Perché abbiamo bisogno di avere relazioni sociali significative? E perché il timore di essere rifiutati e quindi esclusi da un gruppo ci fa così tanto soffrire? “L’uomo è un animale sociale”, sosteneva Aristotele nella sua “Politica” già nel IV secolo a.C., sottolineando l’importanza della sfera sociale all’interno della vita di ogni individuo. Quindi, ognuno di noi per poter vivere una vita serena e felice, deve effettivamente sentirsi parte di un gruppo sociale.
Il bisogno di appartenenza
Il bisogno di accettazione e appartenenza ad un gruppo sociale, così come la necessità di sentirsi sicuri all’interno delle relazioni interpersonali, sono delle caratteristiche essenziali che accomunano tutti gli esseri umani e che motivano i comportamenti che ognuno di noi mette in atto quotidianamente.
La possibilità di soddisfare in modo adeguato questi bisogni gioco un ruolo cruciale sul nostro sviluppo, sul nostro benessere e sulle modalità con le quali reagiamo al mondo che ci circonda. Una delle maggiori minacce al soddisfacimento di questi bisogni è il rifiuto che ognuno di noi può subire da parte degli altri: fare esperienze ripetute di diverse forme di rifiuto sociale nel corso della vita contribuisce a generare ciò che viene definito la sensibilità al rifiuto.
Sensibilità al rifiuto: reazioni ansiose o aggressive
La sensibilità al rifiuto è stata definita come una disposizione individuale ad aspettarsi con preoccupazione, a percepire con elevata rapidità e a reagire con altrettanta intensità a diverse forme di rifiuto. La sensibilità al rifiuto non è un tratto che si ha o non si ha, va immaginata come una dimensione all’interno della quale ognuno di noi si può collocare, un continuum.
Le persone che sono caratterizzate da bassi livelli di sensibilità al rifiuto appaiono estremamente controllate di fronte a diverse forme di rifiuto sociale. Per contro, le persone caratterizzate da alti livelli rispondono spesso in modo disadattivo al rifiuto, compromettendo in tal senso il proprio benessere e le relazioni con gli altri.
Gli individui che nella loro vita hanno purtroppo sperimentato diverse forme di rifiuto, soprattutto se dalle persone ritenute di grande importanza nella loro vita, sono inclini a sviluppare delle reazioni difensive al rifiuto, per lo più di natura ansiosa o aggressiva.
In particolare, quanto più la sensibilità al rifiuto risulta essere marcata, tanto più la persona sarà incline a percepire nell’ambiente ogni indizio che può richiamare a possibili rifiuti da parte degli altri. Di conseguenza, quanto più la sensibilità al rifiuto è elevata, tanto più la persona tenderà ad interpretare ogni segnale all’interno delle relazioni interpersonali come un effettivo rifiuto.
Questo assetto conduce a sviluppare particolari pensieri (es. “cosa ho fatto per essere rifiutato?” “è mai possibile che incontro sempre persone che non mi capiscono…”) ed emozioni (es. sentirsi feriti, arrabbiarsi, offesi) che compromettono il benessere della persona e spingono a mettere in atto dei comportamenti (es. ritiro sociale, aggressività verbale o fisica) che compromettono le relazioni nelle quali la persona è ingaggiata.
Certamente, le situazioni interpersonali all’interno delle quali vi è la reale possibilità di essere rifiutati rappresentano il contesto nel quale si può descrivere al meglio questo costrutto.
Le persone caratterizzate da elevata sensibilità al rifiuto si sentono spesso esposte ad una possibile minaccia; questo senso di minaccia è solitamente associato a un crescente stato emotivo negativo di allerta che guida l’individuo a cercare di controllare la situazione, andando a ricercare ogni possibile indizio che conferma la sua tesi di essere stato effettivamente allontanato, escluso.
La profezia che si auto-avvera
Questo stato di allerta comporta spesso un amplificazione delle intenzioni altrui, portando ad interpretare segnali ambigui come degli assoluti rifiuti o abbandoni. In questo stato, la persona si trova in maggiore difficoltà nell’utilizzare delle abilità riflessive, e coerentemente con la presenza di una minaccia, reagisce in modo automatico con comportamenti di fuga o di aggressione, generando così un reale abbandono o rifiuto.
In questo senso, quindi, le persone caratterizzate da un’elevata sensibilità al rifiuto vivono in quella che potremmo definire una dolorosa “profezia che si auto-avvera”, confermando così costantemente le proprie aspettative e convinzioni, al caro prezzo di un crescente stato di insoddisfazione e di una profonda e rovinosa caduta della propria autostima.
Uno dei meccanismi che sembra sostenere questa tendenza a ricercare ostinatamente indizi negativi è spiegato da un bias attentivo. Quando la persona sensibile al rifiuto scorge un indizio di abbandono o esclusione… puff, tutte le altre informazioni contestuali perdono di significato.
Se fino a quel momento si stava avendo una piacevole conversazione con il proprio partner, l’aver scorto in un suo sguardo un leggero disinteresse o un segno di disapprovazione innesca una valanga emotiva; ci si ritrova travolti dalla sensazione di non essere più apprezzati, di essere in procinto a una catastrofe che condurrà la relazione sentimentale a una inevitabile rottura.
Una strategia funzionale
Una delle strategie che possiamo impiegare per controllare questa oscillazione consiste proprio nel controllo dell’attenzione.
Ognuno di noi, in ogni momento della propria vita, è in grado di rinforzare il controllo cosciente della propria attenzione; nel nostro esempio, avere un maggiore controllo attenzionale vuol dire essere consapevoli del nostro livello di sensibilità al rifiuto e chiedersi quanto tendiamo a vivere le relazioni con gli altri in senso minaccioso. Se ci accorgiamo di questo nostro atteggiamento automatico dinanzi a segnali (anche apparenti) di rifiuto, possiamo scegliere di non reagire d’impulso, ma di riflettere su cosa sta succedendo, prenderci del tempo per ricostruire cosa è appena successo e cercare dei significati alternativi per poter spiegare i comportamenti dell’altro.
Federica Rossi, psicologa specializzata in Neuroscienze Cognitive
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