Qualcuno potrebbe considerare i vestiti come frivoli, banali e irrilevanti, quindi privi di una seria considerazione. Eppure, donne e uomini, ogni giorno, trascorrono tempo a scegliere cosa indossare e a guidare quella scelta sarebbero fattori legati all’umore e l’auto-percezione.
Molti considerano la personalità come un qualcosa di nascosto, impercettibile dall’esterno. In realtà tutto ciò che facciamo e scegliamo parla di noi e può svelare importanti dettagli del nostro modo di essere. Secondo dati empirici, l’abbigliamento che scegliamo riflette l’immagine che abbiamo costruito di noi. Non solo, Il nostro modo di sentirci incide sulla scelta degli abiti e quelle scelte, a loro volta, rinforzano il modo in cui ci percepiamo fino a influenzare finanche l’umore.
Il corpo come un oggetto di piacere
Alcuni di noi danno molta importanza all’aspetto fisico, altri tendono a trascurarlo, ma il corpo è lì, in ogni caso è soggetto agli sguardi altrui. Fin dalla notte dei tempi, il corpo è stato considerato uno strumento di piacere. Parliamo infatti di piacere della carne per fare riferimento a sensazioni meramente fisiche. Per questo motivo, il corpo è stato spesso oggettificato, cioè usato come mero strumento di piacere. Osservando l’abbigliamento altrui, si può comprendere dove arrivano eventuali livelli di auto-oggettivazione.
L’espressione «oggettivazione» è stata utilizzata per la prima volta nel 1785 dal filosofo Immanuel Kant, il quale affermò che quando una persona viene considerata solo come mezzo di soddisfacimento del piacere, allora si può parlare di oggettivazione. Nel 1977 Fredrikson e Roberts introdussero la “Teoria dell’oggettivazione” nell’ambito della psicologia. Vennero mostrati i processi cognitivi e motivazionali delle persone che considerano altri soggetti come dei meri oggetti di piacere e, al tempo stesso, le conseguenze psicologiche sulle vittime che vengono oggettificate. Successivamente, analizzando i processi cognitivi, gli studi hanno dimostrato una tendenza ad auto-percepirsi come oggetti di gratificazione.
Molte ricerche hanno dimostrato una chiara relazione tra come le persone vivono il proprio corpo e i vestiti che scelgono. Ma attenzione a non cadere nei cliché, le apparenze ingannano e chi indossa vestiti provocanti potrebbe esprimere qualcosa di diverso.
Il sé fisico
Quello del sé fisico, in psicologia, è un concetto molto studiato. Il sé fisico o sé materiale, ha origine dalla percezione corporea del soggetto, dalla sua consapevolezza del corpo fisico, dell’ambiente sociale e dei beni materiali posseduti. Il sé fisico è la rappresentazione e la definizione di come appariamo agli altri (e a noi stessi).
Nella misura in cui gli abiti servono a uno scopo sociale, assolvono anche uno scopo comunicativo: esprimono chi siamo ( Entwistle, 2000 ) e così possono essere interpretati come una manifestazione comportamentale di auto-oggettivazione. L’uso del corpo umano come mezzo per piacere agli altri è divenuto ormai una consuetudine. La cultura contemporanea ha interiorizzato l’oggettivazione, cioè il concetto di vedere il corpo come uno strumento, un oggetto. La prima conseguenza concreta di questa tendenza è il tanto discusso body-shaming: la vergogna del proprio corpo, che viene costantemente osservato e giudicato da sé stessi e da altri soggetti.
Posta in rilievo l’importanza del sé fisico, l’idea che i vestiti possano contribuire ad auto-definirci è del tutto innegabile. In questa definizione di sé, la scelta degli abiti che indossiamo viene guidata da fattori come:
- Il comfort, la voglia di indossare vestiti comodi
- La sicurezza che il capo trasmette, gli abiti che aumentano la fiducia in se
- La voglia di piacere e di essere alla moda
- L’individualità, la voglia di indossare un capo che possa contraddistinguere
- Il Camouflage, la tendenza a indossare abiti per mascherare difetti fisici percepiti
In effetti se ci soffermiamo a riflettere, nel nostro armadio abbiamo abiti che ci fanno sentire più sicuri, capi alla moda per stupire tutti e abbigliamento destinato alla praticità. Le persone che sentono il bisogno di distinguersi, poi, hanno abiti che possano caratterizzarlo. Anche la scelta della taglia è fortemente indicativa e riferisce la percezione delle forme corporee.
«Solo per i tuoi occhi» – Abiti alla moda provocanti
La logica alla base della scelta degli abiti è questa: «mi vesto come piaccio agli altri, solo per i loro occhi, perché se piaccio agli altri, posso accettarmi».
Un autorevole studio (Tiggemann e Andrew, 2012), ha analizzato un campione di giovani donne americane al fine di indagare la relazione tra la scelta dei vestiti e l’oggettificazione. L’oggettificazione fa riferimento all’interiorizzazione della prospettiva dell’osservatore, così una persona può scegliere di indossare determinati vestiti solo per come pensa che sarà rappresentata dall’altro. Il concetto di oggettificazione nasce con connotazione sessuale: il corpo come oggetto di piacere. Oggi, l’oggettificazione del corpo è divenuta ormai la norma, così la connotazione sessuale è ormai implicita e tende a passare inosservata.
Lo studio ha osservato che le giovani che tendono a scegliere vestiti alla monda, hanno anche una visione più oggettificata di sé. Un ulteriore ricerca (Smith et al., 2017) indagando fattori come l’accettazione e la desiderabilità sociale, ha messo in evidenza che ragazze e giovani donne subiscono pressioni sociali che influenzano cosa indossare e come truccarsi. In particolare, le giovani donne tenderebbero a indossare abiti provocanti e alla moda per apparire più sexy e farsi accettare. In questo contesto scatta un meccanismo psicologico pericoloso perché essere accettati dall’altro, per queste donne, coincide con l’accettazione di sé.
L’accettazione di sé, in realtà, dovrebbe essere qualcosa di completamente scisso dal desiderio di piacere. L’idea che passa è questa: io mi accesso solo se piaccio agli altri. Questa prima osservazione fa riflettere. Quando notiamo una giovane donna con vestiti provocanti e magari trucco marcato, tendiamo a pensare che sia molto sicura di sé, pronta ad aggredire il mondo… in realtà quella giovane donna si sente estremamente insicura e sta subendo eccessive pressioni sociali. Gli abiti le regalano una provvisoria sicurezza.
In palestra, indossi abiti stretti o larghi?
La ricerca di Prichard e Tiggemann (2005) ha scoperto che chi pratica sport in palestra con abiti attillati, presenta livelli di auto-oggettificazione più elevati, così, indossa abbigliamento stretto per mettere in risalto le sue forme, o meglio, il suo strumento corporeo. Al contrario, i soggetti che in palestra indossano abiti larghi, presentano livelli di auto-oggettificazione inferiori.
Chi tende a indossare più spesso vestiti pratici
La formulazione iniziale della teoria dell’oggettivazione, (Fredrickson e Roberts, 1997) ha ipotizzato che l’abbigliamento potesse essere usato come strategia dalle donne per diminuire consapevolmente sia l’oggettivazione da parte degli altri. Le donne che indossano vestiti larghi, cercano, in qualche modo, di passare inosservate. Vorrebbero apparire per ciò che hanno dentro e non per come sono fuori.
Noi diventiamo ciò che indossiamo
Una ricerca condotta presso l’Università di Hertfordshire, in Inghilterra, ha dimostrato che l’abbigliamento può influenzare la percezione che abbiamo di noi stessi e delle nostre capacità. Durante alcuni esperimenti è stato osservato che chi indossava un camice bianco, otteneva migliori risultati in matematica, così, vestirsi in modo più professionale può indurci ad assumere atteggiamenti più professionali.
Durante l’esperimento è stato chiesto ad alcuni soggetti di stimare la quantità di peso che potevano sollevare. Sembra bizzarro da affermare ma… Quando questi indossavano una maglia di Superman, tendevano a fare valutazioni più ottimistiche. Secondo l’autore della ricerca: «Questi studi confermano che non solo noi siamo quello che vestiamo ma diventiamo quello che vestiamo». Per concetti più pratici, potrebbe interessarti la lettura dell’articolo: correlazioni tra scarpe e personalità.
A cura di Ana Maria Sepe, psicoanalista
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