Titolo: Halston
Miniserie di 5 puntate
Anno: 2021
Regina: Daniel Minahan
Temi trattati: identità, dipendenza, omosessualità, dissolutezza, emarginazione, autodistruzione, autosabotaggio, traumi infantili, sogno americano.
Voto: 4/5
Colonna sonora: 5/10
Serie tratta dal libro biografico del 1991, «Simply Halston: The Untold Story», scritto dal giornalista Steven Gaines. Per la realizzazione della miniserie, i creatori si sono avvalsi delle testimonianze di amici e collaboratori di Halston come la ex modella senza tempo Karen Bjornson.
La trama
La miniserie racconta della vita di Roy Halston Frowick, noto semplicemente come Halston (interpretato da Ewan McGregor). Prima di diventare un celebre stilista di successo e di fondare il suo impero della moda, Halston era solo un bambino che realizzava cappelli per la sua triste madre.
I cinque episodi ripercorrono l’ascesa, il successo e poi il declino di Halston, il tutto in un contesto ricco di creatività: ci troviamo tra il 1970 e il 1980, gli anni di Richard Avedon, Andy Warhol, della liberazione gay e dei blue jeans. L’ambiente in cui prospera Halston è fatto da apparente eccentricità, tangibili eccessi e promiscuità. La popolarità di Halston esplose nel 1961, quando Jacqueline Kennedy, si mostrò in diretta tv con un cappellino Halston chiamato pillbox hat.
Non è la storia del classico genio eccentrico volto agli eccessi ma è la storia di un genio della moda che non ha mai avuto la possibilità di elaborare i traumi della sua infanzia. Dove vederla? Su Netflix.
Rassegna psicologica e vita vera di Halston
Attenzione!
Quanto riportato di seguito andrebbe letto solo dopo la visione della serie. La spiegazione delle dinamiche psicologiche e i profili dei personaggi sono ricchi di spoiler.
Prima di raggiungere l’alta moda di New York, Halston aveva seguito le lezioni serali della School of the Art Institute di Chicago e lavorato come vetrinista, ancora prima aveva frequentato l’Illinois University senza mai terminare gli studi. L’infanzia l’aveva trascorsa nella città di Des Moines (Iowa), in una famiglia semplice, figlio di padre contabile e madre casalinga. Insomma, Halston non era cresciuto nella raffinatezza e nel lusso, eppure alla fine degli anni ’60 riuscì ad aprire la sua prima botique sulla Madison Avenue di New York. Peccato aver portato le sue ferite con sé: per quanto possa essere arrivato lontano, Halston non era mai realmente riuscito ad allontanarsi dal suo ruolo e dalla sua ferita originaria (quella del rifiuto) e questo è un fatto che il registra mostra in ogni episodio.
Partiamo dall’inizio: nel primo episodio Halston, già alla ribalta per le vendite del suo cappello pillbox, si avvicina a un uomo di colore di ceto sociale basso. Questo è il tema che accompagna ogni altra puntata: Halston ama circondarsi di emarginati e disadattati perché egli stesso non ha mai smesso di sentirsi “un diverso, un emarginato, un rifiutato”.
Le testimonianze raccolte per comprendere meglio la biografia del soggetto, raccontano di un uomo schivo, introverso che anche quando andava alle serate al famoso Studio 54, si intratteneva seduto sui divani con pochi intimi. Halston, infatti, non partecipava alle serate di gala che accoglievano tutti gli stilisti e artisti dell’epoca, non vedeva l’opera o il balletto, non partecipava ai grandi eventi artistici. Con le parole, Halston affermava di sentirsi al di sopra degli eventi modaioli e di non averne alcun interesse. Nelle realtà dei fatti, Halston si univa a personaggi emarginati perché con questi si sentiva più a suo agio.
Nonostante le buone intenzioni iniziali e la volontà di perseguire un unico obiettivo (disegnare abiti, portare in alto il suo brand), Halston si lascia trascinare nella trappola della dipendenza da sostanze. Con questa svolta, la miniserie ci mette dinanzi a una realtà che tutti noi affrontiamo almeno una volta nella vita: la dissolutezza. Ognuno di noi, almeno una volta nella vita, si è trovato a dover scegliere se perseguire le scelte giuste o lasciarsi andare a quelle sbagliate. La dissolutezza, per ognuno di noi, può avere una misura diversa, solo chi ha grosse ferite si ritroverà a scegliere tra la perdizione più totale e una vita più faticata ma anche più sana. La perdizione ti spinge verso la fuga, l’evasione, l’ottundimento dei sensi al fine di non connettersi con le parti più emotive di sé. Gli eccessi sono sempre interpretabili come una fuga da ciò che ci portiamo dentro.
E’ questo ciò che è successo ad Halston. Si fa presto a parlare di abuso di sostanze, ma è molto più complesso spiegare perché ci si ritrova in quel vortice dissoluto e perché per taluni diviene così difficile uscirne. Certo, la dipendenza è anche fisica ma spesso il problema reale è di origine emotiva, altrimenti per disintossicarsi basterebbe sostituire la sostanza che crea dipendenza con appositi e dosati farmaci (come tentano di fare in alcuni centri di recupero). La dipendenza non è dalla sostanza ma è dalla fuga della realtà che la sostanza offre.
Da cosa stava scappando Halston? Dal dolore del passato, un dolore che non ha mai avuto la possibilità di affrontare proprio perché immerso in quella fuga. Non è un caso che nelle cinque puntate, Halston non si è mai recato a salutare la madre, una madre che amava profondamente ma dalla quale aveva scelto la lontananza. La vicinanza fisica avrebbe aperto molte ferite.
Curioso il fatto che da bambino prima e da adulto poi, Halston volle concentrarsi sulla creazione di cappelli. La psicoanalisi vede il cappello come un simbolo di protezione, qualcosa che si indossa per proteggersi dal dolore, come uno scudo o un elmo.
La miniserie ci fa riflettere anche sull’impatto che hanno le persone che scegliamo di frequentare. Halston, circondandosi di disadattati, non ha aiutato la sua crescita e ha seguito una traiettoria autodistruttiva. Tra i i rapporti più lesivi figura quello con il truccatore Victor Hugo (nome d’arte di un immigrato messicano). Victor Hugo, tra alti e bassi, ha militato nella vita di Halston per una decina di anni, ed è stato il principale spettatore del declino di Halston.
La vita vera di Halston e l’identità rubata, due volte
Se da bambino l’identità di Halston gli fu rubata dalla paura e dal dolore legato a genitori emotivamente non disponibili, da adulto fu quella stessa paura e quello stesso dolore a fargli perdere, ancora una volta, la sua identità. Alla fine degli anni ’80, il nome Halston non apparteneva più al suo proprietario, il nome, ormai divenuto brand, apparteneva a una multinazionale della moda.
Halston morì per una complicanza dell’HIV, nel 1990, all’età di solo 57 anni. La storia di Halston è un esempio tangibile ed eclatante di come l’infanzia impatta maestosamente sull’intero arco della vita.
Secondo il padre della psicoanalisi S. Freud, l’inconscio è atemporale, ciò significa che per la parte più vulnerabile di noi il tempo è come se il tempo non passasse mai, così, un dolore, se non elaborato, non si attenua ma si amplifica e lavora in sottofondo fino a guidarti nelle scelte che compi nella vita. In pratica, possiamo scappare da dove siamo cresciuti, possiamo cambiare classe sociale, colore della pelle o reddito, ma se non usciamo da certi schemi mentali, una parte di noi resterà sempre ferma lì.
Questo articolo è parte della rubrica cinematografica e delle serie tv di Psicoadvisor, curata dalla dott.ssa Anna De Simone. Se ti è piaciuto questo articolo, puoi seguirci su Facebook: sulla Pagina Ufficiale di Psicoadvisor e sul profilo FB della psicologa Anna De Simone