ha detto prima? Se gli parli, ti dirà che lo aveva fatto… ma tu eri attento e sai bene che non l’ha detto se non in modo molto vago. I vittimisti, nell’esprimere i propri intenti, infatti, dicono tutto e il contrario di tutto. Non esprimono con chiarezza ciò che vogliono perché non sanno prendersi la responsabilità di nulla, neanche di un desiderio.
Si affaticano e gestiscono tutto
I vittimisti, spesso, si caricano di cose da fare, gestiscono qualsiasi cosa in prima persona solo per poter dire che gli altri non sono supportivi. In realtà, come già detto, non riescono a fare richieste chiare, sono frettolosi, disorientanti e soprattutto sentono il bisogno di gestire tutto in prima persona per sottolineare la loro importanza e l’assenza degli altri «in questa casa devo penare a tutto io». Ma se si prova a proporre delle ripartizioni di compiti, il vittimista farà in modo di sabotarla, perché non è ragionevolmente adattato al lavoro di squadra.
Il vittimismo patologico: come uscirne?
Il vittimismo patologico è un’autentica sciagura sia per chi lo vive in prima persona, sia per chi lo subisce in modo indiretto. Il vittimista ha sicuramente un passato di difficoltà, deprivazioni e rinunce. Sicuramente, in un periodo della sua vita, è stato vittima di un trattamento ingiusto, molto doloroso. Purtroppo, però, invece di evolversi e lasciare andare quel dolore, ha finito per indossarlo come se fosse un pesante vestito impossibile da togliere. Così facendo, ha trasformato un’esperienza dolorosa che gli è capitata tanti anni fa, nella sua unica realtà conosciuta.
Eppure, nessuno di noi dovrebbe lasciarsi definire dal dolore sperimentato. Ognuno di noi merita la sua fetta di felicità ma -ahimé- nella vita non c’è nessuno che viene a portartela su un vassoio d’argento. Il più delle volte, quella fetta di felicità bisogna costruirsela e per farlo sono necessarie assunzioni di responsabilità, trasformazioni dolorose, consapevolezze e modalità di vivere del tutto inedite. Per cambiare, bisogna essere disposti ad attraversare quel dolore mai elaborato fin in fondo. Solo quando la sofferenza non viene elaborata entra a far parte di noi e ci rimane addosso, proprio come un vestito.
Quando il vittimista è una persona cara, ci si sente disorientati, ingiustamente colpevolizzati, trascinati in un circolo vizioso pericoloso, fatto di affetti negativi travolgenti. Il fatto è che quando eravamo bambini, allora sì, la nostra soddisfazione dipendeva dagli altri. Nel mondo degli adulti, ognuno è responsabile del proprio appagamento. Quindi nessuno dovrebbe farsi carico del dolore altrui e nessun adulto dovrebbe pretendere che qualcun altro faccia il “lavoro sporco” per lui, assumendosi colpe che non ha e abbracciando l’impresa impossibile di dare felicità a chi alla felicità ha inconsapevolmente rinunciato quando ha deciso di rinunciare alla responsabilità di sé.
Chi rinuncia all’idea di essere responsabile di se stesso, rinuncia anche alla possibilità di una vita appagante. Ecco, allora ognuno di noi dovrebbe prendere in carico se stesso, prendersi in carico la responsabilità del proprio benessere! Questa assunzione di responsabilità finirà per fare una cernita nella propria vita, una selezione naturale dei legami, trattenendo solo persone genuine (non colpevolizzanti e che, come noi, hanno imparato a prendere in carico se stessi).
Puoi continuare a vedere te stesso e il mondo come ti hanno insegnato o cominciare a guardarlo con i tuoi occhi
Comprendersi sembra facile, eppure, alcuni di noi sono estremamente complessi, si portano dentro una moltitudine di sfaccettature non sempre facili da «gestire». Alcuni di noi, poi, si portano dentro dei carichi emotivi enormi, che stanno lì da chissà quanto tempo, troppo ingombranti e troppo pesanti da poter districare. In questi casi potrebbe essere saggio fare un profondo lavoro su se stessi.
Allo scopo di guardarci dentro senza la lente distorsiva delle credenze interiorizzate durante l’infanzia, abbiamo bisogno di individuare quei meccanismi di difesa che, tendendoci trappole e autoinganni, ci portano a vedere noi stessi e il mondo con un occhio esterno, che, proprio come il cammino che ci siamo ritrovati a seguire, non è il nostro!
Come riuscirci?
Iniziando a guardare il “mondo con i tuoi occhi“. In realtà, questo è il titolo del mio nuovo libro, un testo che intende offrirti tutti gli strumenti per analizzare te stesso, i tuoi vissuti emotivi e le tue storie relazionali, dall’infanzia all’età adulta. Intendiamoci, un libro non può cambiarti la vita ma può aiutarti a costruire relazioni migliori, con te stesso e con gli altri.
Il cambiamento, poi, sarà inevitabile. Non ti dico questo perché sono di parte, te lo consiglio da lettore a lettore. Il libro, «Il mondo con i tuoi occhi», è disponibile su Amazon e in tutte le librerie. Curare i nostri legami, le nostre ferite, i nostri conflitti… curare il nostro benessere, è un dovere imprescindibile che abbiamo verso noi stessi. Nel libro, troverai molti esercizi psicologici pratici che potranno aiutarti in mondo tangibile fin da subito. Per tutte le informazioni sul libro “Il mondo con i tuoi occhi“, ti rimando a questa pagina Amazon.
Autore: Anna De Simone, psicologo esperto in neuropsicobiologia
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